Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria, negli ultimi giorni la situazione migratoria si è fatta insostenibile. Migliaia di arrivi in pochi giorni. Ci sono spaccature nel governo?
«Parlare di divisioni nel governo su un tema così importante, è come guardare il dito e non la luna. Certo, magari ci saranno differenti punti di vista, ma propongo a tutta la politica una moratoria, non usiamo i migranti per fini politici. Anche perché la soluzione definitiva non ce l’ha in tasca nessuno».
Nessuno?
«Cerchiamo di essere pragmatici. Nessun governo nel mondo è riuscito a risolvere definitivamente la questione dei flussi migratori. Non gli Stati Uniti con il muro al confine col Messico, e nemmeno il premier britannico Sunak, che si accorda con la Francia per pattugliare la Manica. Qualunque soluzione si fonderà sempre sul compromesso: coniugare l’afflato di fratellanza nel nome dell’accoglienza, con l’imperativo categorico di proteggere i confini nazionali».
Bisogna mettere mano alla Bossi-Fini?
«È una legge che ha 22 anni sulle spalle: un tagliando si può anche fare. Da un lato bisogna rendere più agevoli gli ingressi legali, attraverso il sistema dei consolati e delle ambasciate. E dall’altro facilitare le espulsioni degli illegali, con accordi bilaterali con i Paesi di provenienza. E poi sarebbe opportuno prevedere una programmazione dei flussi che vada oltre l’anno, e sia perlomeno triennale, in linea con i tempi di queste grandi dinamiche sociali».
Un programma decisamente ambizioso…
«Capisco che tutto questo costi fatica e anche qualche rischio. Ma quando ci trovammo di fronte i migranti dall’Albania – all’epoca una terra tutt’altro che tranquilla – un piede a Tirana lo abbiamo messo. Di fatto i nostri militari andati sull’altra sponda impedivano le partenze verso l’Italia. Questo ha consentito di scremare caso per caso, con un filtro a maglie fitte che ha permesso a una serie di famiglie albanesi di rifarsi una vita da noi, in maniera tutto sommato controllata».
All’epoca, con Prodi presidente del Consiglio e Napolitano agli Interni, si parlò di blocco navale. Si augura una replica oggi?
«Non chiamiamolo blocco navale. Dovrebbe essere una missione umanitaria, come quella lanciata in Albania, sotto l’egida dell’Onu o dell’Unione europea, deve procedere attraverso accordi con Tunisia e Algeria. Prevedendo sul loro territorio la nostra compartecipazione alla gestione di campi d’accoglienza nei quali distribuire cibo e viveri, e nel frattempo procedere con l’identificazione dei migranti».
Questo sulla terra. E sull’acqua?
«Sull’acqua tutto questo è impossibile. Sull’acqua l’unico imperativo è salvare vite».
Andrebbe coinvolta anche la Nato?
«Perché no? Certo, oggi la Nato è impegnata su altri fronti, altrettanto importanti. Ma sicuramente occorre un forte ombrello umanitario che legittimi la missione senza farla sembrare neocolonialista, e poi una giusta forza di deterrenza militare, per fare in modo che l’alto commissariato per i rifugiati, l’Unicef, la Fao abbiano modo di operare in sicurezza».
Intanto i fatti di Cutro hanno commosso i governi europei.
«Non vorrei si trattasse di lacrime di coccodrillo: quelle di chi cerca di fare bella figura a poco prezzo. La solidarietà all’Italia costa poco e rende tanto in termine di immagine. Il punto vero è sempre lo stesso: dove mettiamo i migranti che per loro fortuna arrivano sani e salvi, e che nessuno vuole?».
La redistribuzione è un sogno rimasto tale?
«È inutile continuare a ragionare sulle regole di Dublino, che riguardano una percentuale infinitesimale di chi sbarca. Il problema non sono i pochi che scappano dalle guerre, ma i tanti migranti economici».
Cosa possiamo imparare dalla linea dura inglese?
