2021-02-05
Giuseppi va in piazza a scalare il M5s. E minaccia: «Io ci sarò per sempre»
Da un tavolino improvvisato fuori da Palazzo Chigi, il giurista certifica l'appoggio all'ex capo della Bce E spinge la svolta: altro che unità nazionale, si torna allo schema Ursula. Che rende Matteo Renzi irrilevantel tavolino con i microfoni, nel nulla, davanti a Palazzo Chigi. Il vento che in poche ore riporta Giuseppe Conte in sella all'operazione Ursula inizia a soffiare dopo il colloquio del premier uscente con Mario Draghi, e dopo il vertice serale dei leader giallorossi. In quelle ore tesissime, ancora segnate dall'incertezza, si realizza una condizione che nessuno alla vigilia avrebbe potuto prevedere: il M5s dice quasi unanimemente no a un governo tecnico. E il Pd comunica al Colle, e poi spiega pubblicamente, che non si staccherà da Leu, e soprattutto dal M5s. È una catena che rimette direttamente in gioco l'avvocato del popolo: che si era rifiutato di entrare nel governo «a titolo personale». Ma che diventa un interlocutore necessario come punto di sintesi di una coalizione. Nella nottata di ieri si fanno e si rifanno i conti, si immaginano le geometrie più ardite, ma il premier incaricato capisce due cose: non ci sono più i numeri per un governo tecnico. Ed è così, che dopo un colloquio con il Quirinale, Draghi cambia la formula: il governo può poggiare su un architrave politico, e quindi superare il veto del M5s, che si porta dietro il no di Leu e del Pd. È a metà mattina che Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini, che hanno tenuto in mano la cabina di regia, sentono che sono a un passo da un possibile ribaltone: costruire le condizioni per una maggioranza modellata sull'esperienza della von der Leyen: dentro tutti i giallorossi, e in più Silvio Berlusconi. Resta da convincere Conte. Mentre Bettini parla con il premier uscente, escono messaggi azzurri che vengono notati, a partire da quello di Mara Carfagna: «Non riesco a immaginare un governo Draghi che nasca senza il sostegno di chi rappresenta i valori liberali, garantisti, patriottici ed europeisti. Valori che», scrive la Carfagna, «appartengono alla storia mia, di Fi e del Ppe. La nostra scelta è fin troppo semplice». In casa giallorossa lo leggono come un messaggio politico. Pochi minuti dopo mezzogiorno un'improvvisa euforia si diffonde in casa Pd: Conte ha assicurato (anche al Quirinale) che non si metterà per traverso, e che lo dirà pubblicamente. Per lui si prospetta già un ruolo di prestigio nel governo o in Europa. Così Conte progetta l'uscita di scena con l'ultima fantasiosa e bizzarra «casalineria». Una conferenza stampa che si celebra davanti al Palazzo, con un'aria più da speaker's corner di Hyde park, che da premier. Ma quello che scompagina il quadro politico è l'endorsement a favore di Draghi. In sola mezza giornata si è passati dalla abbottonata freddezza istituzionale a un viatico esplicito: «Ho sempre lavorato per il bene del Paese», dice Conte, a sorpresa, «e perché si possa formare un nuovo governo. Da questo punto di vista auspico un governo politico che sia solido e che abbia la sufficiente coesione per fare scelte politiche». Ma il presidente del Consiglio uscente si spinge più in là: «Ieri ho incontrato Draghi: un colloquio lungo, molto aperto al termine del quale gli ho fatto gli auguri di buon lavoro. Mi descrivono come un ostacolo, evidentemente non mi conoscono o parlano in malafede. I sabotatori cerchiamoli altrove». E infine l'ultimo tassello decisivo: «Agli amici del Pd e di Leu dico che dobbiamo lavorare tutti insieme perché l'alleanza per lo sviluppo sostenibile che abbiamo iniziato a costruire è un progetto forte e concreto». Tradotto: Conte sta dicendo al Pd, ma soprattutto al M5s, che nel governo che nascerà ci sarà una incubatrice per l'alleanza giallorossa che si prepara alle elezioni. Il che potrebbe persino portare Pd e M5s a indicare Draghi, con la stessa maggioranza, come candidato alla presidenza della Repubblica. Inutile dire che questa improvvisa «cromatizzazione» della crisi, ha effetti immediati sui suoi protagonisti, a partire da Matteo Renzi. In casa Pd festeggiano solo all'idea che il leader di Italia viva non controllerebbe più una pattuglia di voti determinanti per la vita del nuovo governo. Un bel paradosso per Renzi, che, dopo aver innescato la crisi, si ritroverebbe ad aver abbattuto un governo in cui era determinante, per ritrovarsi a sostenerne (senza incarichi direttivi) uno in cui non è più determinante. Ma nella conferenza stampa Conte dice di più, parla anche del suo colloquio con Draghi, fornendone, ovviamente, una versione edulcorata: «Ieri», spiega, «ho incontrato il presidente incaricato, Mario Draghi, è stato un colloquio lungo e molto aperto, al termine del quale gli ho fatto gli auguri di buon lavoro». Ed ecco il tema: la caduta di una semplice pregiudiziale ha ribaltato totalmente lo scenario: un governo tecnico che spaccava il centrosinistra e che poteva riportare nei palazzi il centrodestra, diventa un governo a base giallorossa che spacca il centrodestra, costringendo Salvini a tenersi in equilibrio tra Berlusconi (quasi sicuramente dentro) e Giorgia Meloni (quasi sicuramente fuori). Il capogruppo del Pd, Andrea Marcucci, sparge sale sulla ferita: «Non ci sono le condizioni per un governo con la Lega». Una frase che viene letta - e giustamente - come un segnale ostile, un «paletto». C'è un curioso ricorso storico in questa crisi, che riguarda «i due Mattei»: nell'agosto 2019 il leader della Lega era convinto che la rapidità della crisi avrebbe impedito a Pd e a M5s di allearsi, nel 2021 Renzi era convinto che la velocità della crisi avrebbe fatto saltare per aria il M5s, e reso scalabile il Pd. Per le strane geometrie della politica in entrambi i casi è successo l'opposto, e alleanze fragili si sono rinsaldate perché sotto attacco. Se Draghi partirà, con il consenso della maggioranza del M5s, dovrà ringraziare Renzi. Non per quello che ha fatto. Ma per quello che non ha capito.