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2020-04-09
Gates, re Mida dei filantropi già si prepara a venderci il vaccino (e vuole decidere anche la fine del lockdown)
Bill Gates (Jack Taylor/Getty Images)
Un vaccino per il coronavirus? Bill Gates si sta portando avanti. L'azienda americana Inovio ha avuto il via libera alla sperimentazione di Ino-4800, un farmaco già somministrato a 40 volontari adulti sani, che tra un mese riceveranno la seconda dose. I test sono in parte finanziati dalla Bill e Melinda Gates foundation e dalla Coalition for epidemic preparedness innovations, pure questa facente parte della galassia filantropica dei Gates. Ma quella del miliardario americano è solo beneficienza disinteressata?
Su di lui gira un aneddoto, confermato qualche anno fa dal diretto interessato. Totalmente ossessionato dal lavoro, Gates aveva memorizzato una per una le targhe delle autovetture dei suoi dipendenti in Microsoft. Ciò gli permetteva di controllare chi degli impiegati rimanesse a fare straordinario, e chi no.
Ma la vera dote naturale di Gates è sempre stata un'altra: fare soldi. L'anno della svolta fu il 1981, quando Microsoft chiuse un accordo per installare il sistema operativo Ms-Dos sui personal computer Ibm. Come tante altre volte in futuro, Bill ci aveva visto giusto. Nel giro di un solo lustro, dal 1980 al 1985, fatturato e numero di dipendenti di Microsoft aumentarono infatti nell'ordine di venti volte. Man mano che gli affari prosperano, così anche il culto della personalità di Gates. Nel piccante ritratto pubblicato alcuni giorni fa, la rivista Jacobin Magazine racconta come in quegli anni non fosse infrequente assistere a importanti riunioni di lavoro durante le quali i manager di Redmond si dondolavano all'unisono con il loro capo, atteggiamento tipico di Gates per smorzare la tensione. Nonostante i tanti traguardi raggiunti, complice anche la guerra con il browser rivale Netscape, alla fine degli anni Novanta l'immagine di Bill subisce un duro colpo. Cause e contenziosi legali si moltiplicano, e il fondatore di Microsoft rischia di passare alla storia come uno spietato monopolista.
C'è bisogno di una bella ripulita all'immagine. Non mancano i particolari da libro cuore: nel 1997 Bill e la moglie Melinda leggono un articolo pubblicato sul New York Times che parla della difficoltà di accesso all'acqua potabile nel terzo mondo e decidono di mettersi all'opera. Lo stesso anno Bill si reca in India dove viene immortalato mentre amministra il vaccino della polio ai bambini più poveri. Nel 2000 nasce ufficialmente la Bill & Melinda Gates foundation, oggi la fondazione più ricca al mondo, potendo amministrare un patrimonio di 51,8 miliardi di dollari. Pressappoco, tanto per capirci, l'equivalente del Prodotto interno lordo della Slovenia. Tecnicamente, la fondazione si regge su un trust che ogni anno versa alla fondazione 5 miliardi di dollari, alimentato dalle donazioni dei coniugi Gates e del multimiliardario Warren Buffett. È ancora una volta l'affare giusto: dal 2010 a oggi Bill vede raddoppiare la propria ricchezza personale. Nella classifica dei paperoni mondiali oggi occupa il secondo posto, dietro il patron di Amazon Jeff Bezos. La rivista Forbes stima il suo patrimonio in tempo reale in circa 102,1 miliardi di dollari (94,1 miliardi di euro). Tanto che, un mese fa, il miliardario ha annunciato l'addio da Microsoft per dedicarsi totalmente alle attività filantropiche.
Ma farne solo una questione di soldi sarebbe riduttivo. Oggi il giocattolino della famiglia Gates determina di fatto l'agenda setting in campo sanitario (e non solo) a livello mondiale. Prova ne è il fatto che, intervenendo una settimana fa alla Cbs, il ricco filantropo ha dettato tempi e modi del ritorno alla normalità a seguito della crisi scatenata dal coronavirus, come fosse uno Stato sovrano. «Anche nell'eventualità che i casi dovessero diminuire», ha argomentato Gates, «alcune attività, per esempio quelle che prevedono assembramenti, potrebbero - in un certo senso - essere opzionali e, finché non si è tutti vaccinati, addirittura non tornare per nulla». Scordatevi il ritorno a scuola, le gite nei parchi e al mare, fare sport o assistere a una messa. Nel «Bill pensiero» tutte queste attività sono subordinate alla realizzazione, produzione e distribuzione su larga scala del vaccino.