«Sul piano culturale, è rilevante che a sentire il bisogno di una svolta sull’immigrazione sia un premier di origine pachistana. Questo racconta molto sia alla sinistra che alla destra. Sunak probabilmente comprende meglio di altri che l’immigrazione illegale danneggia anzitutto i ceti fragili, non certo l’upper class dei quartieri alti di Londra».
L’immigrazione sembra la madre di tutte le battaglie per la nuova segretaria del Pd Elly Schlein, appena incoronata dall’assemblea di partito.
«Tatticamente parlando, un Pd che si sposta a sinistra apre spazi al centrodestra. Per il resto, al di là della novità estetica, Schlein fa politica novecentesca. Non vuole nessun nemico a sinistra, per evitare ciò che è accaduto ai socialisti francesi, alle prese con uno scomodo Melenchon che scippa consensi».
Per il resto?
«Per il resto quella di Schlein mi pare una ricetta fondata sul classico velleitarismo di sinistra: pace nel mondo, decrescita felice, posto fisso per tutti, salari che crescono all’infinito. Chi parla così non deve fare il politico, ma il predicatore».
Un radicalismo destinato all’isolamento?
«Magari il Pd crescerà di qualche punto, ma come diceva Totò, è la somma che fa il totale: prima o poi devi tornare a governare. Peraltro, quello massimalista è un mondo che, da governatore, conosco bene: alle ultime regionali mi sono trovato di fronte la gioiosa macchina da guerra di Orlando, che metteva insieme Cinque Stelle, Articolo Uno e Pd. Sappiamo come è andata a finire, essendo loro completamente scollati dalle esigenze dei ceti produttivi».
Parla di praterie per il centrodestra con la gestione Schlein: ma in mezzo ci sarebbe il nuovo partito unico della coppia Renzi-Calenda.
«Resto alla finestra. Sono due persone preparate, e apprezzo il loro approccio poco demagogico. Ma non mi pare che il loro destino sia quello di guidare un partito di massa. Talvolta mi ricordano il vecchio Partito repubblicano, quello che diceva la cosa giusta ma poi si limitava a ripeterla nei salotti borghesi, di fronte a pochi privilegiati che si considerano l’elite economica e morale».
A proposito di realismo. Ci crede davvero alla riforma del fisco? Le tre aliquote, e in prospettiva la flat tax per tutti?
«Figuriamoci se non sono favorevole alla tassa piatta: sono i principi del ’94, quelli della rivoluzione liberale di Berlusconi. Ma occorre ricordarsi che i tagli alle tasse, se nel medio periodo sono salutari, nel breve comportano un costo. È sempre stato così, anche per Reagan e la Thatcher».
E qual è il costo?
«Vorrei conoscerlo. Prima di tutto bisogna raccontare agli italiani una semplice verità: se da una parte si abbassano le tasse, dall’altra qualcosa dobbiamo cedere. Il nostro Paese è già abbastanza drogato di promesse, quindi prima vorrei capire: come finanziamo il taglio fiscale? Con la diminuzione dei servizi pubblici, oppure – spero di no – con altro deficit?».
Insomma è pessimista?
«No, anzi, penso che per l’economia italiana sia un momento favorevole. Il rimbalzo negativo non c’è stato, cresciamo più di Germania e Francia. È il momento giusto per una spinta liberale».
Il nuovo reddito di cittadinanza, così come viene immaginato in questi giorni, va nella direzione giusta?
«Sì, perché ristabilisce il principio costituzionale dell’Italia fondata sul lavoro, e non sul sussidio. Gli aiuti sociali servono, ma solo quando la persona non riesce a sostentarsi da sola. Il sussidio non può rappresentare uno stile di vita. Il reddito di cittadinanza ha fallito perché si è rivelato incapace di distinguere i disperati da chi decide di starsene sul divano e utilizzare il gettone di Stato come argent de poche per l’aperitivo. Si tratta di saper distinguere, che poi è lo stesso concetto che ispira l’autonomia differenziata».
Un percorso lungo, quello dell’Autonomia.
