2025-05-05
Dire la verità su Gaza è diventato pericoloso
La bandiera di Israele bruciata durante la manifestazione del 1°maggio a Torino (Ansa)
Sui social è sommerso dall’odio chi contesta l’accusa di «genocidio», mossa a Israele addirittura prima che iniziasse a rispondere alle stragi del 7 ottobre 2023. Ma sono i numeri a smentire politici, cantanti, università e enti internazionali amici degli islamici.«Basta la parola». Vecchio slogan pubblicitario che racchiude una verità neurobiologica, la potenza evocativa delle parole. Genocidio non è una parola con cui scherzare. È l’accusa massima, totale, che permette un odio massimo, totale, che permette anche di dimenticare i veri genocidi, di banalizzarli, di considerarli dimenticati. Non esiste alcun genocidio a Gaza. Analizziamo la demografia. Ci dicono che Gaza, che ha una frontiera in comune con l’Egitto, prima del 7 ottobre era una prigione a cielo aperto, anzi un lager. Nei lager la popolazione diminuiva. Nel 1967, quando Israele conquista Sinai e Gaza con la Guerra dei sei giorni, a Gaza vivono circa 500.000 persone, nel 2000 la popolazione era più che raddoppiata. Gli israeliani hanno portato fogne, acqua potabile, scolarità e ospedali abbattendo la mortalità infantile. Nel 2005 gli israeliani lasciano Gaza, strappando i propri coloni da terre che avevano reso fertilissime. La speranza di pace di Israele naufraga immediatamente. Comincia una guerriglia continua con Israele, sempre accusato di genocidio e pulizia etnica. Nel 2010 la popolazione di Gaza era di 1.600.000 abitanti, nel 2020 ha raggiunto i 2.300.000. Come si può facilmente verificare su Google, a Gaza prima del 7 ottobre, c’erano hotel, di cui due a 5 stelle, ville con piscina, un campo da golf, turismo, motivo per cui Israele ha pensato di essere riuscito a comprarsi la pace. Ritenendo a torto che la pace sia conclusa, Israele cessa di controllare il confine, e addirittura permette l’ingresso di migliaia di frontalieri, migliaia di lavoratori che da Gaza vanno nei kibbutz dei massacri a lavorare. I massacri sono stati possibili perché gli uomini di Hamas conoscevano già i posti, sapevano chi aveva il cane, chi aveva un fucile. Se Israele, durante questo anno di guerra, avesse voluto sterminare la popolazione di Gaza avrebbe potuto farlo: sarebbe stato sufficiente bombardare a tappeto, come è stata bombardata Dresda, o come stata bombardata Berlino, oppure la Cecenia o l’Iraq, per arrivare a esempi più recente, sorvolando sul mezzo milione di morti che ha fatto la guerra in Siria, o su come è stata bombardata Belgrado, per ricordare una situazione dove l’Italia ha entusiasticamente collaborato, senza che nessuno parlasse di genocidio. È interessante l’analisi dei tempi con cui viene tirata fuori l’accusa di genocidio. Il 7 ottobre 2023 è il giorno dell’attacco di Hamas ai civili israeliani, uccisi con un sadismo sconosciuto addirittura alle Ss. Ci sono stati più di 1.000 assassinati, tra cui moltissimi bambini, e 6.000 feriti. Ci sono stati stupri di gruppo su centinaia di donne ebree poi mutilate o sventrate. Ci sono stati 200 ostaggi catturati, inclusi i due bimbi con i capelli rossi di 4 e 1 anno. Hamas entra in Israele, uccide e massacra, e già il 7 ottobre compaiono nei campus, sui social, nelle università, nelle sedi di molti movimenti e in rete incredibili parole che accusano Israele, che non ha ancora fatto nulla, non sta neanche riuscendo a contare i morti, di genocidio contro Gaza. Il 9 ottobre, due giorni dopo che i miliziani di Hamas hanno sterminato più di 1.000 ebrei, a Londra c’è la prima manifestazione davanti all’ambasciata israeliana, con cartelli, bandiere, latrati di odio. Immediatamente dopo arriva a Chicago. Se analizziamo i tempi ci rendiamo conto che gli israeliani sono stati accusati di genocidio prima di aver cominciato qualsiasi azione militare, con una azione mediatica geniale, capillare, internazionale, che è in realtà cominciata dopo la guerra del Kippur (1973), terza guerra di sterminio scatenata dai Paesi arabi confinanti e terza vittoria di Israele. Si è cambiata strategia, non più vere guerre con veri eserciti, ma la creazione del terrorismo palestinese e la sua beatificazione. Fiumi di denaro