D'altronde lui è uno particolarmente ferrato sul tema. Quasi un terzo dei 54 miliardi di dollari spesi negli ultimi 20 anni è passato attraverso la divisione Salute della fondazione. Nel 1999, i Gates hanno donato 750 milioni di dollari per lanciare il Gavi, l'alleanza mondiale sui vaccini, stanziando a oggi complessivi 4 miliardi. Nel 2018, la fondazione ne è stata il primo finanziatore con 540 milioni, davanti a Regno Unito e Norvegia. Gavi è legato a doppio filo con le case farmaceutiche, non fosse altro perché utilizza i fondi dei donatori per acquistare vaccini da distribuire ai Paesi più poveri. Lo scorso dicembre, Medici senza frontiere ha chiesto di bloccare uno stanziamento di 262 milioni di dollari a Pfizer e Gsk per il vaccino pneumococcico. «È ora che Gavi smetta di finanziare le case farmaceutiche, hanno già raccolto più del dovuto dai fondi dei donatori, oltre ai quasi 50 miliardi di dollari ricavati in dieci anni dalle vendite», si legge nella durissima nota di Msf, «finora Pfizer e Gsk hanno già guadagnato 1,2 miliardi» dal fondo speciale Amc, creato dal Gavi nel 2007 per velocizzare l'implementazione del vaccino pneumococcico.
E poi ovviamente c'è l'Organizzazione mondiale della sanità, le cui entrate totali (2,2 miliardi di dollari) si basano per l'80% su contribuzioni volontarie. Solo la metà è versata dagli Stati, tutto il resto sono soldi elargiti dai privati. Manco a dirlo, su tutti spicca la fondazione Gates (229 milioni) e il Gavi (158 milioni). Quasi il 20% dei fondi totali dell'Oms passa di fatto per Bill, più di qualsiasi altro Paese al mondo, cosa che gli permette di poter condizionare le politica sanitaria globale.
Non stupisce dunque che la fondazione sia in prima fila fin dalle prime battute dell'epidemia di Covid-19. Già il 5 febbraio l'annuncio relativo a una donazione di 100 milioni di dollari, mentre di recente è stato lo stesso Bill Gates ad annunciare che i suoi laboratori sono al lavoro su 7 diverse linee di vaccino, due delle quali, appunto, sono già state ammesse alla fase 2 della sperimentazione. È notizia di pochi giorni fa che Madonna ha contribuito alla causa donando un milione di euro. Nel filmato pubblicato sui social la popstar indossa una t shirt con un demonio appeso a una croce. Provocazione blasfema a pochi giorni dalla Pasqua, che ha contribuito a rendere ancora più oscura l'immagine della potente fondazione.
Contraddittoria e troppo filocinese Il morbo rivela le magagne dell’Oms
Crescono le polemiche intorno all'Oms. Al di là della confusione che ormai da giorni sta regnando sulle linee guida per un corretto utilizzo delle mascherine, il bersaglio principale è la lentezza con cui l'agenzia delle Nazioni Unite ha risposto alla crisi del coronavirus: l'emergenza sanitaria mondiale è stata proclamata soltanto il 30 gennaio, quando i primi casi di polmonite sospetta a Wuhan erano già noti a dicembre - secondo alcuni, addirittura a novembre. Ricordiamo, tra l'altro, che il 24 gennaio si erano registrati ufficialmente in Cina 41 decessi e oltre 1.000 contagi. E che il morbo aveva raggiunto altre parti del mondo. Sottovalutazione del problema? O legami politici con la Cina?
Qualche perplessità sull'Oms si è iniziata a registrare anche nel nostro Paese. Si pensi alle riserve, espresse due giorni fa, dal direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità, Gianni Rezza. «Errare è umano», ha dichiarato, «e anche l'Organizzazione mondiale della sanità è fatta da uomini. Non è detto che ci abbia sempre azzeccato, sia in questa circostanza, sia in passato. L'Oms è un'organizzazione molto importante, a volte si può sottovalutare un aspetto o prendere decisioni sbagliate, poi correggerle dopo, soprattutto con virus nuovi come questo e con le conoscenze che si raccolgono passo passo». Venendo all'uso delle mascherine, Rezza lo ha definito un «tema complessissimo», sui cui ancora non si riscontra una «posizione definitiva», sottolineando poi che «anche l'Oms tende a cambiare opinione». Che queste parole vengano dall'Istituto superiore di sanità è significativo, anche perché - in un certo senso - mostrano qualche discrepanza con il governo. Non dimentichiamo infatti che consulente speciale per il nostro ministero della Salute è proprio un membro dell'Oms: Walter Ricciardi.
Sul piano internazionale, non va poi trascurato che l'agenzia si sta sempre più attirando le accuse di non aver vigilato a dovere sullo scoppio dell'epidemia: probabilmente per i suoi stretti legami con Pechino. È questa la posizione del presidente americano, Donald Trump, che ha definito polemicamente l'Oms come «molto incentrata sulla Cina», lasciando pertanto intendere che potrebbe sospenderle i finanziamenti. Secondo l'inquilino della Casa Bianca l'agenzia potrebbe infatti aver intenzionalmente ritardato il riconoscimento dell'epidemia per fare un favore alla Cina. Come sottolinea The Hill, gli Stati Uniti rappresentano il principale contributore dell'Organizzazione. Washington versa circa 116 milioni di dollari all'anno, senza poi considerare i finanziamenti per progetti aggiuntivi (che oscillano tra i 100 e i 400 milioni all'anno).