«Ma necessario. Non foss’altro perché il centralismo, nel nostro Paese, ha prodotto i peggiori disastri. Non capisco come la Calabria possa trasformarsi nella Lombardia, lasciando le regole così come sono. Con l’autonomia si dà finalmente la possibilità ai cittadini di giudicare le classi dirigenti locali, senza commistioni di colpe e zone d’ombra. Di questo hanno paura in tanti, in certe regioni: essere giudicati. Perché in alcune regioni i fondi si spendono, e in altre no? Perché in certe regioni servono sei mesi per costruire un ponte, e in altre tre anni?».
Insomma, non ha paura dell’Autonomia?
«Perché dovrei? In Liguria, grazie al modello Genova, si investono 18 miliardi di euro tra Pnrr e fondi europei. Stiamo rivoluzionando il vestito della Regione, dai cantieri navali di Spezia dove si fanno gli yacht per tutto il mondo, fino al nuovo Waterfront di Renzo Piano, che sta cambiando il volto della città. Insomma, siamo un terra ospitale non solo per i turisti, ma anche per le imprese».
Marco Carnelos, ex ambasciatore italiano in Iraq, già inviato speciale del governo italiano in Siria e in Medio Oriente, consigliere diplomatico nei governi di Romano Prodi e Silvio Berlusconi: le sanzioni riusciranno a demolire il regime russo?
«Si auspica che la Russia collassi sotto il peso delle sanzioni, ma temo che sia più una speranza che un’analisi razionale. Il mio dilemma è un altro: chi si schianterà prima? La Russia sotto il peso delle sanzioni, o il già indebolito sistema economico internazionale sull’onda del “blowback”, del contraccolpo delle sanzioni stesse?».
Armare l’Ucraina è stata la scelta giusta?
«L’eccellente e valorosa resistenza ucraina dimostra che da anni le forze di Kiev contano su armamenti e addestramento militare occidentale di alto livello, come peraltro è stato ammesso dallo stesso segretario generale della Nato Stoltenberg. Come abbia contribuito l’Italia non saprei: spero solo non si tratti di qualche fondo di magazzino».
E nel merito della scelta?
«Nessuno discute la nostra appartenenza all’alleanza atlantica, né la ferma condanna dell’ingiustificabile invasione russa. Il punto è capire come l’Italia possa muoversi in consessi internazionali perseguendo anche il proprio interesse strategico, o perlomeno cercando di non uscirne eccessivamente danneggiata. Detto questo, temo che cedere armamenti all’Ucraina prolunghi inevitabilmente il conflitto. E più si prolunga, più degenera la situazione internazionale e crescono le sofferenze della popolazione».
Sta forse dicendo che gli ucraini dovrebbero arrendersi alle truppe russe?
«Il primo ministro israeliano Naftali Bennet, contando sugli analisti della sicurezza tra i migliori al mondo, ha chiesto effettivamente al presidente Zelensky di arrendersi. E questo non per pavidità dinanzi all’arroganza del tiranno russo, ma perché gli israeliani hanno forse calcolato che questa guerra è persa in partenza. Il probabile punto di caduta è la neutralità dell’Ucraina, e non ha senso veder distruggere un Paese per poi arrivare comunque a quell’esito. Chi ha più buon senso, insomma, lo usi».
Pensa davvero a un’Ucraina destinata a diventare realmente neutrale?
«Dobbiamo rifarci, pur non condividendoli, agli obiettivi enunciati da Putin: demilitarizzazione e denazificazione, vale a dire eliminazione del battaglione Azov e delle altre formazioni paramilitari naziste o presunte tali. Le chiamo “presunte” sospendendo il giudizio. In ogni caso, non sarebbe la prima volta che ci si appoggia a gruppi di «impresentabili» per promuovere una causa ritenuta superiore».
Tornando alla neutralità di Kiev. Come si potrà sancirla, quando in Costituzione si occhieggia all’adesione alla Nato?
«Si può fare impegnandosi a cambiare la Costituzione, pur andando incontro a enormi e imprevedibili complessità. Ma non è un caso che i russi abbiano citato in questi giorni il modello austriaco: Vienna non è membro Nato ma fa parte dell’Unione europea. Credo che Mosca abbia voluto lanciare un segnale su una possibile convergenza. Peraltro, è la stessa soluzione che l’Europa avrebbe dovuto proporre a Mosca anni fa, quando il contesto era ancora salvabile».
