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2020-04-09
Gates, re Mida dei filantropi già si prepara a venderci il vaccino (e vuole decidere anche la fine del lockdown)
Bill Gates (Jack Taylor/Getty Images)
Un vaccino per il coronavirus? Bill Gates si sta portando avanti. L'azienda americana Inovio ha avuto il via libera alla sperimentazione di Ino-4800, un farmaco già somministrato a 40 volontari adulti sani, che tra un mese riceveranno la seconda dose. I test sono in parte finanziati dalla Bill e Melinda Gates foundation e dalla Coalition for epidemic preparedness innovations, pure questa facente parte della galassia filantropica dei Gates. Ma quella del miliardario americano è solo beneficienza disinteressata?
Su di lui gira un aneddoto, confermato qualche anno fa dal diretto interessato. Totalmente ossessionato dal lavoro, Gates aveva memorizzato una per una le targhe delle autovetture dei suoi dipendenti in Microsoft. Ciò gli permetteva di controllare chi degli impiegati rimanesse a fare straordinario, e chi no.
Ma la vera dote naturale di Gates è sempre stata un'altra: fare soldi. L'anno della svolta fu il 1981, quando Microsoft chiuse un accordo per installare il sistema operativo Ms-Dos sui personal computer Ibm. Come tante altre volte in futuro, Bill ci aveva visto giusto. Nel giro di un solo lustro, dal 1980 al 1985, fatturato e numero di dipendenti di Microsoft aumentarono infatti nell'ordine di venti volte. Man mano che gli affari prosperano, così anche il culto della personalità di Gates. Nel piccante ritratto pubblicato alcuni giorni fa, la rivista Jacobin Magazine racconta come in quegli anni non fosse infrequente assistere a importanti riunioni di lavoro durante le quali i manager di Redmond si dondolavano all'unisono con il loro capo, atteggiamento tipico di Gates per smorzare la tensione. Nonostante i tanti traguardi raggiunti, complice anche la guerra con il browser rivale Netscape, alla fine degli anni Novanta l'immagine di Bill subisce un duro colpo. Cause e contenziosi legali si moltiplicano, e il fondatore di Microsoft rischia di passare alla storia come uno spietato monopolista.
C'è bisogno di una bella ripulita all'immagine. Non mancano i particolari da libro cuore: nel 1997 Bill e la moglie Melinda leggono un articolo pubblicato sul New York Times che parla della difficoltà di accesso all'acqua potabile nel terzo mondo e decidono di mettersi all'opera. Lo stesso anno Bill si reca in India dove viene immortalato mentre amministra il vaccino della polio ai bambini più poveri. Nel 2000 nasce ufficialmente la Bill & Melinda Gates foundation, oggi la fondazione più ricca al mondo, potendo amministrare un patrimonio di 51,8 miliardi di dollari. Pressappoco, tanto per capirci, l'equivalente del Prodotto interno lordo della Slovenia. Tecnicamente, la fondazione si regge su un trust che ogni anno versa alla fondazione 5 miliardi di dollari, alimentato dalle donazioni dei coniugi Gates e del multimiliardario Warren Buffett. È ancora una volta l'affare giusto: dal 2010 a oggi Bill vede raddoppiare la propria ricchezza personale. Nella classifica dei paperoni mondiali oggi occupa il secondo posto, dietro il patron di Amazon Jeff Bezos. La rivista Forbes stima il suo patrimonio in tempo reale in circa 102,1 miliardi di dollari (94,1 miliardi di euro). Tanto che, un mese fa, il miliardario ha annunciato l'addio da Microsoft per dedicarsi totalmente alle attività filantropiche.
Ma farne solo una questione di soldi sarebbe riduttivo. Oggi il giocattolino della famiglia Gates determina di fatto l'agenda setting in campo sanitario (e non solo) a livello mondiale. Prova ne è il fatto che, intervenendo una settimana fa alla Cbs, il ricco filantropo ha dettato tempi e modi del ritorno alla normalità a seguito della crisi scatenata dal coronavirus, come fosse uno Stato sovrano. «Anche nell'eventualità che i casi dovessero diminuire», ha argomentato Gates, «alcune attività, per esempio quelle che prevedono assembramenti, potrebbero - in un certo senso - essere opzionali e, finché non si è tutti vaccinati, addirittura non tornare per nulla». Scordatevi il ritorno a scuola, le gite nei parchi e al mare, fare sport o assistere a una messa. Nel «Bill pensiero» tutte queste attività sono subordinate alla realizzazione, produzione e distribuzione su larga scala del vaccino.