La Casa Bianca ha comunque già proposto di tagliare - per l'anno fiscale 2021 - le erogazioni dai 122 milioni di dollari dell'anno corrente a 58 milioni: una riduzione drastica che tuttavia difficilmente sarà approvata dal Congresso. Tensioni con l'Oms si erano del resto registrate già a marzo, quando l'agenzia aveva criticato il presidente americano per aver definito il Covid-19 un «virus cinese».
Trump non è comunque solo nella sua battaglia. Il senatore repubblicano, Rick Scott, ha infatti chiesto alla commissione per la Sicurezza nazionale del Senato di attuare un'indagine sulla gestione della pandemia da parte dell'Oms. Tutto questo, mentre martedì oltre 20 deputati repubblicani hanno proposto alla Camera una risoluzione per bloccare i finanziamenti all'agenzia, fin quando non sarà stata effettuate un'inchiesta e il suo direttore generale, l'etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, non avrà rassegnato le proprie dimissioni.
E proprio la figura di Ghebreyesus è stata duramente attaccata domenica scorsa da un editoriale del Wall Street Journal, il quale sosteneva che sia principalmente sua la responsabilità dei ritardi nella gestione dell'epidemia. A questo proposito, vale forse la pena di ricordare che, nel governo etiope, Ghebreyesus è stato ministro della Sanità dal 2005 al 2012 e ministro degli Esteri dal 2012 al 2016: un periodo in cui la Cina ha rafforzato i suoi legami con l'Etiopia, in termini di prestiti e investimenti in vari settori. L'Etiopia costituisce un centro fondamentale per consentire a Pechino di consolidare la propria influenza geopolitica ed economica sull'area africana. Tra l'altro, come ravvisa lo stesso Wall Street Journal, non va trascurato che - contrariamente a Washington - Pechino è riuscita negli anni a svolgere un'efficace attività di lobbying nell'Oms: un elemento che garantisce alla Repubblica popolare un peso decisivo in seno all'Organizzazione. E questo, nonostante la Cina contribuisca economicamente poco più della metà di quanto finora abbia fatto lo Zio Sam. Inoltre, al di là delle dinamiche geopolitiche in senso stretto, non è la prima volta che l'Oms si ritrova invischiata in polemiche, legate a scelte strategiche controverse. Nell'ottobre del 2014, il Guardian riportò che l'agenzia ammise di aver gestito male le fasi iniziali dell'epidemia di ebola in Africa occidentale.
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Partono i test sul medicinale finanziato dal creatore di Microsoft, la cui fondazione, che copre d'oro la lobby farmaceutica, riesce a dettare l'agenda sanitaria globale.Gianni Rezza dell'Iss critica l'ente per le incoerenze sulle mascherine. La Casa Bianca minaccia di togliergli i fondi, accusandolo di favoritismi a Pechino. Con cui il direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus da ministro in Etiopia, fu molto benevolo.Lo speciale contiene due articoliUn vaccino per il coronavirus? Bill Gates si sta portando avanti. L'azienda americana Inovio ha avuto il via libera alla sperimentazione di Ino-4800, un farmaco già somministrato a 40 volontari adulti sani, che tra un mese riceveranno la seconda dose. I test sono in parte finanziati dalla Bill e Melinda Gates foundation e dalla Coalition for epidemic preparedness innovations, pure questa facente parte della galassia filantropica dei Gates. Ma quella del miliardario americano è solo beneficienza disinteressata?Su di lui gira un aneddoto, confermato qualche anno fa dal diretto interessato. Totalmente ossessionato dal lavoro, Gates aveva memorizzato una per una le targhe delle autovetture dei suoi dipendenti in Microsoft. Ciò gli permetteva di controllare chi degli impiegati rimanesse a fare straordinario, e chi no. Ma la vera dote naturale di Gates è sempre stata un'altra: fare soldi. L'anno della svolta fu il 1981, quando Microsoft chiuse un accordo per installare il sistema operativo Ms-Dos sui personal computer Ibm. Come tante altre volte in futuro, Bill ci aveva visto giusto. Nel giro di un solo lustro, dal 1980 al 1985, fatturato e numero di dipendenti di Microsoft aumentarono infatti nell'ordine di venti volte. Man mano che gli affari prosperano, così anche il culto della personalità di Gates. Nel piccante ritratto pubblicato alcuni giorni fa, la rivista Jacobin Magazine racconta come in quegli anni non fosse infrequente assistere a importanti riunioni di lavoro durante le quali i manager di Redmond si dondolavano all'unisono con il loro capo, atteggiamento tipico di Gates per smorzare la tensione. Nonostante i