
La dichiarazione congiunta dei leader ha sancito la nascita del nuovo bipolarismo con una «riglobalizzazione selettiva».Nel 2013 chi scrive avviò un programma di ricerca continuativo intitolato «deglobalizzazione conflittuale e riglobalizzazione selettiva». In quell’anno l’amministrazione Obama lanciò due progetti di mercato integrato «americocentrici», il primo con 11 nazioni del Pacifico (Tpp) e il secondo con l’Ue (Ttip) che escludevano sia Cina sia Russia. Pechino rispose in modo simmetrico contrapposto con il progetto Via della seta, finalizzato a estendere la propria influenza su tutta l’Eurasia, in particolare sulla Germania come terminale di riferimento principale, sul Pacifico e Africa, combinato con penetrazioni nel Sud America. Va annotato che la Russia non solo era fuori dal progetto statunitense, ma anche da quello cinese. Forse da questa situazione nacque nel Cremlino l’idea di dover fare qualcosa di estremo, nel 2014, per cercare di riprendere centralità nel mondo, potendolo fare solo con energia e armi: iniziò l’attacco all’Ucraina, annettendo la Crimea, sperando di influenzare l’Ue via deterrenza e relazione privilegiata con Berlino. Ma, se così, il calcolo di Mosca è fallito, e ancor di più l’attacco totale a Kiev nel 2022. Per conseguenza la Russia si è trovata costretta a diventare un satellite della Cina e forse strumento di Pechino per aprire un terzo fronte contro l’America, il primo relativo a Taiwan, il secondo come uso della Corea del Nord per minaccia nucleare contro Giappone e Corea del Sud, nazioni ospitanti basi statunitensi. Nel 2017 il Congresso americano definì in modo bipartitico la Cina come nemico. Nello stesso anno Xi Jinping assunse poteri dittatoriali anche per mostrare la capacità cinese di essere coesa e forte nel confronto con l’America. Da quel momento la «deglobalizzazione conflittuale» prese forma più esplicita come dazi e contrasto alla penetrazione cinese in America e riarmo di Pechino per aumentare lo spazio di una «Grande Cina». Che alimentò una pressione americana crescente nei confronti della Ue - pur molto riluttante la conduzione francotedesca fino al 2020 - e del G7 per staccarsi, oltre che dalla Russia, anche dalla Cina. All’inizio del 2023 le situazioni mostravano una tendenza al disaccoppiamento sostanziale tra mercati amerocentrico e sinocentrico, inaugurando un bipolarismo mondiale «muro contro muro» con rischio crescente di crisi depressiva dell’economia mondiale. Da settimane tale rischio è stato valutato molto pericoloso per i propri interessi sia dall’America sia dalla Cina e la diplomazia di ambedue è disposta a non ridurre troppo i flussi commerciali. Nel G7 di Hiroshima appena terminato, infatti, è stata formalizzata una posizione di compressione solo selettiva e non totale della Cina che probabilmente porterà al mantenimento dei flussi commerciali globali non strategici. Pertanto si può dire che la «deglobalizzazione conflittuale» ha trovato un limite. Ma si deve anche annotare che la «riglobalizzazione selettiva» sta aumentando di intensità, spostando il conflitto bipolare su un altro livello. Il G7 di Hiroshima ha formalizzato il coordinamento delle nazioni partecipanti per: a) negare alla Cina l’accesso a tecnologie di superiorità; b) rilevare comportamenti economici che meritano sanzioni (Piattaforma di coordinamento contro la coercizione economica); c) sostenere programmi infrastrutturali e di investimento internazionali che contrastino quelli della Via della seta; d) per includere più nazioni emergenti, definite «Sud globale», nell’area di influenza del G7, così sottraendole alla sinosfera; e) per aiutarsi nel reperimento di materiali strategici entro il perimetro di influenza del G7 stesso. Nella dichiarazione congiunta rilasciata ieri, i leader del G7, pur senza citare Pechino, hanno avvertito che qualsiasi tentativo di «coercizione economica» avrà «conseguenze». Inoltre, hanno condannato le «attività di militarizzazione» nella regione dell’Asia-Pacifico.La Cina sta reagendo in modo simmetrico cercando di conquistare l’Asia centrale e consolidare le posizioni ottenute nel passato nelle aree del Pacifico, Africa e Sud America, senza per altro smettere di corteggiare Francia e Germania per staccarle dall’America e minacciando l’Italia se non rinnova l’accordo sulla Via della seta siglato nel 2019. Infatti per «riglobalizzazione selettiva» va intesa la formazione di due mercati politicamente regolati dai due poteri contrapposti. Da un lato, il commercio globale di cose non strategiche appare salvo. Dall’altro, nel settore di tutto ciò che è strategico i confini e la competizione tra Grande Cina e G7 si sono molto induriti. La competizione riguarda chi conquista più nazioni ancora non del tutto allineate nell’area grigia che esiste tra i due blocchi, quasi 5 miliardi di persone. Ciò fa prevedere al momento che i due eviteranno una guerra cinetica ed economica frontale, ma ne combatteranno una economica, forse con alcuni episodi militari, nell’area grigia. L’analisi strategica annota che mentre la Grande Cina è un potere verticale massivo e coeso, il G7 è formato da nazioni sovrane a convergenza non totale, come è tipico nelle alleanze. Pertanto il successo della competizione con la Cina dipende dall’attivismo espansivo di ogni singola nazione G7 che, pur coordinato, deve essere alimentato da vantaggi per ogni nazione stessa. Semplificando, ogni nazione del G7 è spinta a diventare globale e il G7 complessivo può espandersi solo così, non potendo più l’America fare il lavoro per tutti. Ciò spiega la nuova postura «globale e di riarmo» di tutte le nazioni G7. Ma segnala un possibile problema: la concorrenza interna nell’alleanza, in particolare tra europei, dove la proiezione globale dell’Italia inizia a dare fastidio a Francia e Germania. In questo nuovo scenario cambiano i parametri tradizionali e quelli nuovi suggeriscono sia proiezioni coordinate sia divisione del lavoro per aree geografiche. Comunque per l’Italia globale entro il G7 c’è uno spazio enorme di crescita da sfruttare. www.carlopelanda.com
Elly Schlein (Ansa)
Corteo a Messina per dire no all’opera. Salvini: «Nessuna nuova gara. Si parte nel 2026».