D'altronde lui è uno particolarmente ferrato sul tema. Quasi un terzo dei 54 miliardi di dollari spesi negli ultimi 20 anni è passato attraverso la divisione Salute della fondazione. Nel 1999, i Gates hanno donato 750 milioni di dollari per lanciare il Gavi, l'alleanza mondiale sui vaccini, stanziando a oggi complessivi 4 miliardi. Nel 2018, la fondazione ne è stata il primo finanziatore con 540 milioni, davanti a Regno Unito e Norvegia. Gavi è legato a doppio filo con le case farmaceutiche, non fosse altro perché utilizza i fondi dei donatori per acquistare vaccini da distribuire ai Paesi più poveri. Lo scorso dicembre, Medici senza frontiere ha chiesto di bloccare uno stanziamento di 262 milioni di dollari a Pfizer e Gsk per il vaccino pneumococcico. «È ora che Gavi smetta di finanziare le case farmaceutiche, hanno già raccolto più del dovuto dai fondi dei donatori, oltre ai quasi 50 miliardi di dollari ricavati in dieci anni dalle vendite», si legge nella durissima nota di Msf, «finora Pfizer e Gsk hanno già guadagnato 1,2 miliardi» dal fondo speciale Amc, creato dal Gavi nel 2007 per velocizzare l'implementazione del vaccino pneumococcico.
E poi ovviamente c'è l'Organizzazione mondiale della sanità, le cui entrate totali (2,2 miliardi di dollari) si basano per l'80% su contribuzioni volontarie. Solo la metà è versata dagli Stati, tutto il resto sono soldi elargiti dai privati. Manco a dirlo, su tutti spicca la fondazione Gates (229 milioni) e il Gavi (158 milioni). Quasi il 20% dei fondi totali dell'Oms passa di fatto per Bill, più di qualsiasi altro Paese al mondo, cosa che gli permette di poter condizionare le politica sanitaria globale.
Non stupisce dunque che la fondazione sia in prima fila fin dalle prime battute dell'epidemia di Covid-19. Già il 5 febbraio l'annuncio relativo a una donazione di 100 milioni di dollari, mentre di recente è stato lo stesso Bill Gates ad annunciare che i suoi laboratori sono al lavoro su 7 diverse linee di vaccino, due delle quali, appunto, sono già state ammesse alla fase 2 della sperimentazione. È notizia di pochi giorni fa che Madonna ha contribuito alla causa donando un milione di euro. Nel filmato pubblicato sui social la popstar indossa una t shirt con un demonio appeso a una croce. Provocazione blasfema a pochi giorni dalla Pasqua, che ha contribuito a rendere ancora più oscura l'immagine della potente fondazione.
Contraddittoria e troppo filocinese Il morbo rivela le magagne dell’Oms
Crescono le polemiche intorno all'Oms. Al di là della confusione che ormai da giorni sta regnando sulle linee guida per un corretto utilizzo delle mascherine, il bersaglio principale è la lentezza con cui l'agenzia delle Nazioni Unite ha risposto alla crisi del coronavirus: l'emergenza sanitaria mondiale è stata proclamata soltanto il 30 gennaio, quando i primi casi di polmonite sospetta a Wuhan erano già noti a dicembre - secondo alcuni, addirittura a novembre. Ricordiamo, tra l'altro, che il 24 gennaio si erano registrati ufficialmente in Cina 41 decessi e oltre 1.000 contagi. E che il morbo aveva raggiunto altre parti del mondo. Sottovalutazione del problema? O legami politici con la Cina?