L’Europa?
«Sì, l’Europa è stata la grande assente. Quando la situazione è precipitata, nel biennio 2013-2014, in tanti erano consapevoli che l’Ucraina era una bomba ad orologeria. Avrebbero potuto disinnescarla per tempo, con un’iniziativa politica europea. I vertici europei avrebbero dovuto piantonare il Cremlino giorno e notte per trattare con Putin. Non è successo. La caratura dei leader consiste nella capacità di prevenire i problemi, non nell’affannarsi a risolverli quando sono già scoppiati».
Insomma, questa guerra si poteva evitare?
«Si doveva. È una guerra criminale che vede Putin come unico responsabile. Ma se parliamo di processi storico-politici, resto convinto che il peccato originale sia stato l’allargamento a Est dell’alleanza atlantica. Un’operazione mal concepita, nella tempistica e nel confezionamento. Un peccato che, naturalmente, non sminuisce le responsabilità russe».
Era presente anche lei nel 2008 al vertice di Bucarest, quando si ventilò l’ingresso dell’Ucraina nella Nato?
«Sì, all’epoca accompagnavo il presidente Prodi. Ricorderò sempre il pesante clima di tensione. Nella sala conferenze erano presenti tutti i leader occidentali, da George W. Bush ad Angela Merkel. Putin era furibondo, li fece attendere per 45 minuti: non ho mai visto un capo di stato esprimersi con tanta crudezza. E sto parlando di 14 anni fa. Nel corso degli anni tanti grandi protagonisti della diplomazia Usa, da Kennan a Kissinger, hanno consigliato cautela sull’allargamento. Ma evidentemente le richieste dei Paesi dell’est Europa sono apparse non arginabili».
Eppure, sono stati gli stessi Paesi dell’Est a chiedere di entrare nel club atlantico.
«È verissimo. Ma nella realtà internazionale, da secoli, esistono le necessità della realpolitik. Molti la riducono a un esercizio di cinismo, quando in effetti si tratta di semplice realismo. Chi pensa che l’autodeterminazione dei popoli sia più importante della stabilità globale, vive nel Paese delle meraviglie. È dura da accettare: ma dobbiamo misurarci con il mondo com’è, non come vorremmo che fosse».
Intende dire che la geopolitica mal s’accorda con i principi etico-morali?
«Esistono nella storia i popoli sfortunati, quelli che si trovano sulle linee rosse dei grandi imperi, che per una serie di ragioni politiche e storiche non hanno mai potuto soddisfare le loro legittime rivendicazioni. I curdi, un popolo orgoglioso che ho avuto l’opportunità di conoscere, da un secolo aspirano ad avere uno Stato. I tibetani desiderano l’indipendenza, ma si scontrano con gli interessi cinesi. E così gli ucraini, purtroppo, si trovano in uno snodo della storia e della geografia in cui il loro desiderio di entrare nella Nato confligge con le esigenze di sicurezza di Mosca».
Eppure, la Nato è un’alleanza difensiva.
«Vero, ma è oggettivamente difficile spiegarlo ai russi, dopo l’intervento Kosovo, e l’attacco in Libia, dove, peraltro, il grimaldello per l’intervento fu proprio l’adozione di una no-fly-zone».
La retorica sulla resistenza Ucraina, le analogie tra Putin e Hitler, il dovere di opporsi al tiranno: li ritiene paragoni storici forzati?
«I grandi miti fondativi della politica estera occidentale sono due: la conferenza di Monaco del 1938 e la crisi dei missili di cuba del 1962. La morale sottesa è che l’arrendevolezza non paga di fronte alla prepotenza... In realtà a Monaco si decise l’appeasement solo perché gli inglesi non erano ancora pronti alla guerra. Quanto alla crisi di Cuba, non fu una vittoria della forza ma del negoziato: mi riferisco all’accordo segreto tra Kruscev e Kennedy. I sovietici smantellarono i loro missili da Cuba, in cambio della rimozione di quelli americani, già installati, dalla Turchia».