I cantieri per il Ponte sullo Stretto «saranno aperti nel 2026». Il vicepremier e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, snocciola dati certi e sgombera il campo da illazioni e dubbi proprio nel giorno in cui migliaia di persone (gli organizzatori parlano di 15.000) sono scese in piazza a Messina per dire no al Ponte sullo Stretto. Il «no» vede schierati Pd e Cgil in corteo per opporsi a un’opera che offre «comunque oltre 37.000 posti di lavoro». Nonostante lo stop arrivato dalla Corte dei Conti al progetto, Salvini ha illustrato i prossimi step e ha rassicurato gli italiani: «Non è vero che bisognerà rifare una gara. La gara c’è stata. Ovviamente i costi del 2025 dei materiali, dell’acciaio, del cemento, dell’energia, non sono i costi di dieci anni fa. Questo non perché è cambiato il progetto, ma perché è cambiato il mondo».
Luigi Lovaglio (Ansa)
A Milano si indaga su concerto e ostacolo alla vigilanza nella scalata a Mediobanca. Gli interessati smentiscono. Lovaglio intercettato critica l’ad di Generali Donnet.
La scalata di Mps su Mediobanca continua a produrre scosse giudiziarie. La Procura di Milano indaga sull’Ops. I pm ipotizzano manipolazione del mercato e ostacolo alla vigilanza, ritenendo possibile un coordinamento occulto tra alcuni nuovi soci di Mps e il vertice allora guidato dall’ad Luigi Lovaglio. Gli indagati sono l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone; Francesco Milleri, presidente della holding Delfin; Romolo Bardin, ad di Delfin; Enrico Cavatorta, dirigente della stessa holding; e lo stesso Lovaglio.
Leone XIV (Ansa)
- La missione di Prevost in Turchia aiuta ad abbattere il «muro» del Mediterraneo tra cristianità e Islam. Considerando anche l’estensione degli Accordi di Abramo, c’è fiducia per una florida regione multireligiosa.
- Leone XIV visita il tempio musulmano di Istanbul ma si limita a togliere le scarpe. Oggi la partenza per il Libano con il rebus Airbus: pure il suo velivolo va aggiornato.
Lo speciale contiene due articoli.
Pier Carlo Padoan (Ansa)
Schlein chiede al governo di riferire sull’inchiesta. Ma sono i democratici che hanno rovinato il Monte. E il loro Padoan al Tesoro ha messo miliardi pubblici per salvarlo per poi farsi eleggere proprio a Siena...
Quando Elly Schlein parla di «opacità del governo nella scalata Mps su Mediobanca», è difficile trattenere un sorriso. Amaro, s’intende. Perché è difficile ascoltare un appello alla trasparenza proprio dalla segretaria del partito che ha portato il Monte dei Paschi di Siena dall’essere la banca più antica del mondo a un cimitero di esperimenti politici e clientelari. Una rimozione selettiva che, se non fosse pronunciata con serietà, sembrerebbe il copione di una satira. Schlein tuona contro «il ruolo opaco del governo e del Mef», chiede a Giorgetti di presentarsi immediatamente in Parlamento, sventola richieste di trasparenza come fossero trofei morali. Ma evita accuratamente di ricordare che l’opacità vera, quella strutturale, quella che ha devastato la banca, porta un marchio indelebile: il Pci e i suoi eredi. Un marchio inciso nella pietra di Rocca Salimbeni, dove negli anni si è consumato uno dei più grandi scempi finanziari della storia repubblicana. Un conto finale da 8,2 miliardi pagato dallo Stato, cioè dai contribuenti, mentre i signori del «buon governo» locale si dilettavano con le loro clientele.