Qualche perplessità sull'Oms si è iniziata a registrare anche nel nostro Paese. Si pensi alle riserve, espresse due giorni fa, dal direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità, Gianni Rezza. «Errare è umano», ha dichiarato, «e anche l'Organizzazione mondiale della sanità è fatta da uomini. Non è detto che ci abbia sempre azzeccato, sia in questa circostanza, sia in passato. L'Oms è un'organizzazione molto importante, a volte si può sottovalutare un aspetto o prendere decisioni sbagliate, poi correggerle dopo, soprattutto con virus nuovi come questo e con le conoscenze che si raccolgono passo passo». Venendo all'uso delle mascherine, Rezza lo ha definito un «tema complessissimo», sui cui ancora non si riscontra una «posizione definitiva», sottolineando poi che «anche l'Oms tende a cambiare opinione». Che queste parole vengano dall'Istituto superiore di sanità è significativo, anche perché - in un certo senso - mostrano qualche discrepanza con il governo. Non dimentichiamo infatti che consulente speciale per il nostro ministero della Salute è proprio un membro dell'Oms: Walter Ricciardi.
Sul piano internazionale, non va poi trascurato che l'agenzia si sta sempre più attirando le accuse di non aver vigilato a dovere sullo scoppio dell'epidemia: probabilmente per i suoi stretti legami con Pechino. È questa la posizione del presidente americano, Donald Trump, che ha definito polemicamente l'Oms come «molto incentrata sulla Cina», lasciando pertanto intendere che potrebbe sospenderle i finanziamenti. Secondo l'inquilino della Casa Bianca l'agenzia potrebbe infatti aver intenzionalmente ritardato il riconoscimento dell'epidemia per fare un favore alla Cina. Come sottolinea The Hill, gli Stati Uniti rappresentano il principale contributore dell'Organizzazione. Washington versa circa 116 milioni di dollari all'anno, senza poi considerare i finanziamenti per progetti aggiuntivi (che oscillano tra i 100 e i 400 milioni all'anno).
La Casa Bianca ha comunque già proposto di tagliare - per l'anno fiscale 2021 - le erogazioni dai 122 milioni di dollari dell'anno corrente a 58 milioni: una riduzione drastica che tuttavia difficilmente sarà approvata dal Congresso. Tensioni con l'Oms si erano del resto registrate già a marzo, quando l'agenzia aveva criticato il presidente americano per aver definito il Covid-19 un «virus cinese».
Trump non è comunque solo nella sua battaglia. Il senatore repubblicano, Rick Scott, ha infatti chiesto alla commissione per la Sicurezza nazionale del Senato di attuare un'indagine sulla gestione della pandemia da parte dell'Oms. Tutto questo, mentre martedì oltre 20 deputati repubblicani hanno proposto alla Camera una risoluzione per bloccare i finanziamenti all'agenzia, fin quando non sarà stata effettuate un'inchiesta e il suo direttore generale, l'etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, non avrà rassegnato le proprie dimissioni.
E proprio la figura di Ghebreyesus è stata duramente attaccata domenica scorsa da un editoriale del Wall Street Journal, il quale sosteneva che sia principalmente sua la responsabilità dei ritardi nella gestione dell'epidemia. A questo proposito, vale forse la pena di ricordare che, nel governo etiope, Ghebreyesus è stato ministro della Sanità dal 2005 al 2012 e ministro degli Esteri dal 2012 al 2016: un periodo in cui la Cina ha rafforzato i suoi legami con l'Etiopia, in termini di prestiti e investimenti in vari settori. L'Etiopia costituisce un centro fondamentale per consentire a Pechino di consolidare la propria influenza geopolitica ed economica sull'area africana. Tra l'altro, come ravvisa lo stesso Wall Street Journal, non va trascurato che - contrariamente a Washington - Pechino è riuscita negli anni a svolgere un'efficace attività di lobbying nell'Oms: un elemento che garantisce alla Repubblica popolare un peso decisivo in seno all'Organizzazione. E questo, nonostante la Cina contribuisca economicamente poco più della metà di quanto finora abbia fatto lo Zio Sam. Inoltre, al di là delle dinamiche geopolitiche in senso stretto, non è la prima volta che l'Oms si ritrova invischiata in polemiche, legate a scelte strategiche controverse. Nell'ottobre del 2014, il Guardian riportò che l'agenzia ammise di aver gestito male le fasi iniziali dell'epidemia di ebola in Africa occidentale.
