2019-03-28
Gli assegni versati dai fondi valgono il 30% in più delle pensioni targate Inps
A fine carriera e a parità di versamenti, il sistema nazionale fa perdere quasi un terzo del montante. Con quella somma mensilità più alte o ritiro anticipato.Non è un tabù passare al privato. Basta farlo un gradino alla volta. Non solo la spesa pensionistica tricolore è tra le più alte d'Europa, ma il sistema pubblico è pure inefficiente. Il sistema a capitalizzazione andrebbe integrato rispetto allo schema attuale per lasciare più libertà a tutti.Rendimenti medi del 2,5% ma si arriva al 22. Oltre 8 milioni di italiani usano la previdenza integrativa (+7%). Ecco le offerte sul mercato valutate da Fida.Lo speciale comprende tre articoli. Le pensioni italiane, non solo sono mediamente basse, ma sono per i conti pubblici anche estremamente onerose. Tanto che, secondo una indagine del Centro studi impresa lavoro, l'Italia è - tra i Paesi Ocse - quello che spende di più per la previdenza dei suoi cittadini rispetto al totale della spesa pubblica. Il dato apre la strada a una tradizione considerata fino a poco tempo fa di impronta anglosassone: quella della previdenza complementare. L'evoluzione di quest'ultima non solo consentirebbe di ridurre il peso sulle casse dello Stato, ma porterebbe a soluzioni interessanti da un punto di visto sia di ritorni economici sia di scadenze temporali. In pratica, le pensioni private rendono molto di più di quelle dell'Inps. Basta fare un confronto. Accoppiare i coefficienti di capitalizzazione delle pensioni Inps e fare la media degli ultimi cinque anni. Si ottiene un ritorno dello 0,33%. Nei quinquenni precedenti le percentuali non sono state dissimili. E si può dedurre che lo stesso varrà per il futuro. Al contrario il rendimento medio ponderato dei fondi pensione privati presenti sul mercato italiano ha superato il 2,6%. Immaginando di versare 10.000 euro di contributi allo Stato ogni anno e la stessa cifra a una controparte privata, a fine carriera (prendiamo a parametro la legge Fornero) il montante finale si differenzia addirittura di un 30%. Nel caso dello schema integrativo si arriva a 410.000 euro, molto più del montante Inps. Il che significa che si potrebbe andare in pensione con le tasche più gonfie oppure scegliere di andare in pensione con la stessa cifra che erogherebbe l'Inps con un anticipo di qualche anno. Una libertà non da poco che al momento è vietata dalla legge. Senza tenere conto di tale opportunità, la spesa per la previdenza pubblica potrebbe diventare insostenibile e il ricorso alle pensioni integrative potrebbe passare dall'essere un accessorio a un obbligo. Secondo lo studio, l'Italia, destinando ben il 31,9% della spesa pubblica totale alle pensioni, si colloca al primo posto di questa classifica. Il dato è molto superiore e quasi doppio rispetto a quello della media Ocse (18,1%). Spendono più di un quarto del totale della spesa per questa voce anche la Grecia (31,5%), il Portogallo (27,9%), l'Austria (26,2%) e la Spagna (25,3%). A destinare invece meno del 14% della spesa alle pensioni sono il Regno Unito (13,8%), l'Irlanda (12,5%) e i Paesi Bassi (11,7%), tutte nazioni dove il ricorso alla previdenza complementare è ben più radicato nella cultura dei risparmiatori. In prospettiva temporale le situazioni più preoccupanti sono quelle di Grecia e Portogallo che nell'anno Duemila spendevano quasi 10 punti percentuali in meno per pensioni rispetto al 2015 (o ultimo anno disponibile). In Italia, nello stesso periodo di tempo, la quota di spesa destinata al sistema pensionistico è cresciuta meno, solo di 2,3 punti percentuali. Non va meglio, ovviamente, anche se si confronta la spesa pensionistica con il prodotto interno lordo. L'esborso in percentuale al Pil è pari al 16,3%, un valore doppio rispetto alla media Ocse (8,2%) e inferiore solamente a quello della Grecia (17,4%). Anche Portogallo, Francia e Austria sborsano per la previdenza una quota significativa del reddito nazionale, intorno al 14%. I Paesi che destinano invece la minor quota di Pil alla spesa pensionistica sono (di nuovo, supportati da un mercato privato più sviluppato) l'Irlanda (4,9%), i Paesi Bassi (5,4%) e il Regno Unito (6,1%). Per quanto riguarda l'andamento tra gli anni Duemila e 2015, nei vari Paesi