2020-03-01
Giocare con la natura per edonismo è la perversione della globalizzazione
Il boom di epidemie virali degli ultimi decenni è legato anche alla esasperata caccia all'esotico. Arricchitosi, l'uomo altera ecosistemi in cerca di nuove specie da esibire o di cui cibarsi. Scatenando crisi sanitarie immani.La globalizzazione degli uomini e delle merci ha le sue difficoltà. Quella dei virus, invece, ha il vento in poppa sulle ali degli arei intercontinentali, con il loro carico di viaggiatori e rispettivi virus, raccolti in giro per il mondo. Questa globalizzazione fiorente di microbi ci racconta anche un'altra storia meno nota, sui problemi del mondo di oggi. Che non vengono tanto (come vedremo) dalla fame nel mondo, quanto dall'avvicinarsi della fine della fame e dai problemi della sazietà e della disordinata ricchezza che la accompagna. Il coronavirus d'annata, il Sars-CoV-2, nipote della Sars primi anni Novanta, è uno di quei problemi. Ormai c'è, ha da passà 'a nuttata e occorre capire cosa ci può insegnare. Le epidemie, dalla peste in poi, proprio in quanto guai, sono sempre state ricche di insegnamenti. Non c'è come rischiare la pelle per uscirne rafforzati. La prima lezione è che l'uomo, così grande grosso e intelligente, è del tutto inerme di fronte ai più minuscoli aspetti della natura vivente. Quest'ultimo coronavirus è piccolissimo, ha un diametro di circa 80-160 nanometri (1 nanometro è un milionesimo di millimetro), ma la sua diffusione ha già fatto crollare un paio di volte le Borse mondiali. Già questo dovrebbe farci riflettere sulle nostre convinzioni. Mentre parliamo di postumanesimo, i microbi ci creano guai da cui non sappiamo se usciremo vivi. Intanto chiediamo ai nostri superlaboratori di intelligenza artificiale che ci forniscano alla svelta un algoritmo capace di spegnere l'epidemia. Come mai, però, non abbiamo chiesto prima ai sapienti tecnoscienziati un algoritmo per evitarla, o almeno renderla meno pericolosa, visto che da diverse settimane sapevamo che era in arrivo? Forse perché questo algoritmo non c'è: è solo uno slogan dell'onnipotenza delle pseudo scienze, irritate perché la natura se non onorata e ascoltata fa quello che vuole, ma l'homo sapiens non vuole ammetterlo. Ci brucia riconoscere che dobbiamo la vita ai miliardi di batteri che abbiamo nella pancia, e che forse prima di straparlare di intelligenza artificiale dovremmo usare la nostra intelligenza naturale e trovare il mondo di convivere il più armoniosamente possibile con le altre forze del creato, invece di andare a provocarle come se fossimo i loro padroni. Mentre ne siamo (al massimo) i custodi, come dice Genesi e ci mostrano appunto (da sempre) le epidemie, già in azione nella Bibbia. Non siamo i padroni di niente; ma vai a dirlo al tecnoscienziato con manie di grandezza o al nuovo ricco cinese che divora avidamente il pipistrello, protagonista di questa ultima epidemia, come di quelle di Ebola, o si gusta la prelibata «civetta mascherata delle palme», sua comprimaria nelle infezioni dall'aria. Come ha raccontato il geografo David Quammen (nel documentatissimo Spillover. Le infezioni animali e la prossima pandemia umana, Adelphi editore), le epidemie di coronavirus hanno aperto l'era delle specialità selvatiche e del suo gusto - non solo gastronomico - per specie esotiche strane e inquietanti. Una passione che non nasce «dalla fame o da qualche antica tradizione, quanto dalla recente ricchezza della zona e dalla nascita di mode e ostentazioni moderne». Come se, privato degli antichi, attenti rapporti con la natura selvatica, l'uomo se ne cercasse di nuovi, sul piano del consumo, della predazione e del piacere. Nella sola città di Canton ci sono 2.000 ristoranti con menu di «specialità selvatiche». Un uso edonista e consumista che avrebbe molto preoccupato il nostro Leonardo, per il quale invece la selva rappresentava la salvezza fisica e spirituale. Senza lo Spirito, la selva è semplicemente l'inferno.Queste suggestive prelibatezze hanno dunque gustosissime (pare) carni, ma non sempre fanno bene. Vengono scambiate nei wet market, che non vendono solo pesci, ma di tutto: tartarughe giganti, serpenti, zibetti, pipistrelli