tanti traguardi raggiunti, complice anche la guerra con il browser rivale Netscape, alla fine degli anni Novanta l'immagine di Bill subisce un duro colpo. Cause e contenziosi legali si moltiplicano, e il fondatore di Microsoft rischia di passare alla storia come uno spietato monopolista.C'è bisogno di una bella ripulita all'immagine. Non mancano i particolari da libro cuore: nel 1997 Bill e la moglie Melinda leggono un articolo pubblicato sul New York Times che parla della difficoltà di accesso all'acqua potabile nel terzo mondo e decidono di mettersi all'opera. Lo stesso anno Bill si reca in India dove viene immortalato mentre amministra il vaccino della polio ai bambini più poveri. Nel 2000 nasce ufficialmente la Bill & Melinda Gates foundation, oggi la fondazione più ricca al mondo, potendo amministrare un patrimonio di 51,8 miliardi di dollari. Pressappoco, tanto per capirci, l'equivalente del Prodotto interno lordo della Slovenia. Tecnicamente, la fondazione si regge su un trust che ogni anno versa alla fondazione 5 miliardi di dollari, alimentato dalle donazioni dei coniugi Gates e del multimiliardario Warren Buffett. È ancora una volta l'affare giusto: dal 2010 a oggi Bill vede raddoppiare la propria ricchezza personale. Nella classifica dei paperoni mondiali oggi occupa il secondo posto, dietro il patron di Amazon Jeff Bezos. La rivista Forbes stima il suo patrimonio in tempo reale in circa 102,1 miliardi di dollari (94,1 miliardi di euro). Tanto che, un mese fa, il miliardario ha annunciato l'addio da Microsoft per dedicarsi totalmente alle attività filantropiche.Ma farne solo una questione di soldi sarebbe riduttivo. Oggi il giocattolino della famiglia Gates determina di fatto l'agenda setting in campo sanitario (e non solo) a livello mondiale. Prova ne è il fatto che, intervenendo una settimana fa alla Cbs, il ricco filantropo ha dettato tempi e modi del ritorno alla normalità a seguito della crisi scatenata dal coronavirus, come fosse uno Stato sovrano. «Anche nell'eventualità che i casi dovessero diminuire», ha argomentato Gates, «alcune attività, per esempio quelle che prevedono assembramenti, potrebbero - in un certo senso - essere opzionali e, finché non si è tutti vaccinati, addirittura non tornare per nulla». Scordatevi il ritorno a scuola, le gite nei parchi e al mare, fare sport o assistere a una messa. Nel «Bill pensiero» tutte queste attività sono subordinate alla realizzazione, produzione e distribuzione su larga scala del vaccino. D'altronde lui è uno particolarmente ferrato sul tema. Quasi un terzo dei 54 miliardi di dollari spesi negli ultimi 20 anni è passato attraverso la divisione Salute della fondazione. Nel 1999, i Gates hanno donato 750 milioni di dollari per lanciare il Gavi, l'alleanza mondiale sui vaccini, stanziando a oggi complessivi 4 miliardi. Nel 2018, la fondazione ne è stata il primo finanziatore con 540 milioni, davanti a Regno Unito e Norvegia. Gavi è legato a doppio filo con le case farmaceutiche, non fosse altro perché utilizza i fondi dei donatori per acquistare vaccini da distribuire ai Paesi più poveri. Lo scorso dicembre, Medici senza frontiere ha chiesto di bloccare uno stanziamento di 262 milioni di dollari a Pfizer e Gsk per il vaccino pneumococcico. «È ora che Gavi smetta di finanziare le case farmaceutiche, hanno già raccolto più del dovuto dai fondi dei donatori, oltre ai quasi 50 miliardi di dollari ricavati in dieci anni dalle vendite», si legge nella durissima nota di Msf, «finora Pfizer e Gsk hanno già guadagnato 1,2 miliardi» dal fondo speciale Amc, creato dal Gavi nel 2007 per velocizzare l'implementazione del vaccino pneumococcico.E poi ovviamente c'è l'Organizzazione mondiale della sanità, le cui entrate totali (2,2 miliardi di dollari) si basano per l'80% su contribuzioni volontarie. Solo la metà è versata dagli Stati, tutto il resto sono soldi elargiti dai privati. Manco a dirlo, su tutti spicca la fondazione Gates (229 milioni) e il Gavi (158 milioni). Quasi il 20% dei fondi totali dell'Oms passa di fatto per Bill, più di qualsiasi altro Paese al mondo, cosa che gli permette di poter condizionare le politica sanitaria globale.Non stupisce dunque che la fondazione sia in prima fila fin dalle prime battute dell'epidemia di Covid-19. Già il 5 febbraio l'annuncio relativo a una donazione di 100 milioni di dollari, mentre di recente è stato lo stesso Bill Gates ad annunciare che i suoi laboratori sono al lavoro su 7 diverse linee di vaccino, due delle quali, appunto, sono già state ammesse alla fase 2 della sperimentazione. È notizia di pochi giorni fa che Madonna ha contribuito alla causa donando un milione di euro. Nel filmato pubblicato sui social la popstar indossa una t shirt con un demonio appeso a una croce. Provocazione blasfema a pochi giorni dalla Pasqua, che ha contribuito a rendere ancora più oscura l'immagine della potente fondazione.