la spesa pensionistica su Pil è rimasta piuttosto stabile crescendo in media di 1,5 punti percentuali. Incrementi molto superiori alla media (tra i 7 e i 3 punti percentuali) si sono verificati invece in Grecia, Portogallo, Finlandia e Spagna. Al contrario, negli ultimi quindici anni presi in considerazione per i Paesi Ocse, la spesa pensionistica in rapporto al Pil è calata in Lettonia (-1,2 punti), Germania (-0,7 punti) e Polonia (-0,2 punti).Quali sono dunque le previsioni future sull'andamento della spesa pensionistica in rapporto al Pil? Qui un po' di ottimismo può esserci. Secondo uno studio pubblicato nel 2017 dal Ministero dell'Economia e delle Finanze («Le tendenze di medio lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario»), nel lungo periodo la spesa pensionistica in rapporto al Pil dovrebbe tendere a un progressivo calo, grazie alle riforme implementate e grazie a un rapido miglioramento in termini di occupazione e produttività. Il rapporto del Mef prevede infatti che la spesa pensionistica su Pil scenda raggiungendo il 15,5% nel 2019 (comunque troppo), conseguentemente al graduale innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento e all'applicazione del sistema contributivo. Il calo vero e proprio si verificherebbe però dopo l'anno 2050 e ciò avverrebbe grazie all'applicazione generalizzata del calcolo contributivo e a un'inversione di tendenza nel rapporto tra occupati e pensionati. La spesa pensionistica su Pil a quel punto, secondo queste previsioni, scenderebbe piuttosto rapidamente raggiungendo il 13,1% entro il 2070, con una decelerazione pressoché costante. Solo che nel frattempo bisognerà allineare le esigenze dei conti con quelle delle persone. Quota 100 è una soluzione che va incontro alle seconde. Dopo il triennio di prova, si potrebbe passare a quota 41 o 42, ma sarebbe più semplice se si integrasse con un mix di pubblico e privato. «Le ipotesi sulle quali si basano le previsioni del Mef sono ottimistiche e allo stesso tempo stringenti» spiegano dal Centro studi ImpresaLavoro. «I risparmi di spesa più consistenti, secondo questo modello, sarebbero infatti legati a un fortissimo incremento del tasso di occupazione. Inoltre, produttività del lavoro e Pil pro capite reale dovrebbero crescere di 1,75 punti percentuali all'anno», spiegano gli esperti, «aumenti ben lontani dai valori osservati in Italia negli ultimi decenni». Ecco perché è il caso di pensare a piani B.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/gli-assegni-versati-dai-fondi-valgono-il-30-in-piu-delle-pensioni-targate-inps-2632970737.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="non-e-un-tabu-passare-al-privato-basta-farlo-un-gradino-alla-volta" data-post-id="2632970737" data-published-at="1757747442" data-use-pagination="False"> Non è un tabù passare al privato. Basta farlo un gradino alla volta Il sistema pensionistico italiano non soltanto è molto costoso (la nostra spesa pensionistica su Pil è una delle più rilevanti d'Europa): è soprattutto poco efficiente. L'attuale sistema pubblico a ripartizione non garantisce un apprezzamento dei contributi versati, diversamente dai sistemi a capitalizzazione individuale. Oggi versiamo, sostanzialmente senza alcun rendimento, contributi all'Inps che servono a pagare gli assegni di chi è in quiescenza oltre alle prestazioni assistenziali: cassa integrazione, indennità di malattia o invalidità. Se la porzione di versamenti che serve a pagare le pensioni fosse investita in un sistema a capitalizzazione le cose sarebbero ben diverse. Ipotizziamo il caso di un lavoratore che versi 10.000 euro annui per trent'anni investendoli in un fondo pensione con un rendimento di circa il 2,5%. Accumulerebbe un montante di circa 410.000 euro, cioè il 30% in più di quello che oggi obbligatoriamente accantona con l'Inps. In altre parole, sarebbe possibile andare in pensione con le attuali soglie d'età ma con un assegno più ricco del 30%, ovvero anticipare di molto la pensione con un assegno almeno pari a quello che avremmo comunque ottenuto. È evidente che il passaggio dal sistema a ripartizione pubblico a quello a capitalizzazione privato è estremamente complesso e non potrebbe essere repentino. Tuttavia mutare modello non sarebbe impossibile, soprattutto se si procedesse