La Procura di Genova ha notificato 69 avvisi di conclusione delle indagini: spunta pure la nuova accusa di omicidio stradale. L'intercettazione tra i manager sugli esordi dei Benetton nel business trasporti: «Ci ritenevano indegni e avevano ragione»
La Procura di Genova ha notificato 69 avvisi di conclusione delle indagini: spunta pure la nuova accusa di omicidio stradale. L'intercettazione tra i manager sugli esordi dei Benetton nel business trasporti: «Ci ritenevano indegni e avevano ragione»Le indagini sul crollo del ponte Morandi di Genova sono concluse e nell'incredibile mole di carte depositate dalla Procura c'è un'intercettazione che sembra il perfetto epitaffio per questa vicenda. A parlare, il 3 gennaio 2020, è settantasettenne top manager Gianni Mion, il dirigente che ha traghettato gli affari dei Benetton nel mondo dell'alta finanza e dei trasporti, dalle strade ai cieli: per decenni ai vertici della holding Edizione, nella quale ha operato dal 1986 al 2016 e, poi, di nuovo dal 2019 al 2020. Ebbene, parlando con Carlo Bertazzo, attuale amministratore delegato di Atlantia, la controllante di Autostrade per l'Italia, Mion ricorda la diffidenza con cui vennero accolti i Benetton quando entrarono nel mondo dei trasporti.Nella conversazione Mion è preoccupato perché l'ex ad di Aspi e Atlantia, Castellucci starebbe «seminando 'sto concetto», che per gli investigatori è «riconducibile alla consapevolezza degli azionisti Benetton su come venissero fatte le manutenzioni». E dice: «Il nostro problema è l'incompetenza di Gilberto (Benetton, ndr)». Ricorda quando l'ad di Aspi era Vito Gamberale e sui giornali avevano «cominciato a scrivere che i Benetton non volevano fare la manutenzione». A criticare la gestione erano soprattutto Guidalberto Guidi, allora vicepresidente di Confindustria e un certo «Solenghi»: «Guidi e... quell'altro, Solenghi (fonetico, ndr) che era ancora più incazzato, perché disprezzava l'impreparazione di Gilberto e gli rompeva le palle che questo qua, senza arte e né parte avesse assunto un ruolo così importante... mi ricordo benissimo! […] ci guardava proprio con fastidio e disturbo, e Solenghi..., perché proprio ci riteneva indegni di 'sta roba... e purtroppo, alla fine è venuto fuori che aveva ragione».Dalle carte, a parte i mea culpa del management dei Benetton, emerge chiaramente che quello del ponte Morandi è stato un crollo annunciato, che poteva essere evitato, salvando la vita di 43 persone, se fossero stati tenuti in considerazione gli allarmi (iniziati addirittura nel 1975) e se fossero stati effettuati gli interventi necessari. È tutto scritto nell'atto di chiusura delle indagini preliminari, notificato ieri dalla Procura di Genova ai 69 indagati per la tragedia del viadotto avvenuta il 14 agosto 2018. A costoro vengono contestati a vario titolo i reati di disastro colposo, falso materiale, ideologico e in documenti informatici, crollo doloso, attentato alla sicurezza dei trasporti, omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, omicidio colposo, lesioni personali colpose e la nuova accusa di omicidio stradale. Nell'elenco figurano pure gli ex vertici di Autostrade per l'Italia (Aspi, anch'essa indagata) Giovanni Castellucci, Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli.La mancanza di manutenzione è perfettamente fotografata dai magistrati: «Nel periodo compreso tra il 13 giugno 1991 e il crollo (9.924 giorni, 326 mesi, oltre 27 anni), in una sola occasione, nell'ottobre 2015 – e solo approfittando del contemporaneo svolgimento delle attività di consulenza affidate da Aspi a Cesi - erano state eseguite sulla pila 9 (del ponte Morandi, ndr) – cioè sull'unica non rinforzata in precedenza - sui soli stralli lato mare e soltanto in orario notturno, osservazioni dirette e ravvicinate dello stato di conservazione dei trefoli». E che la gravità della situazione fosse emerge anche, ricordano i pm, dal fatto che gli interventi necessari alla messa in sicurezza del Morandi avevano indotto il concessionario «a prendere in considerazione, nel 2003, anche l'ipotesi della demolizione del manufatto». Nel provvedimento, spesso anticipatore della richiesta di rinvio a giudizio, inoltre si legge: «La conseguente relazione (sulle osservazioni dirette e ravvicinate, ndr) evidenziava chiarissimi segnali d'allarme sulle condizioni degli stralli, accertando che tutti i trefoli che era stato possibile esaminare tramite i carotaggi risultavano “scarsamente tesati" e “si muovevano con facilità facendo leva con uno scalpello"». Il pool di toghe, il procuratore Francesco Cozzi, l'aggiunto Paolo D'Ovidio e i sostituti Massimo Fertile e Walter Cotugno, nel documento scrive: «Spea (Spea engineering, anch'essa raggiunta