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gates-re-mida-dei-filantropi-gia-si-prepara-a-venderci-il-vaccino-e-vuole-decidere-anche-la-fine-del-lockdown-2645671064.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="contraddittoria-e-troppo-filocinese-il-morbo-rivela-le-magagne-delloms" data-post-id="2645671064" data-published-at="1586369209" data-use-pagination="False"> Contraddittoria e troppo filocinese Il morbo rivela le magagne dell’Oms Crescono le polemiche intorno all'Oms. Al di là della confusione che ormai da giorni sta regnando sulle linee guida per un corretto utilizzo delle mascherine, il bersaglio principale è la lentezza con cui l'agenzia delle Nazioni Unite ha risposto alla crisi del coronavirus: l'emergenza sanitaria mondiale è stata proclamata soltanto il 30 gennaio, quando i primi casi di polmonite sospetta a Wuhan erano già noti a dicembre - secondo alcuni, addirittura a novembre. Ricordiamo, tra l'altro, che il 24 gennaio si erano registrati ufficialmente in Cina 41 decessi e oltre 1.000 contagi. E che il morbo aveva raggiunto altre parti del mondo. Sottovalutazione del problema? O legami politici con la Cina? Qualche perplessità sull'Oms si è iniziata a registrare anche nel nostro Paese. Si pensi alle riserve, espresse due giorni fa, dal direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità, Gianni Rezza. «Errare è umano», ha dichiarato, «e anche l'Organizzazione mondiale della sanità è fatta da uomini. Non è detto che ci abbia sempre azzeccato, sia in questa circostanza, sia in passato. L'Oms è un'organizzazione molto importante, a volte si può sottovalutare un aspetto o prendere decisioni sbagliate, poi correggerle dopo, soprattutto con virus nuovi come questo e con le conoscenze che si raccolgono passo passo». Venendo all'uso delle mascherine, Rezza lo ha definito un «tema complessissimo», sui cui ancora non si riscontra una «posizione definitiva», sottolineando poi che «anche l'Oms tende a cambiare opinione». Che queste parole vengano dall'Istituto superiore di sanità è significativo, anche perché - in un certo senso - mostrano qualche discrepanza con il governo. Non dimentichiamo infatti che consulente speciale per il nostro ministero della Salute è proprio un membro dell'Oms: Walter Ricciardi. Sul piano internazionale, non va poi trascurato che l'agenzia si sta sempre più attirando le accuse di non aver vigilato a dovere sullo scoppio dell'epidemia: probabilmente per i suoi stretti legami con Pechino. È questa la posizione del presidente americano, Donald Trump, che ha definito polemicamente l'Oms come «molto incentrata sulla Cina», lasciando pertanto intendere che potrebbe sospenderle i finanziamenti. Secondo l'inquilino della Casa Bianca l'agenzia potrebbe infatti aver intenzionalmente ritardato il riconoscimento dell'epidemia per fare un favore alla Cina. Come sottolinea The Hill, gli Stati Uniti rappresentano il principale contributore dell'Organizzazione. Washington versa circa 116 milioni di dollari all'anno, senza poi considerare i finanziamenti per progetti aggiuntivi (che oscillano tra i 100 e i 400 milioni all'anno). La Casa Bianca ha comunque già proposto di tagliare - per l'anno fiscale 2021 - le erogazioni dai 122 milioni di dollari dell'anno corrente a 58 milioni: una riduzione drastica che tuttavia difficilmente sarà approvata dal Congresso. Tensioni con l'Oms si erano del resto registrate già a marzo, quando l'agenzia aveva criticato il presidente americano per aver definito il Covid-19 un «virus cinese». Trump non è comunque solo nella sua battaglia. Il senatore repubblicano, Rick Scott, ha infatti chiesto alla commissione per la Sicurezza nazionale del Senato di attuare un'indagine sulla gestione della pandemia da parte dell'Oms. Tutto questo, mentre martedì oltre 20 deputati repubblicani hanno proposto alla Camera una risoluzione per bloccare i finanziamenti all'agenzia, fin quando non sarà stata effettuate un'inchiesta e il suo direttore generale, l'etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, non avrà rassegnato le proprie dimissioni. E proprio la figura di Ghebreyesus è stata duramente attaccata domenica scorsa da un editoriale