2025-01-13
«L’Italia ha bisogno di una nuova Iri»
Giulio Sapelli (Imagoeconomica)
L’economista Giulio Sapelli: «L’intelligenza artificiale non può essere usata per produrre: per quello continuerà a servire la sapienza artigianale. L’Europa si sta riducendo a essere la rampa di lancio per il capitalismo militare Usa».L’ultimo saggio – Verso la fine del mondo . Lo sgretolarsi delle relazioni internazionali (Guerini e associati) – ora in libreria ha la potenza di una profezia e il tono d’un’invocazione. Sembra che Giulio Sapelli – l’economista «classico» più colto e lucido che ci sia in Italia, presidente, tra l’altro, della Fondazione Germozzi dedicata al primo sindacalista degli artigiani, dopo esser stato per decenni il formatore di vari economisti e la coscienza critica del nostro sistema industriale – voglia rivendicare il primato della filosofia per plasmare il mondo. «È fuor di dubbio che alcuni nostri valori sono stati corrosi dal tempo e dagli eventi: i diritti individuali, la democrazia, la libertà hanno bisogno di essere rilanciati e ripensati, e per farlo servono una buona politica supportata da una buona economia fondate su un pensiero profondo». Tutto questo c’è nel suo saggio?, viene da chiedere al professore… «Sì c’è questo, ma c’è prima di tutto il bisogno di capire perché accadono i conflitti e di proporre delle soluzioni che non stanno nel paradigma consueto che ci ha portato alla crisi dell’Europa e al riaffacciarsi della guerra».Un pensiero altro e alto… Nasce da lì l’idea dell’intelligenza artigiana? Cos’è? È un antidoto all’intelligenza artificiale? È il riscatto della manualità?«L’intelligenza artigiana è una particolarissima manifestazione di quel fenomeno d’intelligenza creativa che si forma via via attraverso una serie di applicazioni intellettive e cognitive che riguardano il mondo circostante e le tecniche attraverso cui modificalo. Il sapere artigiano è creatività, e la creatività si dimostra dal modo in cui si usano le tecnologie, che è la tecnica. C’è un modo ergonomico di usare la tecnologia, che è proprio dell’artigiano e che non dipende dalla dimensione dell’impresa. Bisogna impadronirsi della tecnologia in modo che essa non sia dominatrice. Se si lascia la tecnologia senza limiti, essa condiziona anche l’organizzazione del lavoro: una catena di montaggio non dà alcuna libertà, è tecnologia che organizza il lavoro. Se si lavora a isole c’è invece tutta la libertà creativa e tutto ciò vale che si facciano prodotti di massa o non di massa, di altissima complessità o d’immediata utilità».E dunque si contrappone all’intelligenza artificiale?«Chissà quando la smetteremo con le legende metropolitane. L’intelligenza artificiale sarà uno strumento anche molto utile, ma non serve alle produzioni. Bisognerebbe che ogni tanto qualche economista tutto algoritmi e festoni algebrici si rileggesse i classici come Alfred Marshall. L’economia è come un bosco: ha bisogno dei grandi alberi, le grandi imprese, e del sottobosco, le piccole e medie imprese. Le prime consolidano, le seconde inseriscono elementi vitali di creatività. Bisogna ragionare in termini di filiera. Per dirla con Morris, se si ha uno spazio creativo, questo alimenterà anche le produzioni di massa, così come le grandi imprese faranno affluire nel sistema i capitali che servono. Ma tutto questo con l’intelligenza artificiale in sé non ha nulla a che fare».Quali limiti vede nell’intelligenza artificiale?«Principalmente che non può essere usata per produrre. Basta stare accanto a un cloud per vedere quanta energia assorbe. Tutti i centri che sviluppano intelligenza artificiale stanno vicino ai fiumi, perché hanno bisogno di enormi quantità d’acqua per raffreddare i sistemi. Non c’è abbastanza energia per usare a fini produttivi l’Ia. Questo è un limite invalicabile. L’altro limite è che l’Ia sviluppa un proprio vocabolario che deve essere interpretato e usato da intelligenze umane di altissimo profilo».L’Italia com’è messa?«L’Italia possiede alcuni dei supercalcolatori più potenti ed efficienti del mondo ed è dotata anche delle intelligenze umane necessarie a interpretare la lingua dell’Ia. Ci mancano però due cose: la prima è l’industria capace di usare lo strumento Ia, la seconda il fatto che questa ubriacatura – che faccio risalire alla riforma dell’università di Luigi Berlinguer – per le scienze matematiche ci sta privando della capacità di elaborazione del pensiero. Per sfruttare l’Ia serve la filosofia e un’economia che torni a essere filosofia. La matematica è uno strumento, ma l’interpretazione e la comprensione dei fenomeni anche sociali è solo umanistica».Noi abbiamo anche ottimi artigiani, una tradizione millenaria… «Appunto, è l’intelligenza artigiana che può anche servirsi di un pezzo d’intelligenza artificiale, ma che ha dentro di sé la capacità di comprensione del mondo e delle produzioni che servono». Eppure in queste ore tutti a magnificare o temere Elon Musk, come se la sua tecnologia fosse un oracolo. «Altra leggenda metropolitana. Lanciare un razzo è alta tecnologia? Lo facevamo nella piana dell’Aquila 30 anni fa con Telecom spazio: la nostra industria spaziale e delle telecomunicazioni faceva meglio di Musk».Ma se avevamo quel primato perché lo abbiamo perso?