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Partono i test sul medicinale finanziato dal creatore di Microsoft, la cui fondazione, che copre d'oro la lobby farmaceutica, riesce a dettare l'agenda sanitaria globale.Gianni Rezza dell'Iss critica l'ente per le incoerenze sulle mascherine. La Casa Bianca minaccia di togliergli i fondi, accusandolo di favoritismi a Pechino. Con cui il direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus da ministro in Etiopia, fu molto benevolo.Lo speciale contiene due articoliUn vaccino per il coronavirus? Bill Gates si sta portando avanti. L'azienda americana Inovio ha avuto il via libera alla sperimentazione di Ino-4800, un farmaco già somministrato a 40 volontari adulti sani, che tra un mese riceveranno la seconda dose. I test sono in parte finanziati dalla Bill e Melinda Gates foundation e dalla Coalition for epidemic preparedness innovations, pure questa facente parte della galassia filantropica dei Gates. Ma quella del miliardario americano è solo beneficienza disinteressata?Su di lui gira un aneddoto, confermato qualche anno fa dal diretto interessato. Totalmente ossessionato dal lavoro, Gates aveva memorizzato una per una le targhe delle autovetture dei suoi dipendenti in Microsoft. Ciò gli permetteva di controllare chi degli impiegati rimanesse a fare straordinario, e chi no. Ma la vera dote naturale di Gates è sempre stata un'altra: fare soldi. L'anno della svolta fu il 1981, quando Microsoft chiuse un accordo per installare il sistema operativo Ms-Dos sui personal computer Ibm. Come tante altre volte in futuro, Bill ci aveva visto giusto. Nel giro di un solo lustro, dal 1980 al 1985, fatturato e numero di dipendenti di Microsoft aumentarono infatti nell'ordine di venti volte. Man mano che gli affari prosperano, così anche il culto della personalità di Gates. Nel piccante ritratto pubblicato alcuni giorni fa, la rivista Jacobin Magazine racconta come in quegli anni non fosse infrequente assistere a importanti riunioni di lavoro durante le quali i manager di Redmond si dondolavano all'unisono con il loro capo, atteggiamento tipico di Gates per smorzare la tensione. Nonostante i tanti traguardi raggiunti, complice anche la guerra con il browser rivale Netscape, alla fine degli anni Novanta l'immagine di Bill subisce un duro colpo. Cause e contenziosi legali si moltiplicano, e il fondatore di Microsoft rischia di passare alla storia come uno spietato monopolista.C'è bisogno di una bella ripulita all'immagine. Non mancano i particolari da libro cuore: nel 1997 Bill e la moglie Melinda leggono un articolo pubblicato sul New York Times che parla della difficoltà di accesso all'acqua potabile nel terzo mondo e decidono di mettersi all'opera. Lo stesso anno Bill si reca in India dove viene immortalato mentre amministra il vaccino della polio ai bambini più poveri. Nel 2000 nasce ufficialmente la Bill & Melinda Gates foundation, oggi la fondazione più ricca al mondo, potendo amministrare un patrimonio di 51,8 miliardi di dollari. Pressappoco, tanto per capirci, l'equivalente del Prodotto interno lordo della Slovenia. Tecnicamente, la fondazione si regge su un trust che ogni anno versa alla fondazione 5 miliardi di dollari, alimentato dalle donazioni dei coniugi Gates e del multimiliardario Warren Buffett. È ancora una volta l'affare giusto: dal 2010 a oggi Bill vede raddoppiare la propria ricchezza personale. Nella classifica dei paperoni mondiali oggi occupa il secondo posto, dietro il patron di Amazon Jeff Bezos. La rivista Forbes stima il suo patrimonio in tempo reale in circa 102,1 miliardi di dollari (94,1 miliardi di euro). Tanto che, un mese fa, il miliardario ha annunciato l'addio da Microsoft per dedicarsi totalmente alle attività filantropiche.Ma farne solo una questione di soldi sarebbe riduttivo. Oggi il giocattolino della famiglia Gates determina di fatto l'agenda setting in campo sanitario (e non solo) a livello mondiale. Prova ne è il fatto che, intervenendo una settimana fa alla Cbs, il ricco filantropo ha dettato tempi e modi del ritorno alla normalità a seguito della crisi scatenata dal coronavirus, come fosse uno Stato sovrano. «Anche nell'eventualità che i casi dovessero diminuire», ha