del Wall Street Journal, il quale sosteneva che sia principalmente sua la responsabilità dei ritardi nella gestione dell'epidemia. A questo proposito, vale forse la pena di ricordare che, nel governo etiope, Ghebreyesus è stato ministro della Sanità dal 2005 al 2012 e ministro degli Esteri dal 2012 al 2016: un periodo in cui la Cina ha rafforzato i suoi legami con l'Etiopia, in termini di prestiti e investimenti in vari settori. L'Etiopia costituisce un centro fondamentale per consentire a Pechino di consolidare la propria influenza geopolitica ed economica sull'area africana. Tra l'altro, come ravvisa lo stesso Wall Street Journal, non va trascurato che - contrariamente a Washington - Pechino è riuscita negli anni a svolgere un'efficace attività di lobbying nell'Oms: un elemento che garantisce alla Repubblica popolare un peso decisivo in seno all'Organizzazione. E questo, nonostante la Cina contribuisca economicamente poco più della metà di quanto finora abbia fatto lo Zio Sam. Inoltre, al di là delle dinamiche geopolitiche in senso stretto, non è la prima volta che l'Oms si ritrova invischiata in polemiche, legate a scelte strategiche controverse. Nell'ottobre del 2014, il Guardian riportò che l'agenzia ammise di aver gestito male le fasi iniziali dell'epidemia di ebola in Africa occidentale.
La Juventus resta sotto il controllo di Exor. Il gruppo ha chiarito con un comunicato la propria posizione sull’offerta di Tether. «La Juventus è un club storico e di successo, di cui Exor e la famiglia Agnelli sono azionisti stabili e orgogliosi da oltre un secolo», si legge nella nota della holding, che conferma come il consiglio di amministrazione abbia respinto all’unanimità l’offerta per l’acquisizione del club e ribadito il pieno impegno nel sostegno al nuovo corso dirigenziale.
A rafforzare il messaggio, nelle stesse ore, è arrivato anche un intervento diretto di John Elkann, diffuso sui canali ufficiali della Juventus. Un video breve, meno di un minuto, ma importante. Elkann sceglie una veste informale, indossa una felpa con la scritta Juventus e parla di identità e di responsabilità. Traduzione per i tifosi che sognano nuovi padroni o un ritorno di Andrea Agnelli: il mercato è aperto per Gedi, ma non per la Juve. Il video va oltre le parole. Chiarisce ciò che viene smentito e ciò che resta aperto. Elkann chiude alla vendita della Juventus. Ma non chiude alla vendita di giornali e radio.
La linea, in realtà, era stata tracciata. Già ai primi di novembre, intervenendo al Coni, Elkann aveva dichiarato che la Juve non era in vendita, parlando del club come di un patrimonio identitario prima ancora che industriale. Uno dei nodi resta il prezzo. L’offerta attribuiva alla Juventus una valutazione tra 1,1 e 1,2 miliardi, cifra che Exor giudica distante dal peso economico reale (si mormora che Tether potrebbe raddoppiare l’offerta). Del resto, la Juventus è una società quotata, con una governance strutturata, ricavi di livello europeo e un elemento che in Italia continua a fare la differenza: lo stadio di proprietà. L’Allianz Stadium non è solo un simbolo. Funziona come asset industriale. È costato circa 155 milioni di euro, è entrato in funzione nel 2011 e oggi gli analisti di settore lo valutano tra 300 e 400 milioni, considerando struttura, diritti e capacità di generare ricavi. L’impianto produce flussi stabili, consente pianificazione e riduce l’esposizione ai risultati sportivi di breve periodo.
I numeri di bilancio completano il quadro. Nei cicli più recenti la Juventus ha generato ricavi operativi tra 400 e 450 milioni di euro, collocandosi tra i principali club europei per fatturato, come indicano i report Deloitte football money league. Prima della pandemia, i ricavi da stadio oscillavano tra 60 e 70 milioni di euro a stagione, ai vertici della Serie A. Su queste basi, applicando multipli utilizzati per club con brand globale e asset infrastrutturali, negli ambienti finanziari la valutazione industriale della Juventus viene collocata tra 1,5 e 2 miliardi di euro, al netto delle variabili sportive.
Il confronto con il mercato rafforza questa lettura. Il Milan è stato ceduto a RedBird per circa 1,2 miliardi di euro, senza stadio di proprietà e con una governance più complessa. Quel prezzo resta un riferimento nel calcio italiano. Se quella è stata la valutazione di un top club privo dell’asset stadio, risulta difficile immaginare che la Juventus possa essere trattata allo stesso livello senza che il socio di controllo giudichi l’operazione penalizzante.