Teme un’escalation fuori controllo in Ucraina?
«Si, gli eventi potrebbero precipitare anche se nessuno sembra volerlo. Non dimentichiamo le tragiche lezioni della storia. Il 28 giugno 1914 venne assassinato a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando. Nelle settimane seguenti, tutti erano convinti di poter circoscrivere il dissidio: ma si innescò un meccanismo infernale, e come dei sonnambuli tutti finirono in una guerra totale».
L’atteggiamento aggressivo della Russia spazia anche in altri continenti?
«Alcuni giorni fa mi è capitato di analizzare una mappa dettagliata della penetrazione militare russa in Africa. È un’avanzata che mette i brividi. Mentre Mosca lamenta di essere accerchiata dalla Nato, sta a sua volta accerchiando l’Europa da Sud passando dall’Africa. Le nostre vedette di guerra dovrebbero ampliare lo sguardo. Perché i russi li abbiamo vicini, a Sud, al di là del Mediterraneo».
Gli Stati Uniti riusciranno a convincere la Cina ad assumere il ruolo di mediatore?
«Ce lo auguriamo tutti, ma razionalmente lo ritengo improbabile e gli ultimi contatti Usa-Cina lo confermano. Cina, Russia e Iran da anni adottano comportamenti che promuovono un ordine alternativo alla pax americana, e per questo i leader di Pechino, dal loro punto di vista, temono che presto l’attenzione crescerà anche verso di loro».
Pensa che Vladimir Putin potrà essere detronizzato, sotto la pressione delle sanzioni occidentali? C’è ancora consenso intorno al leader?
«Quanto al consenso, posso dire che la manifestazione di massa allo stadio di Mosca mi è parsa troppo ben organizzata per essere spontanea. Per il resto, cosa avvenga davvero all’interno del Cremlino non lo sa nessuno, e comunque non credo che il problema si risolva con l’eliminazione di Putin. Magari fosse così. Non so dire se le sanzioni causeranno il default della Russia, anche perché intravedo sommovimenti globali inquietanti».
A cosa si riferisce?
«Diversi segnali mi fanno temere che Mosca sia molto meno isolata di quanto viene raccontato in questi giorni. È stata sostanzialmente sanzionata solo dalle democrazie occidentali, il resto del mondo sembra riluttante o indifferente. Il presidente siriano Assad è stato in visita negli Emirati. L’Arabia Saudita si rifiuta di aumentare la produzione di petrolio per calmierarne il prezzo, e progetta di commerciare con Pechino in valuta cinese. L’India si rifiuta di sanzionare la Russia, e quadruplica l’acquisto di petrolio da Mosca. Insomma, anche alcune potenze alleate o amiche degli Usa iniziano a dare segni di insofferenza. L’intero sistema finanziario internazionale che ruota intorno al dollaro rischia dei contraccolpi. E le conseguenze di questo conflitto potrebbero essere del tutto imprevedibili, sia politicamente che economicamente».
Roberto D'Agostino, anima indomabile dell'ascoltatissimo sito di indiscrezioni «Dagospia»: oggi inizia la fase due.
«Con la fase due la quarantena è andata. Ora si va per la cinquantena e la tombola. Vale a dire: il crack dell'ex Belpaese».
Addirittura?
«Gli aiuti economici attesi dall'Europa sono imbrigliati tra clausole killer e condizionamenti alla greca. Solo per cassare dal trattato europeo le «condizionalità» del Mes occorrono almeno 45 giorni e le firme di 27 nazioni. Campa cavallo. Purtroppo, in politica, non esistono pasti gratis».
Intanto siamo alle prese con una dittatura tecnosanitaria?
«Che i nostri politici potessero fare ben poco davanti al Covid, ci può anche stare. Magari potevano evitare negli anni passati di trattare la sanità come un vitello da macellare, tagliando ospedali, posti letto e attrezzature».
E i virologi?
«Invece i virologi hanno detto tutto e il contrario di tutto. Potevano fare ben poco se non andare in televisione a fare la ruota del pavone. Se va avanti così, Roberto Burioni parteciperà ad “Amici", “Ballando con le stelle" e “Miss Italia"».