argomentato Gates, «alcune attività, per esempio quelle che prevedono assembramenti, potrebbero - in un certo senso - essere opzionali e, finché non si è tutti vaccinati, addirittura non tornare per nulla». Scordatevi il ritorno a scuola, le gite nei parchi e al mare, fare sport o assistere a una messa. Nel «Bill pensiero» tutte queste attività sono subordinate alla realizzazione, produzione e distribuzione su larga scala del vaccino. D'altronde lui è uno particolarmente ferrato sul tema. Quasi un terzo dei 54 miliardi di dollari spesi negli ultimi 20 anni è passato attraverso la divisione Salute della fondazione. Nel 1999, i Gates hanno donato 750 milioni di dollari per lanciare il Gavi, l'alleanza mondiale sui vaccini, stanziando a oggi complessivi 4 miliardi. Nel 2018, la fondazione ne è stata il primo finanziatore con 540 milioni, davanti a Regno Unito e Norvegia. Gavi è legato a doppio filo con le case farmaceutiche, non fosse altro perché utilizza i fondi dei donatori per acquistare vaccini da distribuire ai Paesi più poveri. Lo scorso dicembre, Medici senza frontiere ha chiesto di bloccare uno stanziamento di 262 milioni di dollari a Pfizer e Gsk per il vaccino pneumococcico. «È ora che Gavi smetta di finanziare le case farmaceutiche, hanno già raccolto più del dovuto dai fondi dei donatori, oltre ai quasi 50 miliardi di dollari ricavati in dieci anni dalle vendite», si legge nella durissima nota di Msf, «finora Pfizer e Gsk hanno già guadagnato 1,2 miliardi» dal fondo speciale Amc, creato dal Gavi nel 2007 per velocizzare l'implementazione del vaccino pneumococcico.E poi ovviamente c'è l'Organizzazione mondiale della sanità, le cui entrate totali (2,2 miliardi di dollari) si basano per l'80% su contribuzioni volontarie. Solo la metà è versata dagli Stati, tutto il resto sono soldi elargiti dai privati. Manco a dirlo, su tutti spicca la fondazione Gates (229 milioni) e il Gavi (158 milioni). Quasi il 20% dei fondi totali dell'Oms passa di fatto per Bill, più di qualsiasi altro Paese al mondo, cosa che gli permette di poter condizionare le politica sanitaria globale.Non stupisce dunque che la fondazione sia in prima fila fin dalle prime battute dell'epidemia di Covid-19. Già il 5 febbraio l'annuncio relativo a una donazione di 100 milioni di dollari, mentre di recente è stato lo stesso Bill Gates ad annunciare che i suoi laboratori sono al lavoro su 7 diverse linee di vaccino, due delle quali, appunto, sono già state ammesse alla fase 2 della sperimentazione. È notizia di pochi giorni fa che Madonna ha contribuito alla causa donando un milione di euro. Nel filmato pubblicato sui social la popstar indossa una t shirt con un demonio appeso a una croce. Provocazione blasfema a pochi giorni dalla Pasqua, che ha contribuito a rendere ancora più oscura l'immagine della potente fondazione.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gates-re-mida-dei-filantropi-gia-si-prepara-a-venderci-il-vaccino-e-vuole-decidere-anche-la-fine-del-lockdown-2645671064.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="contraddittoria-e-troppo-filocinese-il-morbo-rivela-le-magagne-delloms" data-post-id="2645671064" data-published-at="1586369209" data-use-pagination="False"> Contraddittoria e troppo filocinese Il morbo rivela le magagne dell’Oms Crescono le polemiche intorno all'Oms. Al di là della confusione che ormai da giorni sta regnando sulle linee guida per un corretto utilizzo delle mascherine, il bersaglio principale è la lentezza con cui l'agenzia delle Nazioni Unite ha risposto alla crisi del coronavirus: l'emergenza sanitaria mondiale è stata proclamata soltanto il 30 gennaio, quando i primi casi di polmonite sospetta a Wuhan erano già noti a dicembre - secondo alcuni, addirittura a novembre. Ricordiamo, tra l'altro, che il 24 gennaio si erano registrati ufficialmente in Cina 41 decessi e oltre 1.000 contagi. E che il morbo aveva raggiunto altre parti del mondo. Sottovalutazione del problema? O legami politici con la Cina? Qualche perplessità sull'Oms si è iniziata a registrare anche nel nostro Paese. Si pensi alle riserve, espresse due giorni fa, dal direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità, Gianni Rezza. «Errare è