A incidere è anche il profilo dell’offerente. Tether, principale emittente globale di stablecoin, opera in un perimetro regolatorio diverso da quello degli intermediari tradizionali, seguito con attenzione anche da Consob. Dopo l’ultimo aumento di capitale bianconero, Standard & Poor’s ha declassato la capacità di Usdt di mantenere l’ancoraggio al dollaro. Sul piano reputazionale pesa, inoltre, il giudizio dell’Economist (del gruppo Exor), secondo cui la stablecoin è diventata uno strumento utilizzato anche nei circuiti dell’economia sommersa globale, cioè sul mercato nero.
Intorno alla Juventus circolano anche altre ipotesi. Si parla di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di Luxottica e azionista di EssilorLuxottica attraverso la holding di famiglia Delfin, dopo l’offerta presentata su Gedi, e di un possibile interesse indiretto di capitali mediorientali. Al momento, però, mancano cifre e progetti industriali strutturati. Restano solo indiscrezioni.
Sullo sfondo continua intanto a emergere il nome di Andrea Agnelli. L’ex presidente dei nove scudetti ha concluso la squalifica e raccoglie il consenso di una parte ampia della tifoseria, che lo sogna come possibile punto di ripartenza. L’ipotesi che circola immagina un ritorno sostenuto da imprenditori internazionali, anche mediorientali, in un contesto in cui il fondo saudita Pif, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e già proprietario del Newcastle, si è imposto come uno dei principali attori globali del calcio.
Un asse che non si esaurisce sul terreno sportivo. Lo stesso filone saudita riaffiora nel dossier Gedi, ormai entrato nella fase conclusiva. La presenza dell’imprenditore greco Theodore Kyriakou, fondatore del gruppo Antenna, rimanda a un perimetro di relazioni che incrocia capitali internazionali e investimenti promossi dal regno saudita. In questo quadro, Gedi - che comprende Repubblica, Stampa e Radio Deejay - è l’unico asset destinato a cambiare mano, mentre Exor ha tracciato una linea netta: il gruppo editoriale segue una strada propria, la Juventus resta fuori (al momento) da qualsiasi ipotesi di cessione.
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Finanziere puro. John Elkann, abilissimo a trasformare stabilimenti e impianti, operai e macchinari, sudore e fatica in figurine panini da comprare e vendere. Ma quando si tratta di gestire aziende «vere», quelle che producono, vincono o informano, la situazione si complica. È un po’ come vedere un mago dei numeri alle prese con un campo di calcio per stabilirne il valore e stabilire il valore dei soldi. Ma la palla… beh, la palla non sempre entra in porta. Peccato. Andrà meglio la prossima volta.
Prendiamo Ferrari. Il Cavallino rampante, che una volta dominava la Formula 1, oggi ha perso la capacità di galoppare. Elkann vende il 4% della società per circa 3 miliardi: applausi dagli azionisti, brindisi familiare, ma la pista? Silenziosa. Il titolo è un lontano ricordo. I tifosi hanno esaurito la pazienza rifugiandosi nell’ironia: «Anche per quest’anno vinceremo il Mondiale l’anno prossimo». E cosi gli azionisti. Da quando Elkann ha collocato quelle azioni il titolo scende e basta. Era diventato il gioiello di Piazza Affari. Dopo il blitz di Elkann per arricchire Exor il lento declino.
E la Juventus? Sotto Andrea Agnelli aveva conquistato nove scudetti di fila, un record che ha fatto parlare tutta Italia. Oggi arranca senza gloria. Racconta Platini di una breve esibizione dell’erede di Agnelli in campo. Pochi minuti e si fa sostituire. Rifiata, chiede di rientrare. Il campione francese lo guarda sorridendo: «John, questo è calcio non è basket». Elkann osserva da lontano, contento dei bilanci Exor e delle partecipazioni finanziarie, mentre tifosi e giornalisti discutono sulle strategie sportive. La gestione lo annoia, ma la rendita finanziaria quella è impeccabile.
Gedi naviga tra conti in rosso e sfide editoriali perdenti. Cairo, dall’altra parte, rilancia il Corriere della Sera con determinazione e nuovi investimenti. Elkann sorride: non è un problema gestire giornali, se sai fare finanza. La lezione è chiara: le aziende si muovono, ma i capitali contano di più.
Stellantis? La storia dell’auto italiana. La storia della dinastia. Ora un condominio con la famiglia Peugeot. Elkann lascia fare, osserva i mercati e, quando serve, vende o alleggerisce le partecipazioni. Anche qui, la gestione operativa non è il punto forte: ciò che conta è il risultato finanziario, non il numero di auto prodotte o le fabbriche gestite.