della zone paludose del Sud della Cina. Sono i templi, appunto, non della fame ma delle vanità culinarie e collezionistiche delle nuove ricchezze asiatiche e globali. Lì però gli animali, come ha notato un gruppo di ricercatori di Hong Kong, vengono «rinchiusi in spazi angusti... molti sembrano malati, presentano ferite aperte e nessuno se ne cura. Chiusi in gabbie a rete, una sull'altra, le deiezioni degli animali più in alto cadono su quelli più in basso. Questi mercati sono l' ambiente più favorevole alla trasmissione di malattie da specie a specie e anche all'uomo«. John Breman, virologo e presidente della Società americana di medicina tropicale, li ha definiti «calderoni di scambio di materiale genetico tra diverse varietà di animali», dichiarando a Lancet del 25 febbraio scorso: «come minimo dovremmo controllare i loro standard di igiene e seguire le tracce dei microbi che circolano nei mercati». Nella storia del mondo, fino a poco fa scarsamente popolato, non era mai capitato che gli uomini si accalcassero in mercati puzzolenti per comprarsi animali sanguinanti dall'aspetto sofferente, diretti mangiatori di topi o di volatili che di topi si nutrono (come i pipistrelli e le civette), incuranti della biografia pestilenziale dell'indaffarato antenato di Topolino. Così oggi il virus del momento può correre fuori dall'animale in cui si è provvisoriamente installato e saltare (spillover) direttamente all'uomo, grosso animale ricco e sciocco, che se lo è andato a cercare fino a lì, e se lo porterà in giro per il mondo, in aereo. E magari lo rincontrerà anche a cena, nel piatto. Nella festosa marcia della globalizzazione che avanza, tuttavia, non ci si cura di questi fatti. L'ossessiva Europa, accurata nel perseguitare il nostro immacolato lardo di Colonnata o i formaggi di fossa non batte ciglio davanti ai wet market cinesi che ci regalano un'epidemia rovinosa e costosa ogni cinque anni. È proprio da questi luoghi inquietanti, peraltro, che gli studiosi di storia della medicina si aspettano anche peggio: il Big One, la grande epidemia che ogni 100 anni circa riduce drasticamente la popolazione mondiale, come fece l'influenza Spagnola nel 1918, e pesti e colera prima. Anche quella si originò, pare, in un uccello selvatico, in Cina (e forse anche in altre parti del mondo), e uccise in pochi mesi fino a 50 milioni di persone.Nel frattempo siamo andati sulla Luna, progettiamo navette Terra-Marte, ma la battaglia contro virus e batteri, lanciata dall'Oms più volte già nel secolo scorso con tanto di date certe per l'ormai sicura vittoria è stata abbandonata. È ormai una difficile guerriglia cronica, combattuta in tutto il mondo, dove virus e batteri arrivano con gli aerei della globalizzazione o i barconi delle Onlus. Intanto gli investimenti nello spazio sono considerati più redditizi di quelli per risanare le terre, acque e le altre specie viventi. Così nel mondo globalizzato il colera, la febbre gialla e le infezioni epidemiche da meningococchi erano già riapparsi nell'ultimo quarto del XX secolo. Nel nuovo millennio le influenze post Sars sono sempre più aggressive, e le infezioni virali emergenti, come le febbri emorragiche di Ebola o di Marburg o da virus Nipah, dovrebbero essere bloccate sul nascere, ma è difficile, e possono riprodursi da un'altra parte. L'ultimo ritorno di Ebola ad esempio, altra zoonosi provocata dal contatto con virus originariamente nei pipistrelli della frutta, trasmessi poi ai primati e agli umani, ha provocato in un anno e mezzo in solo due province del Congo 2.249 morti. Anche in questa zona lo scenario è quello della distruzione delle foreste, la desertificazione della terra e l'ammalarsi della fauna animale, con conseguente moltiplicazione dei virus e morte degli animali e degli uomini che vengono in contatto con loro. Inoltre, Ebola per ora resta in Africa, ma i pipistrelli della frutta si comprano su Internet, come quasi tutti gli animali «affascinanti» di questo teatro dell'orrore. Il Sars-CoV-2, invece, fa già festa con e a volte dentro di noi. L'edonista contemporaneo è spesso un suicida disinformato.
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