dal provvedimento, ndr) svolgeva tali attività di sorveglianza e di ispezione – nella piena consapevolezza e piena accettazione di Autostrade e Aspi - con modalità non conformi alla normativa vigente e, comunque, lacunose, inidonee e inadeguate in relazione alle specificità del viadotto Polcevera; in particolare, le ispezioni visive degli stralli venivano sistematicamente eseguite dal basso, mediante binocoli o cannocchiali, anziché essere ravvicinate “a distanza di braccio" e non erano pertanto in grado di fornire alcuna informazione affidabile sulle condizioni dell'opera». Ma non è finita qui, perché secondo l'accusa, tra l'entrata in vigore, nel 2011, di un decreto del presidente della Repubblica «in materia di lavoro in ambienti confinati, e il crollo, nessun ispettore era più potuto entrare all'interno dei cassoni sottostanti l'impalcato per verificarne le condizioni, non avendo Aspi e Spea provveduto allo svolgimento delle attività di formazione professionale e di addestramento imposte dalla normativa». «Ciò nonostante, i report trimestrali – del tutto privi di coordinamento ingegneristico con gli esiti delle prove riflettometriche e con altre evidenze emerse da diversi rilevamenti - continuavano a dare atto, contrariamente al vero», specificano i pm, «che tutte le parti del viadotto, compresi i cassoni, venivano regolarmente ispezionate». Dal provvedimento di chiusura delle indagini preliminari emerge una ricostruzione storica di interventi, pareri e studi sulla manutenzione del viadotto Polcevera, che porta quasi a definire la tragedia del 2018 un crollo annunciato. Il suo progettista, Riccardo Morandi, riteneva che i cavi d'acciaio fossero assolutamente protetti. Previsione «smentita a soli 8 anni di distanza dall'inaugurazione dell'opera e a 4 dalla conclusione delle operazioni di collaudo, da una relazione tecnica di Spea (società cui erano affidate le attività di sorveglianza e di ispezione della rete in concessione) in data 15 luglio 1975 (poi aggiornata in date 3 ottobre 1977 e 2 giugno 1978 ), la quale aveva verificato, anche lungo gli stralli, la presenza di fessurazioni nel calcestruzzo, con tracce di infiltrazioni di umidità, unite anche a ruggine». Quattro anni più tardi, era il 1979, lo stesso Morandi «aveva riconosciuto l'insorgere di “fenomeni aggressivi di origine chimica" sulle superfici esterne e aveva raccomandato di proteggerle con apposite vernici allo scopo di evitare l'infiltrazione di agenti aggressivi in grado di causare la corrosione dei cavi di acciaio interni». L'attività di indagine ha inoltre evidenziato quanto denaro pubblico e privato (leggere famiglia Benetton) è stato speso per gli interventi sul Morandi. «Tra l'inaugurazione del 1967 e il crollo – e, quindi, per ben 51 anni – non era stato eseguito il benché minimo intervento manutentivo di rinforzo sugli stralli della pila 9, e, nei 36 anni e 8 mesi intercorsi tra il 1982 e il crollo, gli interventi di natura strutturale eseguiti sull'intero viadotto Polcevera avevano avuto un costo complessivo di 24.578.604 euro». Così ripartiti: «Di questi 24.578.604 complessivi, 24.090.476 (cioè il 98,01%) erano stati spesi dal concessionario pubblico e solo 488.128 € (cioè l'1,99%) dal concessionario privato». Un capitolo a parte lo merita l'assicurazione sul Morandi siglata dal concessionario privato. «Il fatto che il viadotto Polcevera – almeno sino al completamento dell'intervento di retrofitting (rafforzamento, ndr) sugli stralli delle pile 9 e 10 – presentasse criticità e problemi, […] che certamente andavano aumentando con il passare del tempo, aveva indotto la stessa concessionaria ad elevare il massimale assicurativo relativo al viadotto Polcevera, a decorrere dal 2016, da 100 a 300 milioni di euro». Secondo l'accusa la tragedia dell'agosto 2018 poteva essere evitata, se gli indagati non avessero omesso: «Di adoperarsi affinché sul viadotto fossero eseguite attività di diagnosi del degrado […] ed installati impianti idonei a prevenire il cedimento dei tiranti, nonché sistemi di monitoraggio idonei a consentire un costante e adeguato controllo del suo comportamento, e in particolare affinché si procedesse sugli stralli della pila 9 a interventi che, se realizzati, avrebbero impedito con certezza il crollo».Alla fine, tra i top manager, il cerino in mano è rimasto a Castellucci, indagato e probabilmente futuro imputato. In un'altra intercettazione Mion dice ad Alessandro Benetton: «Castellucci non si rende neanche conto dove sta messo perché... io so delle cose… che succedono a Genova... che proprio, come dire? A lui converrebbe andare in qualche altro posto». Benetton: «Sì, gli converrebbe andare in Medio Oriente… a Dubai». Mion: «Esatto». Sipario.