Come si spiega il moltiplicarsi di task force di consulenti?
«Quando non si sa dove sbattere la testa, nascono come funghi i comitati tecnico-scientifici e le task force. Così le cazzate vengono fatte in compagnia. La commissione dei 17 esperti di Vittorio Colao è priva completamente di gente che sappia davvero cos'è il commercio al dettaglio, il turismo, la vita reale. Non parliamo poi del loro nazi-tentativo di attuare la strage degli anziani».
Strage degli anziani?
«Dai 60 in su sono pericolosissimi, da rinchiudere in casa perché capaci di contagiare pure le zanzare. E poi i vecchi sono troppi, aficionados di farmacie e habitué dei pronto soccorso, considerati una disgrazia economica per il bilancio sanitario dei paesi».
Pensa che in Italia sia in atto una sospensione della democrazia?
«La democrazia, come la nostra vita, non è stata sospesa. Il sistema è solo rimasto spiazzato perché il nemico era rappresentato da un virus. Ma non siamo ancora cinesizzati o russificati. Abbiamo pure visto regioni leghiste come Lombardia e Veneto soccorse da comunisti cubani, russi, cinesi e Ong. E a quella destra originaria dell'Msi che sparla di ''dittatura'', bisognerebbe solo inviare qualche libro sui vent'anni di “democrazia" ai tempi del fascismo».
Dove sta sbagliando il premier Giuseppe Conte?
«Ha fatto lo stesso errore di arroganza che fece Matteo Renzi. Cioè governare senza avere un filo diretto con il “deep state" romano, che è poi la macchina del potere: esercito, dirigenti, corte costituzionale, servizi segreti, i salotti de' noantri, i padroni del vapore. Uno sbaglio madornale commesso da coloro che vengono dalla provincia, come Firenze, o da altre attività, come gli studi legali».
Perché ha detto che Conte sogna di fare l'influencer?
«La scelta di Rocco Casalino di postare il suo schiavo su Facebook per annunciare provvedimenti pesantissimi ha fatto drizzare i capelli a tutti, compresi Sergio Mattarella e Nicola Zingaretti».
Alimentando confusione?
«Con Conte online, anche il virus sta sbroccando: non riesce a capire come cacchio faccia il modulo di autocertificazione a mutare così velocemente. Nella prossima conferenza stampa il premier, esaurite le autocertificazioni, ci insegnerà a fare la pochette a quattro punte utilizzando le vecchie mascherine».
Quando scadrà questo governo?
«I palazzi della politica, Quirinale compreso, pensano ormai che Conte sia del tutto inadeguato per amministrare la fase tre, quella della ricostruzione. A fine mese Conte annuncerà il Mes e un accordo politico sul recovery fund. Una volta che i due provvedimenti saranno definiti, l'avvocato del popolo verrà rimandato a settembre e quindi bocciato».
E poi?
«E poi ci sarà un nuovo esecutivo di unità nazionale, architettato da Gianni Letta e sostenuto dal Pd, dall'ala governativa dei 5 stelle, da Italia viva e Forza Italia. Ma non sarà guidato da Mario Draghi che, come minimo sindacale, pensa al Quirinale».
Al Quirinale?
«Sì, ce lo vedete Supermario che si mette a litigare con Di Maio e Renzi?».
Quindi chi sarà il nuovo premier?
«Sicuramente una persona esperta, con ministri competenti, capaci di gestire la pratica degli aiuti europei».
I 5 stelle si spaccheranno?
«Non si spaccano perché sono già polverizzati, tant'è che Marco Travaglio ha preso il posto di “Elevato" che apparteneva a Beppe Grillo, ormai disperso. Il solco tra i duri e puri di Dibba e i “pragmatisti" è sempre più profondo. Grillo, Di Maio e Roberto Fico sono ben consapevoli che è l'ultima volta che si siedono a tavola; quindi, Mes o non Mes, non si staccheranno dalle loro poltrone».
E Alessandro Di Battista?
«Già, cosa farà Dibba? Incassa e porta a casa, facendosi logorare giorno dopo giorno, oppure fa il Gladiatore: “Al mio segnale, scatenate l'inferno"?».
