
La Chiesa copta ortodossa dà un mese ai religiosi per lasciare Facebook e Twitter. Una rivoluzione del silenzio che potrebbe aiutare anche i cyberteologi cattolici.«Persevera nelle cose che ti dico, cioè nel lavoro, nella povertà, nel pellegrinaggio, nella tribolazione, nel silenzio». È uno dei punti della cosiddetta regola di Sant'Antonio abate, il padre del monachesimo cristiano, figlio di contadini egiziani nato verso il 251 a Qeman nel Sud di Menfi. Ritiratosi nel deserto ebbe nella custodia del silenzio una potente arma nella ricerca di Dio e contro le tentazioni, perciò sarebbe lieto del recente richiamo del patriarca Tawadros II, capo della chiesa copta ortodossa, per coloro che vivono oggi la condizione monastica in quella chiesa.Tra le dodici regole stabilite dal Comitato per i monasteri e la vita monastica del santo Sinodo copto, infatti, c'è n'è una che lascia un mese di tempo a monaci e monache per chiudere gli account personali sui social, tipo Facebook e Twitter, e gli eventuali blog da essi gestiti. Al di là delle questioni contingenti, si tratta di una bella sferzata a tutte le retoriche sulla nuova evangelizzazione online, molto di moda anche nella Chiesa cattolica con tanto di preti e religiosi che sembrano passare più tempo a postare che a pregare. In questi giorni il vescovo cattolico di Providence negli Stati Uniti ha mandato il suo ultimo tweet. Perché «purtroppo», ha scritto, «Twitter è diventato una grande distrazione per me, nei giorni buoni e cattivi, un ostacolo alla mia vita spirituale, un'occasione di peccato per me e per gli altri. Quindi, arrivederci. Se ho offeso qualcuno, mi dispiace davvero. Se ho aiutato qualcuno lungo la strada, grazie a Dio». Molto attivo nel cinguettio, monsignor Thomas Tobin aveva affrontato con alcuni commenti, anche di buon senso, il recente scandalo abusi che ha sconquassato la chiesa americana a partire dalle accuse rivolte al cardinale Theodore McCarrik. La pioggia di improperi senza filtro che si sono abbattuti sul suo account gli ha fatto finalmente prendere la decisione di chiudere tutto. Un'esperienza abbastanza comune a chiunque frequenti i social, dove anche frati e suore, preti e vescovi, finiscono nel calderone del botta e risposta e perdono il loro aplomb spirituale.Poi c'è anche il capitolo gaffe, a cui nessuno sfugge sulla Rete. Ne sa qualcosa il cardinale di Newark, sempre Usa, e sempre Tobin, ma questa volta Joe e non Thomas. Nel febbraio scorso sul suo account comparve per un certo tempo un tweet galante: «Tra 10 minuti sarò in volo. Dolce notte, baby. Ti amo». Neanche in una collana popolare di libri rosa si poteva fare tanto bene, poi il cardinale cancellò il tweet facendo intervenire il suo portavoce per dire che era stato male interpretato, perché «il cardinale Tobin ha otto sorelle più giovani e “sono tutte le sue sorelline"».Lasciamo allora il cardinale Tobin in pace con le sue sorelline, anche perché non ha molto a che fare con la nuova evangelizzazione sul Web, né entra nel campo nobile della cyberteologia, nuova branca di cui è massimo esperto padre Antonio Spadaro sj, direttore della influentissima rivista La Civiltà cattolica che esce con il placet vaticano. Il cyberteologo per eccellenza opera scientificamente con i social, e alcuni suoi interventi sono particolarmente iconici, l'ultimo in ordine di tempo è comparso su Facebook dove ha postato la foto di Daisy Osakue con l'occhio colpito da uova sinistre e ha commentato: ecco «Il #crocifisso da esporre in tutti i luoghi pubblici», dando così seguito a un altro suo tweet recente sulla questione della proposta della Lega per l'obbligo del crocifisso nei luoghi pubblici. In maniera sobria Spadaro aveva, infatti, twittato l'ira del cyberteologo contro i leghisti: «Usare il #crocifisso come un #BigJim qualunque è blasfemo». E in un altro, ancora più contemplativo e pacificatore, aveva messo a fianco una croce bruciante del Ku Klux Klan con una piccola croce tenuta in mano da un sant'uomo come il cardinale vietnamita Van Thuan, chiedendo esplicitamente ai follower vicini e lontani di «esplicitare la differenza assoluta tra le due croci». Sarà forse questa la cyberteologia? E se arrivasse una direttiva stile Tawadros II anche per la Chiesa cattolica? Come farebbero gli influencer cattoconsacrati della blogosfera?La Chiesa copta ortodossa è preoccupata dalla circolazione di «idee confuse» e discussioni da bar in campo teologico e politico che troppo spesso vengono veicolate sui social, una preoccupazione non del tutto fuori luogo anche in casa cattolica. Soprattutto quando provengono da consacrati che sembrano passare più tempo o line che in chiesa, una forma di mondanità che colpisce indistintamente preti e religiosi, progressisti e tradizionalisti. Padre Pio, a cui sono state risparmiate le recenti diavolerie tecnologiche, già sulla televisione aveva le idee chiare: «È arrivato il diavolo in casa!». Anche don Divo Barsotti, mistico e padre di una famiglia di monaci, lasciò detto tra i suoi ultimi messaggi alla comunità di non far mai entrare la televisione in monastero. Perché ci sono ancora preti, religiosi, monaci e monache che sanno fare a meno di un account e di un blog; comunque informati, provano a stare connessi direttamente con il Padreterno.«Coloro che amano Dio», ha scritto Thomas Merton, «devono cercare di preservare o di creare l'atmosfera in cui potranno trovarlo». In fondo, occorre discrezione, che «è il complemento intellettuale di una intenzione pura nel custodire la segretezza di tutte le buone cose». È quella sobrietà che è necessaria alla vita spirituale, come lo stesso papa Francesco ha indicato alle monache di clausura in una recente istruzione. I mezzi di comunicazione, ha scritto il Papa, «devono essere usati con sobrietà e discrezione, non solo riguardo ai contenuti, ma anche alla quantità delle informazioni e al tipo di comunicazione».
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco
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