Olivier Marleix (Ansa)
Pubblicato post mortem il saggio dell’esponente di spicco dei Républicains, trovato impiccato il 7 luglio scorso «Il presidente è un servitore del capitalismo illiberale. Ha fatto perdere credibilità alla Francia nel mondo».
Gli ingredienti per la spy story ci sono tutti. Anzi, visto che siamo in Francia, l’ambientazione è più quella di un noir vecchio stile. I fatti sono questi: un politico di lungo corso, che conosce bene i segreti del potere, scrive un libro contro il capo dello Stato. Quando è ormai nella fase dell’ultima revisione di bozze viene tuttavia trovato misteriosamente impiccato. Il volume esce comunque, postumo, e la data di pubblicazione finisce per coincidere con il decimo anniversario del più sanguinario attentato della storia francese, quasi fosse un messaggio in codice per qualcuno.
Roberto Gualtieri (Ansa)
Gualtieri avvia l’«accoglienza diffusa», ma i soldi andranno solo alla Ong.
Aiutiamoli a casa loro. Il problema è che loro, in questo caso, sono i cittadini romani. Ai quali toccherà di pagare vitto e alloggio ai migranti in duplice forma: volontariamente, cioè letteralmente ospitandoli e mantenendoli nella propria abitazione oppure involontariamente per decisione del Comune che ha stanziato 400.000 euro di soldi pubblici per l’accoglienza. Tempo fa La Verità aveva dato notizia del bando comunale con cui è stato istituito un servizio di accoglienza che sarà attivo dal 1° gennaio 2026 fino al 31 dicembre 2028. E ora sono arrivati i risultati. «A conclusione della procedura negoziata di affidamento del servizio di accoglienza in famiglia in favore di persone migranti singole e/o nuclei familiari o monogenitoriali, in possesso di regolare permesso di soggiorno, nonché neomaggiorenni in carico ai servizi sociali», si legge sul sito del Comune, «il dipartimento Politiche sociali e Salute comunica l’aggiudicazione del servizio. L’affidamento, relativo alla procedura è stato aggiudicato all’operatore economico Refugees Welcome Italia Ets».
2025-12-03
Pronto soccorso in affanno: la Simeu avverte il rischio di una crisi strutturale nel 2026
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iStock
Secondo l’indagine della Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza, dal 2026 quasi sette pronto soccorso su dieci avranno organici medici sotto il fabbisogno. Tra contratti in scadenza, scarso turnover e condizioni di lavoro critiche, il sistema di emergenza-urgenza rischia una crisi profonda.
Il sistema di emergenza-urgenza italiano sta per affrontare una delle sue prove più dure: per molti pronto soccorso l’inizio del 2026 potrebbe segnare una crisi strutturale del personale medico. A metterne in evidenza la gravità è Alessandro Riccardi, presidente della Simeu - Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza - al termine di un’indagine che fotografa uno scenario inquietante.
Ansa
Secondo indiscrezioni Stellantis valuta di usare l’alleato Leapmotor per produrre vetture elettriche a basso costo in Spagna da rivendere poi con lo storico brand italiano. La stessa operazione può riguardare Opel.
Perché Stellantis dovrebbe spendere tempo e risorse per sviluppare modelli full electric, quando ha a disposizione le vetture a batteria di Leapmotor che per costi e tecnologia sono le «migliori» in circolazione? La domanda circola da tempo negli ambienti più vicini alle cose della casa automobilistica italo-francese ed è diventata ancor più pertinente dopo il susseguirsi dei dati poco lusinghieri per le e-car in Italia.