E gli investimenti? Alcuni brillano, altri richiedono pazienza. Philips è un esempio recente: un investimento ambizioso che riflette la strategia di diversificazione di Exor, con qualche rischio incorporato. Ma se si guarda al quadro generale, Elkann ha accumulato oltre 4 miliardi di liquidità entro metà 2025, grazie a vendite mirate e partnership strategiche. Una cifra sufficiente per pensare a nuove acquisizioni e opportunità, senza perdere il sorriso.
Perché poi quello che conta per John è altro. Il gruppo Exor continua a crescere in valore. Gli azionisti vedono il titolo passare da un minimo storico di 13,44 euro nel 2011 a circa 72 euro oggi, e sorridono. La famiglia Elkann Agnelli si gode i frutti degli investimenti, mentre il mondo osserva: Elkann è il finanziere perfetto, sa fare ciò che conta davvero, cioè far crescere la ricchezza e proteggere gli asset della famiglia.
In fondo, Elkann ci ricorda che la finanza ha il suo fascino anche quando la gestione aziendale è complicata: vendere, comprare, accumulare, investire con giudizio (e un pizzico di fortuna) può essere altrettanto emozionante che vincere scudetti, titoli di Formula 1 o rilanciare giornali. Il sorriso di chi ha azioni Exor vale più di qualsiasi trofeo, e dopotutto, questo è il suo segreto.
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Piero Cipollone (Ansa)
Come spiega il politico europeo i «soldi verranno recuperati attraverso quello che è il signoraggio all’euro digitale». Invece «per quanto riguarda sistema bancario e gli altri fornitori di servizi di pagamento, la stima è che possa essere fra i quattro e sei miliardi di euro per quattro anni», ricorda Cipollone. «Tenete conto che, rispetto a quello che spendono le banche per i sistemi It, questa è una cifra minima. Parliamo di circa il 3,5% di quello che spendono le banche annualmente per implementare i loro sistemi. Quindi non è un costo». Inoltre, aggiunge, «va detto che le banche saranno compensate» con una remunerazione molto simile a come quando si fa «una transazione normale con carta».
Cipollone ha anche descritto una sequenza temporale condizionata dall’iter legislativo europeo e dalla necessità di predisporre un’infrastruttura operativa completa prima di qualunque emissione. «Se per la fine del 2026 avremo in piedi la legislazione a quel punto pensiamo di essere in grado di costruire tutta la macchina entro la prima metà del 2027 e quindi, a settembre del 27, di cominciare una fase di sperimentazione, il “Pilot”. Per poi partire con il lancio effettivo nel 2029».
Per l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, l’euro digitale è particolarmente importante per l’Europa «perché via via che si espande lo spazio digitale dei pagamenti, su questo spazio la presenza di operatori europei è quasi nulla». Insomma, «più si espande lo spazio dei pagamenti digitali, più la nostra dipendenza da pochi e importanti operatori stranieri diventa più profonda», ricorda Cipollone. «Le parole chiave sono “pochi” e “non europei”, perché pochi richiama il concetto di scarsa concorrenza, stranieri non europei richiama il concetto di dipendenza strategica da altri operatori. Noi non abbiamo nulla contro operatori stranieri che lavorino nell’area dell’euro. Il problema è che noi vorremmo che l’area dell’euro avesse una sua infrastruttura autonoma, indipendente, che non dipenda dalle decisioni degli altri».
Cipollone ribadisce poi la posizione della Bce sul contante: resta centrale perché «estremamente semplice da usare», quindi inclusivo, utilizzabile ovunque e «sicuro» perché «senza alcun rischio associato». Il problema, però, è che nell’economia sempre più digitale il contante diventa meno spendibile: «Sta diventando sempre meno utilizzabile nell’economia». Da qui l’argomento «di mandato»: se manca un equivalente del contante online, si toglie ai cittadini la possibilità di usare moneta di banca centrale nello spazio digitale; «è come discriminare contro la moneta pubblica». Quindi la Bce deve «estendere una specie di contante digitale» con funzioni analoghe al contante, ma adatto ai pagamenti digitali.
Il politico ieri ad Atreju ha anche parlato di metallo giallo ricordando che le riserve auree delle banche centrali sono cresciute fino a circa 36.000 tonnellate. Come ha spiegato l’esperto, queste riserve «hanno un fondamento storico importante» perché, quando c’era la convertibilità, «servivano come riserva rispetto alle banconote». Oggi, con le monete a corso legale, «la credibilità del valore della moneta è affidata a quella della Banca centrale nell’essere capace di controllare i prezzi», ma «una eco di questa convertibilità è rimasta»: oro e valute restano riserve di valore contro rischi rilevanti.
Come ha spiegato, le Banche centrali comprano oro soprattutto come difesa «contro l’inflazione» e contro «i rischi nei mercati finanziari», e perché «le riserve sono una garanzia della capacità del Paese di far fronte a possibili shock esterni». Per questi motivi, «l’oro è tornato di moda».
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