umano», ha dichiarato, «e anche l'Organizzazione mondiale della sanità è fatta da uomini. Non è detto che ci abbia sempre azzeccato, sia in questa circostanza, sia in passato. L'Oms è un'organizzazione molto importante, a volte si può sottovalutare un aspetto o prendere decisioni sbagliate, poi correggerle dopo, soprattutto con virus nuovi come questo e con le conoscenze che si raccolgono passo passo». Venendo all'uso delle mascherine, Rezza lo ha definito un «tema complessissimo», sui cui ancora non si riscontra una «posizione definitiva», sottolineando poi che «anche l'Oms tende a cambiare opinione». Che queste parole vengano dall'Istituto superiore di sanità è significativo, anche perché - in un certo senso - mostrano qualche discrepanza con il governo. Non dimentichiamo infatti che consulente speciale per il nostro ministero della Salute è proprio un membro dell'Oms: Walter Ricciardi. Sul piano internazionale, non va poi trascurato che l'agenzia si sta sempre più attirando le accuse di non aver vigilato a dovere sullo scoppio dell'epidemia: probabilmente per i suoi stretti legami con Pechino. È questa la posizione del presidente americano, Donald Trump, che ha definito polemicamente l'Oms come «molto incentrata sulla Cina», lasciando pertanto intendere che potrebbe sospenderle i finanziamenti. Secondo l'inquilino della Casa Bianca l'agenzia potrebbe infatti aver intenzionalmente ritardato il riconoscimento dell'epidemia per fare un favore alla Cina. Come sottolinea The Hill, gli Stati Uniti rappresentano il principale contributore dell'Organizzazione. Washington versa circa 116 milioni di dollari all'anno, senza poi considerare i finanziamenti per progetti aggiuntivi (che oscillano tra i 100 e i 400 milioni all'anno). La Casa Bianca ha comunque già proposto di tagliare - per l'anno fiscale 2021 - le erogazioni dai 122 milioni di dollari dell'anno corrente a 58 milioni: una riduzione drastica che tuttavia difficilmente sarà approvata dal Congresso. Tensioni con l'Oms si erano del resto registrate già a marzo, quando l'agenzia aveva criticato il presidente americano per aver definito il Covid-19 un «virus cinese». Trump non è comunque solo nella sua battaglia. Il senatore repubblicano, Rick Scott, ha infatti chiesto alla commissione per la Sicurezza nazionale del Senato di attuare un'indagine sulla gestione della pandemia da parte dell'Oms. Tutto questo, mentre martedì oltre 20 deputati repubblicani hanno proposto alla Camera una risoluzione per bloccare i finanziamenti all'agenzia, fin quando non sarà stata effettuate un'inchiesta e il suo direttore generale, l'etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, non avrà rassegnato le proprie dimissioni. E proprio la figura di Ghebreyesus è stata duramente attaccata domenica scorsa da un editoriale del Wall Street Journal, il quale sosteneva che sia principalmente sua la responsabilità dei ritardi nella gestione dell'epidemia. A questo proposito, vale forse la pena di ricordare che, nel governo etiope, Ghebreyesus è stato ministro della Sanità dal 2005 al 2012 e ministro degli Esteri dal 2012 al 2016: un periodo in cui la Cina ha rafforzato i suoi legami con l'Etiopia, in termini di prestiti e investimenti in vari settori. L'Etiopia costituisce un centro fondamentale per consentire a Pechino di consolidare la propria influenza geopolitica ed economica sull'area africana. Tra l'altro, come ravvisa lo stesso Wall Street Journal, non va trascurato che - contrariamente a Washington - Pechino è riuscita negli anni a svolgere un'efficace attività di lobbying nell'Oms: un elemento che garantisce alla Repubblica popolare un peso decisivo in seno all'Organizzazione. E questo, nonostante la Cina contribuisca economicamente poco più della metà di quanto finora abbia fatto lo Zio Sam. Inoltre, al di là delle dinamiche geopolitiche in senso stretto, non è la prima volta che l'Oms si ritrova invischiata in polemiche, legate a scelte strategiche controverse. Nell'ottobre del 2014, il Guardian riportò che l'agenzia ammise di aver gestito male le fasi iniziali dell'epidemia di ebola in Africa occidentale.
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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