sono arrivati ai campus statunitensi ufficialmente, e non ufficialmente anche a personaggi politici e giornali, alle cancellerie europee, al punto che nei palazzi di Bruxelles si firmano trattati ufficiali dove si dichiara che tra gli scopi dell’Ue c’è l’islamizzazione dell’Europa, mediante modificazioni culturali e immigrazione massiva. Il vittimismo palestinese e la beatificazione del terrorismo palestinese sono elementi essenziali. Nasce e viene coltivata negli atenei, nello spettacolo, sui giornali l’idea che il terrorismo è una reazione a un torto subito. Maggiore è la ferocia del terrorismo, maggiore deve essere il torto subito. Quindi tanto più Hamas massacra, tanto più questa è la prova che Israele è un mostro genocida. Israele non avrebbe potuto evitare l’accusa di genocidio, nata il 7 ottobre, il giorno stesso del massacro subìto, nemmeno se si fosse limitato ad accendere candeline e scrivere sull’asfalto con gessetti colorati a tinte pastello. È completamente mancata qualsiasi forma di simpatia per gli assassinati e i rapiti. Non sono state fatte condoglianze, perché tutti i sionisti sono colpevoli e meritano la morte. Il solo fatto che siano stati uccisi dimostra che hanno scatenato un odio mortale nel cuore dei palestinesi, quindi sono colpevoli. Il 14 ottobre a Ginevra arrivano le parole di una delle più disastrose persone che prendono uno stipendio dall’Onu per aumentare il disastro del mondo. Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu, parla di «mass ethnic cleansing». Nemmeno una parola sui rapiti, sugli stuprati sia femmine che maschi, sui bambini massacrati. Grazie alla Albanese la parola genocidio si leva dalle piazze per arrivare ai piani alti. Lo stesso giorno a Londra una marcia di 150.000 persone urla la sua opposizione al genocidio. Qualcuno finalmente protesta per il 7 ottobre, qualcuno protesta per il genocidio che Hamas dichiara di voler commettere addirittura nel suo statuto? Certamente no: il genocidio per cui si protesta è quello di Israele contro Gaza. L’esercito israeliano non è ancora entrato a Gaza. I vertici di Hamas ripetono a chiunque voglia ascoltarli la loro volontà di sterminio. Non si fermeranno fino a quando non avranno distrutto Israele, come prescritto dall’articolo uno del loro Statuto. Grazie a loro, e grazie all’odio che ovunque si sta scatenando contro gli ebrei, sarà possibile lo sterminio di ogni ebreo nel mondo, come prescritto dal loro articolo sette. È evidente che c’è una strategia. È fondamentale, per poter distruggere Israele, delegittimarla con l’accusa di genocidio. Ho scritto sulla mia pagina Facebook che non c’è nessun genocidio di Israele. È come mettere le mani in un vespaio. L’odio si è scatenato a fiumi, l’odio più violento e incredibile. Moltissime persone hanno la bandiera di Hamas al posto della propria faccia sulla loro pagina Facebook. Quindi un mucchio di persone vuole come prima cosa al mondo lo sterminio dello Stato di Israele dal fiume al mare, e come settima cosa l’assassinio di ogni ebreo nel mondo. I dati sui morti di Gaza sono forniti dal ministero della Salute controllato da Hamas, e sono ovviamente falsi. Stanno faticosamente emergendo i numeri veri, che sono fortunatamente molto più bassi e, come riconosce lo stesso Hamas, al 70% costituiti da maschi in età militare, cioè da unità combattenti. Ma l’accusa di genocidio scatta in tutti i casi, rilanciata dal Vaticano, da Amnesty International, da qualche miserabile cantautore mai sentito nominare da nessuno, da qualche miserabile aspirante uomo politico, e sempre ottiene standing ovation, intere piazze che latrano la loro gioia all’idea che Israele sia distrutto, così la giustizia sarà ristabilita e il mondo vivrà in pace. L’accusa di genocidio è scattata prima di qualsiasi azione militare perché è preparata dal 1973. Si tratta dell’invenzione di un genocidio, necessaria per rendere tollerabile un genocidio vero, quello che, come posso vedere sulla mia pagina Facebook, è il sogno di molti. «Combatti fino alla morte per la verità e Dio combatterà per te» (Siracide). Non c’è nessun genocidio a Gaza.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
Continua a leggereRiduci
Mark Zuckerberg (Getty Images)