Ma il centrodestra resterà unito?
«Silvio, che votò perfino il governo Monti per contare ancora, vuole essere sostegno di una maggioranza qualunque. L'obiettivo è quello di partecipare al futuro esecutivo di unità nazionale».
E Renzi, che minaccia di uscire dalla maggioranza?
«Al di là delle roboanti sparate in Parlamento, Renzi dovrà assumere un ruolo diverso rispetto a quello di oggi. Il progetto segreto di Letta è coalizzare Fi e Iv, due forze moderate che rischiano l'irrilevanza alle prossime politiche».
Politica a parte, lei pensa che non andrà affatto tutto bene: avremo lo Xanax al posto dello spritz?
«Lo stress impera, sovrano assoluto della nostra vita sospesa. La “Milano da bere" degli anni Ottanta è diventata la “Milano da bare". La possibilità di contagio rende sospettosi, egoisti, nevrotici, malinconici. Combattiamo contro un nemico invisibile, ma non c'è un fronte: unico atto di eroismo, mettere la mascherina».
Ne usciremo più responsabili?
«Non appartiene al nostro genoma il senso dello Stato. In Italia, il ridicolo è più forte del pericolo. Vi assicuro: quando si uscirà dal tunnel e torneremo a mandarci affanculo nel traffico, sarà bellissimo».
Ne usciremo più cattivi, anziché più buoni?
«Di più: vendi-cattivi. Non crediate che quando questa tragedia finirà, noi saremo diversi, il mondo più buono, in preda a valori francescani. Saremo senza lavoro e senza un euro, grassi e incazzati con le mogli. Ne vedremo delle brutte».
Umberto Galimberti dice che il dramma di questi giorni è restare a casa con noi stessi.
«Mah, gli direi, semplicemente: parla per te».
Stiamo rinunciando a un bene prezioso come la privacy?
«Ma dai. Da anni stiamo raccontando i fatti nostri su Facebook e ora abbiamo paura di perdere la privacy per una applicazione antivirus? Di che stiamo cianciando?».
Il filosofo coreano Byung-Chul Han paventa la «quarantena lager», l'home office come nuovo campo di concentramento. L'isolamento sancirà la vittoria del virtuale sul reale?
«Cosa hanno di irreale la fame, la disoccupazione, il fallimento? Le banche chiedono 19 documenti “reali" per avere prestiti da 25.000 euro. Attenti poi a usare parole pesanti e dolorose come “quarantena lager": la Seconda guerra mondiale è durata cinque anni e nei campi di concentramento i nazisti hanno ucciso 6 milioni di ebrei».
Chi pagherà il conto del virus? Rischiamo rivolte sociali?
«Se non succede qualcosa di buono entro l'estate, e purtroppo le speranze sono poche, l'autunno sarà flambé. Aziende fallite, negozi chiusi, disoccupazione dovunque. Altro che scippi di Rolex: si porteranno via i bancomat con tutto il muro e i negozi di lusso saranno blindati, come già sta succedendo a New York e Los Angeles. Temo che l'emergenza sociale “ucciderà" più dell'emergenza sanitaria».
Il Covid rivoluzionerà i rapporti amorosi?
«Basta andare in qualche “rituals" per fanatici fetish o rivedere la scena del festino di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, per vedere che le mascherine sono sempre state usate. L'erotismo si basa sull'esistenza della forza immaginativa, che precede qualsiasi esperienza concreta della sessualità. Un sano erotismo è come dire una bella dentiera. Come ironizzò Woody Allen: “Il sesso è sporco solo se è fatto bene"».
E quindi?
«E quindi alla fine, quando la morte è tangibile, si prende coscienza della fragilità e della caducità della vita. Tanti si interrogheranno sulle scelte fatte, sugli amori che non hanno osato amare, sulla vita che non hanno osato vivere. Per scoprire che il contrario della fine non è la vita, ma l'amore. Dall'io a Dio. E così, anche in una società dura e cattiva, alla fine Dio è ciò che manca, quando non manca nulla».