per gradi con un mix iniziale tra l'attuale previdenza obbligatoria e quella integrativa. Il tema va affrontato anche perché la spesa pensionistica italiana continua a salire. Secondo l'Istat a metà anni Settanta era inferiore al 9% del Pil e i pensionati erano 22 ogni 100 abitanti. Oggi supera il 16% del Pil ed è quasi raddoppiato il rapporto: ogni 100 abitanti ci sono 38 pensionati. Nel 1994 la Banca Mondiale fissava nel 2030 l'anno in cui i Paesi avanzati avrebbero raggiunto l'apice della spesa previdenziale, stimando che il 16% del Pil sarebbe stato il limite oltre il quale non si sarebbe mai andati. L'Italia ha raggiunto e superato quel traguardo con ben 20 anni di anticipo e il trend è tutt'altro che in discesa, tanto che a oggi nessun Paese Ocse spende quanto noi: il 31,9% della spesa pubblica italiana è assorbito dalla previdenza, contro una media del 18,1%. Uno stacco notevole che è il sintomo di un sistema ormai insostenibile, se non a prezzo di elevatissime età di pensionamento, da innalzarsi al crescere dell'aspettativa di vita media. Secondo il bilancio consuntivo dell'Inps, il comparto relativo ai lavoratori parasubordinati ha garantito nel 2017 un risultato economico positivo per circa 5,7 miliardi di euro. Questo tesoretto, determinato in larga parte dal fatto che esistono versamenti in entrata ma pochissimi flussi in uscita, viene però annullato da altri comparti con lavoratori subordinati (su tutti il pubblico che perde 9 miliardi all'anno, gli artigiani 5,5 e i coltivatori diretti 3), portando lo sbilancio delle gestioni previdenziali dell'Inps a 7 miliardi medi l'anno. L'insostenibilità del nostro sistema risiede in questo gap oggi strutturale che ciclicamente tende ad azzerare il patrimonio dell'Inps, tanto che per pareggiare i suoi conti ogni anno occorre trovare risorse nella fiscalità generale: in altre parole utilizzando i nostri denari. Un prezzo che oggi devono pagare soprattutto i giovani chiamati a sostenere il sistema pensionistico pur avendo ben scarse probabilità di goderne appieno in futuro. Si aggiungano l'allungamento della vita media, il numero sempre più alto di beneficiari (21 milioni) e il numero sostanzialmente stabile di chi versa (21,8 milioni). Ne sortisce un mix letale in grado di incrinare anche conti pubblici solidissimi, figuriamoci i nostri che solidi non lo sono mai stati. Il nostro sistema pensionistico toglie ingiustamente agli individui la libertà di organizzare la propria vita. Perché deve essere l'Inps a gestire obbligatoriamente i miei versamenti contributivi? Perché non possiamo disporne almeno in parte scegliendo i migliori rendimenti tra più operatori in concorrenza? Il passaggio graduale dal sistema a ripartizione ad uno a capitalizzazione individuale, come detto, non è impossibile. Piuttosto viene talvolta contrastato ideologicamente. La realtà però purtroppo dimostra che il modello italiano rischia di crollare sotto il peso della sua insostenibilità. Massimo Blasoni*Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-assegni-versati-dai-fondi-valgono-il-30-in-piu-delle-pensioni-targate-inps-2632970737.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="rendimenti-medi-del-2-5-ma-si-arriva-al-22" data-post-id="2632970737" data-published-at="1757747442" data-use-pagination="False"> Rendimenti medi del 2,5% ma si arriva al 22 Con l'aria che tira, sottoscrivere un fondo di previdenza integrativa oggi è quasi un obbligo e non una scelta accessoria. Complici i vantaggi fiscali (è possibile dedurre fiscalmente fino a 5.164,57 euro annui), mettere da parte un gruzzoletto aggiuntivo (per chi ha soldi da investire) può rappresentare un bel vantaggio per chi vuole mantenere il proprio tenore di vita anche dopo l'uscita dal mondo lavorativo. Non a caso, il numero di chi si affida a questi prodotti è in costante aumento. Alla fine del 2018, il numero complessivo di posizioni aperte presso le forme pensionistiche complementari è di 8,747 milioni; al netto delle uscite, la crescita dall'inizio dell'anno è stata di 448.000 unità (5,4%). Includendo anche coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme il totale degli iscritti a forme pensionistiche private può essere stimato in circa 8 milioni di individui. Nei fondi negoziali si sono registrate 197.000 iscrizioni