2023-03-13
Giovanni Toti: «Lacrime di coccodrillo sui migranti»
Il governatore della Liguria: «Dai governi europei solidarietà a parole, ma quando si tratta di accogliere... Servono missioni in Nord Africa sul modello di quanto fatto in Albania. La Schlein parla come un predicatore».Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria, negli ultimi giorni la situazione migratoria si è fatta insostenibile. Migliaia di arrivi in pochi giorni. Ci sono spaccature nel governo?«Parlare di divisioni nel governo su un tema così importante, è come guardare il dito e non la luna. Certo, magari ci saranno differenti punti di vista, ma propongo a tutta la politica una moratoria, non usiamo i migranti per fini politici. Anche perché la soluzione definitiva non ce l’ha in tasca nessuno».Nessuno?«Cerchiamo di essere pragmatici. Nessun governo nel mondo è riuscito a risolvere definitivamente la questione dei flussi migratori. Non gli Stati Uniti con il muro al confine col Messico, e nemmeno il premier britannico Sunak, che si accorda con la Francia per pattugliare la Manica. Qualunque soluzione si fonderà sempre sul compromesso: coniugare l’afflato di fratellanza nel nome dell’accoglienza, con l’imperativo categorico di proteggere i confini nazionali». Bisogna mettere mano alla Bossi-Fini?«È una legge che ha 22 anni sulle spalle: un tagliando si può anche fare. Da un lato bisogna rendere più agevoli gli ingressi legali, attraverso il sistema dei consolati e delle ambasciate. E dall’altro facilitare le espulsioni degli illegali, con accordi bilaterali con i Paesi di provenienza. E poi sarebbe opportuno prevedere una programmazione dei flussi che vada oltre l’anno, e sia perlomeno triennale, in linea con i tempi di queste grandi dinamiche sociali». Un programma decisamente ambizioso…«Capisco che tutto questo costi fatica e anche qualche rischio. Ma quando ci trovammo di fronte i migranti dall’Albania – all’epoca una terra tutt’altro che tranquilla – un piede a Tirana lo abbiamo messo. Di fatto i nostri militari andati sull’altra sponda impedivano le partenze verso l’Italia. Questo ha consentito di scremare caso per caso, con un filtro a maglie fitte che ha permesso a una serie di famiglie albanesi di rifarsi una vita da noi, in maniera tutto sommato controllata». All’epoca, con Prodi presidente del Consiglio e Napolitano agli Interni, si parlò di blocco navale. Si augura una replica oggi?«Non chiamiamolo blocco navale. Dovrebbe essere una missione umanitaria, come quella lanciata in Albania, sotto l’egida dell’Onu o dell’Unione europea, deve procedere attraverso accordi con Tunisia e Algeria. Prevedendo sul loro territorio la nostra compartecipazione alla gestione di campi d’accoglienza nei quali distribuire cibo e viveri, e nel frattempo procedere con l’identificazione dei migranti». Questo sulla terra. E sull’acqua?«Sull’acqua tutto questo è impossibile. Sull’acqua l’unico imperativo è salvare vite». Andrebbe coinvolta anche la Nato? «Perché no? Certo, oggi la Nato è impegnata su altri fronti, altrettanto importanti. Ma sicuramente occorre un forte ombrello umanitario che legittimi la missione senza farla sembrare neocolonialista, e poi una giusta forza di deterrenza militare, per fare in modo che l’alto commissariato per i rifugiati, l’Unicef, la Fao abbiano modo di operare in sicurezza». Intanto i fatti di Cutro hanno commosso i governi europei. «Non vorrei si trattasse di lacrime di coccodrillo: quelle di chi cerca di fare bella figura a poco prezzo. La solidarietà all’Italia costa poco e rende tanto in termine di immagine. Il punto vero è sempre lo stesso: dove mettiamo i migranti che per loro fortuna arrivano sani e salvi, e che nessuno vuole?». La redistribuzione è un sogno rimasto tale? «È inutile continuare a ragionare sulle regole di Dublino, che riguardano una percentuale infinitesimale di chi sbarca. Il problema non sono i pochi che scappano dalle guerre, ma i tanti migranti economici». Cosa possiamo imparare dalla linea dura inglese?«Sul piano culturale, è rilevante che a sentire il bisogno di una svolta sull’immigrazione sia un premier di origine pachistana. Questo racconta molto sia alla sinistra che alla destra. Sunak probabilmente comprende meglio di altri che l’immigrazione illegale danneggia anzitutto i ceti fragili, non certo l’upper class dei quartieri alti di Londra». L’immigrazione sembra la madre di tutte le battaglie per la nuova segretaria del Pd Elly Schlein, appena incoronata dall’assemblea di partito. «Tatticamente parlando, un Pd che si sposta a sinistra apre spazi al centrodestra. Per il resto, al di là della novità estetica, Schlein fa politica novecentesca. Non vuole nessun nemico a sinistra, per evitare ciò che è accaduto ai socialisti francesi, alle prese con uno scomodo Melenchon che scippa consensi». Per il resto?