È arrivato il giorno dei dazi Trump: «Saremo gentili». Il piano per tagliare le tasse
Ci siamo. Quello che Donald Trump ha definito «il giorno della liberazione» è arrivato. Oggi, alle 22 italiane, il presidente americano svelerà le tariffe reciproche, che, già a metà febbraio, aveva annunciato di voler imporre. «Troppi Paesi stranieri hanno i mercati chiusi alle nostre esportazioni. Questo è fondamentalmente iniquo. L’assenza di reciprocità contribuisce ogni anno al nostro ampio e persistente deficit commerciale, che ha distrutto le nostre industrie», ha detto ieri la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, rendendo noto che i nuovi dazi «entreranno in vigore immediatamente» e definendo quello di oggi come «uno dei giorni più importanti nella storia moderna americana». In quest’ottica, lunedì, l’Ufficio del rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti aveva pubblicato un elenco delle barriere commerciali imposte dagli altri Paesi. Per quanto riguarda l’Italia, il documento lamenta la difficoltà americana a ottenere licenze per investimenti energetici e infrastrutturali, citando anche «ostacoli legali e burocratici».
Non è ancora del tutto chiaro come abbia intenzione di muoversi in concreto l’amministrazione Trump. Il direttore del National Economic Council, Kevin Hassett, aveva originariamente lasciato intendere che le tariffe avrebbero colpito i Paesi con cui gli Stati Uniti hanno il deficit commerciale più ampio. Secondo Cnbc, che ha citato dati del Dipartimento del Commercio relativi al 2024, si tratterebbe di Cina, Unione europea, Messico, Vietnam, Irlanda, Germania, Taiwan, Giappone, Corea del Sud, Canada, India, Thailandia, Italia, Svizzera, Malesia, Indonesia, Francia, Austria e Svezia. Tuttavia, domenica, Trump è sembrato smentire di voler mettere nel mirino soltanto alcuni partner commerciali. «Si dovrebbe iniziare con tutti i Paesi. Non c’è una linea di demarcazione», ha detto, pur precisando di voler essere alla fine «molto più gentile» di come i partner si sarebbero finora mostrati con gli Stati Uniti. Ma non è tutto. Sì, perché, secondo il Washington Post, l’amministrazione americana starebbe considerando anche la possibilità di imporre una tariffa del 20% a quasi tutti i beni importati.
Nel frattempo, si registra altresì attesa per i dazi al 25% sull’import di automobili. «Raccoglieremo circa 100 miliardi di dollari solo con le tariffe sulle auto. Quello che faremo è: nella nuova legge fiscale che deve essere approvata, deve assolutamente essere approvata, forniremo agevolazioni fiscali, crediti d’imposta, alle persone che acquistano auto americane», ha affermato domenica il senior advisor di Trump, Peter Navarro. «Inoltre, le altre tariffe raccoglieranno circa 600 miliardi di dollari l'anno, circa sei trilioni di dollari in un periodo di dieci anni, e avremo tagli fiscali», ha aggiunto.
E qui veniamo al punto. Qual è l’obiettivo dei dazi di Trump? Le tariffe sono frutto di semplice incoerenza umorale, come suggerisce qualcuno? Oppure, condivisibili o meno, sono sorrette da una determinata logica? A livello generale, il presidente punta a riequilibrare i rapporti commerciali degli Usa sulla base del principio di equità. Entrando nel dettaglio, è probabile che l’inquilino della Casa Bianca abbia adottato il piano elaborato a novembre da uno dei suoi economisti di fiducia: Stephen Miran. Stiamo parlando del cosiddetto «Accordo di Mar-a-Lago». Trump, in altre parole, vorrebbe costringere i principali partener commerciali degli Usa ad agire di concerto per indebolire il dollaro e rilanciare così il settore manifatturiero statunitense. Quel settore manifatturiero che, per l’inquilino della Casa Bianca, ha un duplice valore: socioeconomico (non a caso il sindacato dei metalmeccanici americani ha elogiato i dazi alle auto) e di sicurezza nazionale (il che spiega le recenti tariffe di Washington sull’acciaio).
Per conseguire tale obiettivo, il presidente userebbe due strumenti di pressione: i dazi e la minaccia di espellere gli alleati riottosi dall’ombrello militare americano. Non solo. Trump punterebbe anche a salvaguardare il predominio internazionale del dollaro. Ed ecco che il dazio, di nuovo, svolgerebbe una funzione cruciale. A fine gennaio, il presidente ha infatti minacciato di colpire i Brics con tariffe al 100%, qualora questi ultimi mostrassero l’intenzione di cercare un’alternativa al biglietto verde. Tutto questo ci fa capire come, per Trump, il dazio sia uno strumento volto a mettere sotto pressione un interlocutore con lo scopo di aprire un negoziato. Non a caso, venerdì, il presidente si è detto aperto a stringere accordi con quei Paesi che vorranno evitare le tariffe.
E attenzione: per Trump, la questione dei dazi si collega anche a quella fiscale. Il presidente ha innanzitutto detto di voler finanziare il taglio delle tasse con i proventi delle tariffe. Dall’altra parte, ha però necessità di ridurre il poderoso debito statunitense (di cui, secondo Reuters, circa un quarto è detenuto da Paesi stranieri, a partire da Giappone, Cina e Regno Unito). È in questo quadro che Trump sta, per esempio, esortando gli alleati ad aumentare le loro spese per la Nato. Senza trascurare che potrebbe anche spingere i propri partner a scambiare i titoli di Stato americani, detenuti dalle loro banche centrali, con obbligazioni senza cedola e a lunghissimo termine (addirittura fino a 100 anni). Vari analisti ritengono inoltre che la Casa Bianca potrebbe decidere di garantire il debito americano con le riserve auree e le proprietà federali.
Chiaramente la situazione resta in evoluzione. E la strategia di Trump, oltre che molto ambiziosa, è anche assai rischiosa. Tuttavia sbaglia chi pensa che, per lui, la politica dei dazi sia frutto di mattane estemporanee. Il presidente americano vuole rinegoziare la struttura economica e di sicurezza di cui gli Usa sono stati finora il perno. Andare allo scontro con lui, non servirebbe a niente.