in più rispetto al 2017 (+7%), portando il totale a fine anno a 3 milioni. L'apporto maggiore alla crescita delle posizioni (circa 160.000) si è registrato nei fondi pensione che hanno attivi meccanismi di adesione contrattuale (che quindi si attivano con l'assunzione); alle otto iniziative di fondi negoziali già esistenti, a partire da gennaio 2018 si è aggiunto anche il fondo rivolto ai lavoratori del settore dell'igiene ambientale (Previambiente). All'interno delle forme pensionistiche di mercato offerte da intermediari (banche e consulenti finanziari), i fondi aperti sono 1,462 milioni, crescendo di 88.000 unità (6,4%) rispetto alla fine del 2017. Nei Pip «nuovi» (quelli nati dopo la riforma delle pensioni private del 2005), il totale degli iscritti è di 3,276 milioni; la crescita nel 2018 è stata di 171.000 unità (5,5%). Detto questo, il 2018 non è stato un anno entusiasmante per i mercati finanziari e i fondi pensione privati non hanno fatto eccezione. I rendimenti, al netto dei costi di gestione e della fiscalità, sono stati in media negativi. I fondi negoziali hanno perso il 2,5%; -4,5 e -6,5%, rispettivamente, per i fondi aperti e per i PIP di ramo III. Meglio è andata alle gestioni separate di ramo I che, invece, hanno ottenuto rendimenti positivi (1,7%). In realtà ciò non deve preoccupare. I prodotti di previdenza complementare si tengono in portafoglio a lungo e di solito, a fine carriera, il saldo è sempre positivo. Nel periodo da inizio 2009 a fine dicembre 2018 (dieci anni), i rendimenti sono risultati positivi per fondi negoziali (+3,7%), per i fondi aperti (4,1%) e per i Pip di ramo III (4%). Hanno raggiunto quota 2,7% le gestioni separate di ramo I. Per avere un'idea, nello stesso periodo, la rivalutazione media annua del Tfr è stata pari al 2%. Dando uno sguarda all'analisi che Fida Finanza Dati Analisi ha realizzato per la Verità, salta subito all'occhio che i fondi pensione azionari siano quelli che negli ultimi anni hanno dato le maggiori soddisfazioni ai sottoscrittori. Allo stesso tempo, però, nel 2018 sono stati anche quelli più penalizzati dall'andamento dei mercati. Il prodotto Allianz Insieme linea azionaria, inserito da Fida all'interno della categoria Diversificati aggressivi, in tre anni (il 2016, 2017 e 2018) ha guadagnato il 22,64%. Nel solo 2018, però, ha ceduto l'1,69%. È andata meglio al Credit Agricole vita dinamica, sempre nella medesima categoria che investe in titoli più rischiosi ma anche più redditizi, ha ottenuto in 36 mesi il 20,55% e nel 2018 ha guadagnato lo 0,56%. In terza posizione troviamo un prodotto di Anima sgr presente nella categoria dei fondi azionari globali (che comprendono anche i mercati emergenti) che investono su società e larga e media capitalizzazione. Si tratta dell'Arti&mestieri crescita 25+ che in tre anni ha guadagnato il 19,88% e in dodici mesi (durante tutto il 2018) l'1,64%. Alla stessa categoria di azionari globali appartengono gli altri prodotti fuori dal podio. Si tratta dell'Allianz previdenza linea azionaria che investe nell'azionario globale. Anche in questo caso il rendimento in tre anni si è aggirato intorno al 20% (19,77% per la precisione) con un crollo, però, del -2,09 nel 2018. Numeri simili anche per l'Aureo comparto azionario di Bcc Risparmio&previdenza sgr. In questo caso il rendimento per gli anni 2016, 2017 e 2018 è stato del 19,61% cedendo, però, il 2,66% nel 2018. All'interno dell'indagine realizzata da Fida che prende in esame 247 fondi pensione, balza subito all'occhio che per vedere un prodotto che investe nel settore obbligazionario bisogna scendere al centoventiduesimo posto con il Pensplan plurifonds comparto serenitas che investe in titoli governativi dell'area euro. Si capisce come la serenità in questo caso si paghi cara: il migliore tra i fondi obbligazionari in tre anni ha guadagnato il 2,16% e nel 2018 lo 0,25%. È chiaro, dunque, che per prodotti destinati a rimanere in portafoglio per 20 o 30 anni, la protezione non paghi. Secondo l'indagine, tutti i fondi pensione con strategie prudenti o difensive spesso hanno infatti il segno meno davanti. Chi non risica, non rosica, insomma, quando si parla di previdenza integrativa. Basta saperlo e dormire sonno tranquilli.
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson