
L'ex premier difende il commissario Pierre Moscovici e dice: «Rispetto al nostro Paese la Grecia è un miraggio». E l'ex presidente si getta in campo: «Bisogna lottare per l'Ue fermando l'ondata regressiva e populista».Nel favoloso mondo del Pd può accadere davvero di tutto. Giorno dopo giorno, infatti, il partito guidato da Nicola Zingaretti attinge dal proprio universo parallelo per regalarci perle ai confini della realtà. Può capitare per esempio di sentire l'ex premier Paolo Gentiloni, udite udite, rimpiangere addirittura la Grecia. Nel corso della trasmissione radiofonica Radio Anch'io, commentando le previsioni di primavera pubblicate martedì dalla Commissione europea il politico romano ha infatti dichiarato ieri che «la Grecia è un miraggio», considerato che «in tutti questi anni era dietro di noi e adesso la vediamo lontana». Esatto, avete capito bene: secondo Gentiloni dovremmo invidiare lo stesso Paese martoriato dalla crisi prima e dalla Troika poi, costretto pur di garantirsi l'uscita dal programma di aiuti a firmare con il sangue un patto che l'impegna da qui a molti anni a rispettare una rigorosa disciplina di bilancio, e che risulta ancora indebitato per l'astronomica cifra di 200 miliardi nei confronti delle istituzioni europee. Ma soprattutto dovremmo rimpiangere di non avere un debito pubblico del 181% (il nostro, per quanto altissimo, è di 50 punti percentuali più basso), un tasso di disoccupazione al 18,5% (nel nostro Paese è appena sceso al 10,2%) e più di un individuo su tre a rischio di povertà ed esclusione sociale. Un po' come l'altro ex premier Mario Monti, che nel 2011 ebbe l'ardire di definire la Grecia «il più grande successo dell'euro». Così, mentre è notizia di ieri l'apertura del vicepremier Luigi Di Maio alla proposta di Matteo Salvini di sforare il tetto del 3% sul deficit, i kamikaze di via delle Fratte ancora difendono l'austerità. E chissà cosa ne pensa il predecessore di Giuseppe Conte della pace fiscale appena licenziata (a quanto pare senza nemmeno consultare prima i creditori internazionali) dal governo di Alexis Tsipras per racimolare qualche voto in più alle europee. Non dimentichiamo che in Italia il Pd aveva bollato sbrigativamente come condono una misura analoga approvata dal governo gialloblù.D'altronde, dicevamo, l'assurdo è di casa dalle parti del Partito democratico. Della scelta di invitare a un evento della campagna elettorale svoltosi martedì il commissario per gli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, abbiamo già dato ampiamente conto. Una mossa che più del tentativo di tirare la volata a Roberto Gualtieri ha le sembianze di un vero e proprio suicidio politico, specie se consideriamo che negli ultimi mesi Moscovici non ha perso occasione per sputare veleno nei confronti dell'Italia. Senza contare che la geniale trovata ha creato più di un mal di pancia anche tra la fila degli stessi sostenitori del Pd. Ma come spesso accade, e visti i personaggi in ballo non poteva essere altrimenti, la toppa risulta pure peggiore del buco. Paolo Gentiloni, presente anch'egli all'evento, si è mosso subito in difesa del commissario: «Moscovici non è il carnefice dell'Italia, ma in questi anni è stato un prezioso interlocutore che ha consentito quei margini di flessibilità che hanno permesso di fare i bilanci». Tradotto, dovremmo ringraziare il buon Pierre di averci fatto qualche concessione, piuttosto che dargli addosso. «Le alzate di sopracciglio di alcuni di noi», ha proseguito Gentiloni bacchettando i compagni di partito, «indicano un problema nella posizione del Pd e della lista unitaria: noi dobbiamo difendere l'Europa per poterla cambiare. Se ci accodiamo al lungo treno che dice che l'Europa va cambiata dimenticandoci di dire che va difesa perdiamo una occasione straordinaria». L'endorsement più clamoroso alla visita del francese è arrivato però dall'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in una nota diffusa ieri ha riservato «un augurio caloroso per l'apertura della sua campagna elettorale a Roberto Gualtieri, che sta da tempo assolvendo una fondamentale funzione di governo nel Parlamento di Strasburgo, contribuendo a far avanzare la causa dell'integrazione e dell'unità dell'Europa e a contrastare l'ondata regressiva e populista che la minaccia, come avviene da parte delle forze oggi al governo in Italia». Un giudizio piuttosto tranchant per un protagonista politico che fino a poco fa si vantava di essere super partes. «Trovo altamente significativo che nel suo ampio e qualificato impegno», ha concluso Napolitano, «si ritrovino uomini d'Europa tra i migliori, come Pierre Moscovici e Paolo Gentiloni, con i quali ho sviluppato negli anni uno stretto sodalizio personale. Ad essi tutti l'auspicio di un successo comune».E visto che siamo in tema di statisti meritevoli, come dimenticare il grottesco teatrino andato in scena lunedì a Bruxelles in occasione della cerimonia di consegna degli European leadership awards organizzata dalla testata Euronews? Gli organizzatori dovevano essere a corto di idee, visto che hanno deciso di attribuire il riconoscimento al leader europeo dell'anno, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Non che le alternative fossero granché: le altre due nomination erano per Michael Barnier, capo dei negoziati per la Brexit, e Cecilia Malmström, commissario europeo per il Commercio. Poca suspense anche nell'altra categoria principale, riservata alla personalità europea dell'anno. A spuntarla sull'attivista del clima Greta Thunberg e l'ex calciatore Lilian Thuram è stata Zuzana Caputova, neo presidente della Slovacchia. Proprio Paolo Gentiloni, in occasione della sua elezione a marzo, su Twitter l'aveva definita «un esempio di buona politica per l'Europa». Per mettere in chiaro che se c'è una cosa che il Pd e Bruxelles hanno in comune è l'abitudine a suonarsela e cantarsela da soli.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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