«Perché come Paese e poi come Europa abbiamo lavorato alla distruzione della base industriale. Prendiamo il Green deal. Senza principio di sussidiarietà col resto del mondo, con le sanzioni alla Russia e dunque con la rinuncia a una fonte energetica indispensabile senza avere un’alternativa, con politiche energetiche incapaci di far fronte al fabbisogno, si sono poste le basi per la distruzione dell’industria».Era la ricetta tedesca…«E ha fallito. Era basata sull’esportazione di fatto a un solo cliente, la Cina, e sulla materia energetica a costo zero. Oltreché su un rigore di bilancio inconcepibile, come se non si potesse, anzi dovesse, fare debito per finanziare lo sviluppo. Oggi l’asse franco-tedesco non esiste più e dunque non esiste una politica economica europea».Anche lei recita il De profundis dell’Europa?«Ma sono i fatti a testimoniarlo! L’Europa ha avuto un senso fin quando era in piedi l’Urss. È nata per rimediare alla sconfitta subita dagli alleati col fatto che Stalin era arrivato per primo a Berlino. Bisognava mettere al sicuro i confini ma l’aver rifiutato le radici giudaico cristiane ha minato fin da subito l’Europa. L’affronto che fecero a Rocco Buttiglione rifiutandone la nomina a commissario indica che l’Europa è stata una costruzione artificiale in parte determinata dal fatto che i Paesi del Sud – fallita l’operazione Ceca, carbone e acciaio, e Euratom, nucleare – videro la politica agricola indirizzata verso i Paesi del Nord e tentarono un riequilibrio. Ma non puoi avere una politica economica, sociale, di bilancio, di mercato, monetaria senza una Costituzione. Si dice: l’Europa ha garantito la pace. E le guerre balcaniche? Oggi l’Europa è la costruzione di un organismo semimilitare che ricopia i confini delle alleanze guidate dai re svedesi che facevano la guerra a Pietro il Grande di Russia. Di fatto l’Europa oggi sta diventando la rampa di lancio per il capitalismo di guerra americano lungo l’asse balcanico-lituano-polacco. L’Europa come l’abbiamo conosciuta sta scomparendo».E le leggi? Le procedure d’infrazione? Il Patto di stabilità? «Convenzioni. Oggi l’Europa – rotto l’asse franco-tedesco – è un’esigenza militare priva di identità in preda a ideologie che vanno dal woke al green. Per rifondarla servirebbero una Costituzione, una legislazione sociale e un’economia fondata sui principi dell’economia classica che massimizzi l’utile e non la rendita finanziaria».L’Italia potrebbe esserne la protagonista?«Anche questa è una favola metropolitana come quando si dice che Giorgia Meloni è la portavoce in Europa di Donald Trump. Sono improvvisazioni da bar. L’Italia è sempre stato un vassallo anglosferico. E il vassallo fa ciò che l’imperatore non può fare. Così con Giulio Andreotti tenevamo buoni gli arabi, così con la Fiat siamo andati a fare i trenini e Togliattigrad in Urss, così abbiamo cercato di tenere in equilibrio il Magreb. Giorgia Meloni fa quello che hanno fatto tutti. Tranne Bettino Craxi e infatti lo fecero fuori. Non c’è nulla di nuovo. Anche in chiave europea l’Italia farà ciò che serve all’imperatore».Però i conti vanno meglio…«Vero, se si guarda all’immediato dopo-pandemia. Il rimbalzo c’è stato e si è consolidato. Ma se si guarda la statistica degli ultimi venti anni – che è quella che conta – si vede che è un disastro: produzione, salari, Pil, tutto crollato. Quando si ragiona di bassi salari bisogna ricordarsi che crescono se cresce la produttività e la produttività cresce se sale la domanda interna: dagli investimenti ai consumi. Per questo in Italia, ma anche in Europa, si dovrebbe tornare a un’economia mista con un forte settore pubblico multidimensionale e a fianco imprese e cooperative come un tempo, con investimenti che dovrebbe fare la Cassa depositi e prestiti, che però ora ha una mentalità solo finanziaria. Ci servono grandi imprese che diano sviluppo territoriale e un sistema di piccole e medie imprese che lo diffonde. Non abbiamo molte cartucce da sparare ma qualcosa c’è: Eni, Finmeccanica, Fincantieri, alcuni campioni nazionali vanno ulteriormente rilanciati. E poi dobbiamo tornare a fare filiere d’impresa di qualità ed efficienti. In origine facevamo le reti d’impresa per proiettarci all’esportazione con una teoria del debito orientata a creare crescita nel medio-lungo periodo».Vaste programme, si potrebbe dire. Volendo fare una sintesi?«Eccola: l’Italia ha bisogno di una nuova Iri. Potente, forte, capace di fare sviluppo tecnologico e di fertilizzare con nuova industria il Paese».
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