2021-11-25
Perfino per morire bisogna essere vaccinati
Follia in Germania: sì all'iniezione letale, ma solo per chi si fa inoculare. L'uomo è liberissimo di togliersi di mezzo, ma non di rifiutare la punturina. Paranoia immunitaria e sostegno sfegatato all'eutanasia hanno in comune la rimozione di sofferenza, malattia e morte.La follia sanitaria che striscia per l'Europa offre pagine da antologia dello humor nero. In Germania, ad esempio, sono convinti che serva il green pass anche per entrare all'altro mondo. Toccherà aggiornare la Divina Commedia, e dotare Minosse – giudice dei dannati – di opportuna applicazione, così che possa controllare i lasciapassare prima di spedire i defunti tra le fiamme dell'inferno. In realtà, c'è poco da scherzare, perché la faccenda è seria. L'associazione per l'eutanasia tedesca Verein Sterbehilfe ha annunciato che d'ora in avanti assisterà soltanto persone che si siano vaccinate. «Applicheremo la regola 2G, integrata da misure legate alla situazione, come test rapidi prima di incontri in stanze chiuse», hanno dichiarato i responsabili. Come per ogni delirio, anche qui c'è una motivazione tecnica. I preparativi per l'eutanasia, spiegano dall'associazione, prevedono alcuni momenti di «vicinanza umana», così il terrore del contagio s'insinua pure negli ultimi istanti di vita dei sofferenti. I teutonici, almeno quello, sono geometricamente onesti e rendono la distorsione ideologica molto più esplicita. Da noi invece c'è una parte del sistema politico che ragiona nella stessa maniera deviata, ma cerca di nasconderlo o - peggio - non se ne rende nemmeno conto. Ieri su tutte le prime pagine dei giornali campeggiava la storia di un nuovo eroe dei diritti civili: Mario, ex autotrasportatore marchigiano. All'età di 43 anni e a dieci anni di distanza da un incidente automobilistico che lo ha reso tetraplegico, ha ottenuto dal comitato etico della Asl di Ancona il via libera al suicidio assistito. Non possiamo, non vogliamo giudicare. Ciascun essere umano fronteggia il dolore come crede e come può. Di fronte alla lotta del singolo con sé stesso e con il male, la nostra voce si spegne. Resta tuttavia da compiere una valutazione sociale e politica, la quale ci consegna un quadro non proprio radioso della società in cui viviamo. Per prima cosa, notiamo che «il corpo è tuo» solo quando devi ammazzarti. La tragedia di Mario, infatti, viene presentata da tutti i media come una vittoria della libertà, un grande passo avanti sulla via del progresso. L'ex autista, dicono i sinceri democratici, ha diritto di disporre della sua esistenza terrena nel modo che più gli aggrada. Curiosamente, però, quelli che oggi tifano per l'eutanasia sono gli stessi che vogliono obbligare le persone a inocularsi il vaccino. La sovranità dell'individuo sul proprio corpo, sembra, va bene se egli decide di togliersi di mezzo, ma va revocata nel momento in cui lo stesso individuo non vuole farsi pungere il braccio. Allo stesso modo, si vuole rendere sempre più semplice e veloce l'aborto, ma guai ad avere dei dubbi sulla vaccinazione ai bambini: se ti liberi del piccino, sei una benemerita che vuole essere padrona della sua vita; se lo hai messo al mondo e non vuoi fargli fare l'iniezione, sei una pazza da rieducare. Insomma: l'utero è tuo e te lo gestisci tu, ma il braccio è dello Stato e zitta. Le posizioni dominanti sul vaccino e l'eutanasia, però, sono solo apparentemente contraddittorie. Esse si inseriscono all'interno della medesima logica di riduzione della cura e di feticismo dell'individuo. Tutto ruota attorno al concetto di immunità, una parola che non indica – come si crede – la protezione, ma l'assenza di legami. Chi è immune non ha un munus (dono) da restituire, tantomeno quello della vita. L'immune non deve essere grato a nessuno, non deve ricambiare nulla. È libero da ogni catena, ma è anche isolato. Ci si vaccina per l'immunità e non – come troppi sostengono – per la comunità. Si cerca una protezione per poter condurre la propria esistenza senza preoccuparsi degli altri, soprattutto se sono contagiosi. L'imperativo è: preservare la possibilità di comprare e di produrre, niente altro. Chi non si vaccina viene presentato come un peso per i suoi simili, un fardello che può rallentare la crescita, impedire di fare le vacanze o di andare al ristorante. Il no vax, ci ripetono, è un parassita che grava sulle finanze pubbliche. Non solo: bisogna vaccinarsi per non intasare gli ospedali, perché le terapie intensive sono poche e di costruirne di più non se ne parla. Ecco il punto: ci si fissa sempre e solo sul vaccino perché l'idea di cura è troppo complicata, quasi fastidiosa. La cura prevede attenzione per il paziente, valutazione caso per caso, intervento umano. Per curare ci vuole un'azione comunitaria. La Cattedrale Sanitaria, al contrario, si accontenta di un buchetto sulla spalla. Con l'eutanasia funziona più o meno nello stesso modo. Il malato grave, il disabile e l'anziano sofferente vengono presentati come pesi. Il dolore che essi incarnano non va affrontato, perché terrorizza. Bisogna allontanarlo, cancellarlo. Non si può convivere con la sofferenza, bisogna eliminarla, esattamente come ci si illude di poter fare con il vaccino. Ora, non ci sono dubbi che il malato grave soffra. E la sofferenza talvolta è insopportabile, abbrutisce e annichilisce. Ma se qualcuno continua a soffrire, significa che la medicina – la Scienza – è stata sconfitta. Che non è in grado di alleviare le pene. E che tutto ciò che sta attorno al malato non è sufficiente a fargli considerare la vita degna d'essere affrontata, pur nelle condizioni più ostili. Più facile consentire al sofferente di uccidersi: si libera un letto d'ospedale, si risparmiano soldi e reparti da gestire, si sgravano le famiglie da un pensiero. Alle radici della attuale paranoia immunitaria e del sostegno sfegatato all'eutanasia c'è la rimozione del dolore (e della malattia e della morte). Il tentativo è quello di occultare i limiti della scienza e il fallimento della comunità. Riassumendo: il braccio è tuo ma te lo gestisco io, così che tu possa vaccinarti e poi levarti dai piedi, senza un fiato sulle cure. Quanto al resto del corpo, fanne ciò che vuoi: si ti pesa annientalo. Se non puoi essere efficiente, arrangiati.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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