«Per il resto quella di Schlein mi pare una ricetta fondata sul classico velleitarismo di sinistra: pace nel mondo, decrescita felice, posto fisso per tutti, salari che crescono all’infinito. Chi parla così non deve fare il politico, ma il predicatore». Un radicalismo destinato all’isolamento?«Magari il Pd crescerà di qualche punto, ma come diceva Totò, è la somma che fa il totale: prima o poi devi tornare a governare. Peraltro, quello massimalista è un mondo che, da governatore, conosco bene: alle ultime regionali mi sono trovato di fronte la gioiosa macchina da guerra di Orlando, che metteva insieme Cinque Stelle, Articolo Uno e Pd. Sappiamo come è andata a finire, essendo loro completamente scollati dalle esigenze dei ceti produttivi».Parla di praterie per il centrodestra con la gestione Schlein: ma in mezzo ci sarebbe il nuovo partito unico della coppia Renzi-Calenda. «Resto alla finestra. Sono due persone preparate, e apprezzo il loro approccio poco demagogico. Ma non mi pare che il loro destino sia quello di guidare un partito di massa. Talvolta mi ricordano il vecchio Partito repubblicano, quello che diceva la cosa giusta ma poi si limitava a ripeterla nei salotti borghesi, di fronte a pochi privilegiati che si considerano l’elite economica e morale». A proposito di realismo. Ci crede davvero alla riforma del fisco? Le tre aliquote, e in prospettiva la flat tax per tutti? «Figuriamoci se non sono favorevole alla tassa piatta: sono i principi del ’94, quelli della rivoluzione liberale di Berlusconi. Ma occorre ricordarsi che i tagli alle tasse, se nel medio periodo sono salutari, nel breve comportano un costo. È sempre stato così, anche per Reagan e la Thatcher». E qual è il costo? «Vorrei conoscerlo. Prima di tutto bisogna raccontare agli italiani una semplice verità: se da una parte si abbassano le tasse, dall’altra qualcosa dobbiamo cedere. Il nostro Paese è già abbastanza drogato di promesse, quindi prima vorrei capire: come finanziamo il taglio fiscale? Con la diminuzione dei servizi pubblici, oppure – spero di no – con altro deficit?». Insomma è pessimista?«No, anzi, penso che per l’economia italiana sia un momento favorevole. Il rimbalzo negativo non c’è stato, cresciamo più di Germania e Francia. È il momento giusto per una spinta liberale». Il nuovo reddito di cittadinanza, così come viene immaginato in questi giorni, va nella direzione giusta? «Sì, perché ristabilisce il principio costituzionale dell’Italia fondata sul lavoro, e non sul sussidio. Gli aiuti sociali servono, ma solo quando la persona non riesce a sostentarsi da sola. Il sussidio non può rappresentare uno stile di vita. Il reddito di cittadinanza ha fallito perché si è rivelato incapace di distinguere i disperati da chi decide di starsene sul divano e utilizzare il gettone di Stato come argent de poche per l’aperitivo. Si tratta di saper distinguere, che poi è lo stesso concetto che ispira l’autonomia differenziata». Un percorso lungo, quello dell’Autonomia. «Ma necessario. Non foss’altro perché il centralismo, nel nostro Paese, ha prodotto i peggiori disastri. Non capisco come la Calabria possa trasformarsi nella Lombardia, lasciando le regole così come sono. Con l’autonomia si dà finalmente la possibilità ai cittadini di giudicare le classi dirigenti locali, senza commistioni di colpe e zone d’ombra. Di questo hanno paura in tanti, in certe regioni: essere giudicati. Perché in alcune regioni i fondi si spendono, e in altre no? Perché in certe regioni servono sei mesi per costruire un ponte, e in altre tre anni?».Insomma, non ha paura dell’Autonomia?«Perché dovrei? In Liguria, grazie al modello Genova, si investono 18 miliardi di euro tra Pnrr e fondi europei. Stiamo rivoluzionando il vestito della Regione, dai cantieri navali di Spezia dove si fanno gli yacht per tutto il mondo, fino al nuovo Waterfront di Renzo Piano, che sta cambiando il volto della città. Insomma, siamo un terra ospitale non solo per i turisti, ma anche per le imprese».
Marco Risi (Getty Images)
Nel riquadro, la stilista Giuliana Cella
Eugenia Roccella (Imagoeconomica)
Mario Venditti. Nel riquadro da sinistra: Oreste Liporace e Maurizio Pappalardo (Ansa)