Fucili a chiunque nella Kiev assediata. E si può essere uccisi per uno sguardo

- Nella capitale pattugliata dalle milizie, pure una domanda di troppo scatena il sospetto. Le armi sono date liberamente, anche ai balordi. I volontari diretti al fronte dicono: «I russi sono pecore, noi odiamo il pastore».
- «Per noi hacker il pc è un proiettile». Un cyber attivista racconta: «Abbiamo ordinato alle agenzie di pompe funebri di Mosca 5.000 bare. Una beffa per far conoscere anche lì la verità su Putin».
Lo speciale comprende due articoli e gallery fotografiche.
Dalla finestra del ventitreesimo piano del grattacielo dove ci troviamo nel quartiere Podolski di Kiev, si vede la torre della televisione, accanto alla torre ancora una volta ben visibile un missile ha mancato l’obiettivo e così il razzo finisce, come è già accaduto, sui palazzi intorno.
Le finestre continuano a vibrare anche se i botti dell’artiglieria sembrano un lontano temporale. Arriva la notizia di un elicottero abbattuto nell’area di Bucha, giusto fuori dalla città, a circa 20-30 km dal centro.
I russi hanno distrutto la stazione di quel paesino da dove molti stanno fuggendo verso Ovest. È proprio in quel punto che si stanno intensificando i combattimenti e a complicare le cose, dalle 16 di ieri sera, ha ricominciato a nevicare, seppur lievemente.
Qualche ora dopo sono arrivate notizie inquietanti da Mauripol, nel Sud-Est. In un’intervista di ieri sera il sindaco Sergeyevich Boychenko ha dichiarato che la tregua, contrariamente a quanto sostenuto da alcune fonti, non c’è mai stata e che i russi hanno tagliato, acqua, elettricità, gas e hanno bombardato circa la metà di 50 autobus che erano pronti in un piazzale per evacuare la popolazione. Le sue accuse, rilanciate da uno dei giornalisti ucraini più famosi, Dimitri Gardon, non sono finite: sostiene ci siano migliaia di feriti e dice di non volere parlare del numero dei morti, «troppo grave e doloroso».
Così dal fronte. Ma torniamo a Kiev.
La tensione ai posti di blocco è palpabile. In città sono schierati principalmente volontari locali che vengono messi a fianco di combattenti esperti come quelli del Donbass. Anche solo una domanda di troppo e, peggio ancora, una fotografia può scatenare il sospetto dei militari. Le milizie cittadine inoltre sono fatte di locali che conoscono la zona, ma le armi sono distribuite liberamente e c’è il rischio che il balordo di turno si faccia prendere la mano e per un sospetto spari solo perché magari hai la faccia che non gli piace. È successo anche questo, come racconta un cittadino che dalla finestra del quartiere dove ci troviamo ha visto una guardia civile sparare a sangue freddo ad un uomo disarmato.
Seppur lontana dalla prima linea, alla stazione di Leopoli, città all’estremo Ovest del Paese, abbiamo trovato lo stesso clima di tensione.
La polizia, nelle scorse ore ha arrestato una spia russa con passaporto spagnolo e tessera di giornalista. Così per salire sul treno ci hanno controllato il cellulare, messaggi, foto ultime chiamate, il portafogli, le borse.
Qui, sul binario di chi non è defluito verso il sottopassaggio per dirigersi in città, abbiamo incontrato un po’ di quei volontari pronti ad andare in battaglia, con le sacche gonfie e gli occhi allerta su ogni persona intorno.
Sashka, ha la barba curata, le unghie pulite così come i vestiti e uno sguardo intenso.
È nato a Kharkiv nel 1991, gli ultimi 8 li ha vissuti a Kiev dopo aver studiato cinematografia ed essere diventato regista.
Mentre parliamo mi dice: «Non mi sento un eroe, sono qui solo per dare una mano, la mia famiglia è a Kharkiv, non si sono voluti mettere in salvo. Noi siamo contro i russi da sempre, non scappiamo neanche se ci distruggono la città come hanno appena fatto. Ho portato la mia fidanzata e le attrezzature della mia agenzia di produzione a Leopoli, poi lei che è bielorussa ed era scappata dal suo Paese pochi mesi fa è riuscita ad attraversare la frontiera a ritroso. Io ho fatto lo zaino e mi sono messo in viaggio». Sashka sta tornando a Kiev, dai suoi amici: «Non potevo stare a guardare. Non so se prenderò le armi, questa per me è l’ultima opzione, ma aiuterò i miei concittadini a fare barricate, a costruire molotov».
Sua madre è chiusa in un bunker nella sua città natale che ormai è semi distrutta e suo zio invece sta a casa: «Odia i russi più di me e dice che li vuole guardare dalla finestra. Lui era un ingegnere di satelliti, ma poi l’ex presidente Viktor Janukovic ha chiuso l’istituto di ricerca dove lavorava e lui è diventato strano. Spero solo che non faccia stupidaggini perché i russi lo ucciderebbero subito. Anche io odio i russi o meglio la Russia, e “l’apparato di Stato” che ha provato a influenzare il mio Paese da sempre, conosco bene la storia del mio Paese e so che quella politica è una politica fatta di repressione e di propaganda. I russi sono pecore, ma io non ce l’ho con loro, ce l’ho con il loro pastore».
Nello scomparto fumatori incontriamo Makar che vive in Italia vicino a Chioggia, a Sottomarina, e fa il pescatore di vongole, e tra una sigaretta e l’altra, con un italiano quasi incomprensibile ci spiega che appena ha avuto l’occasione di tornare ha preso il treno per Kiev e tornerà in Italia solo a guerra finita.
Con lui ci sono due amici, le facce scavate i vestiti ridotti male, nella carrozza ci sono circa 30 uomini di ogni estrazione sociale e loro sono sicuramente quelli più disagiati.
Non vogliono parlare, sì intravedono dei tatuaggi sulle braccia che coprono appena li guardiamo. Sono del Donbass e hanno già combattuto. Sì chiudono nel loro scompartimento e non rivolgono la parola neanche agli altri concittadini della carrozza.
Sul treno per Kiev, quando è calato il buio, abbiamo dovuto abbassare le tende e le luci dì computer e cellulari, e metterci stesi sotto il livello del finestrino. Lungo il tragitto non ci sono combattimenti, ma c’è paura degli aerei.
Peter è nato a Chernobyl nel 1963 e via via che racconta la sua storia sembra di entrare nella trama di un film.
Era un ingegnere a Chernobyl, negli uffici della centrale nucleare fino al giorno in cui è esplosa, emigrato a Kiev si è riciclato come ingegnere per l’industria dell’acciaio e viveva una vita regolare, casa, ufficio, cinema e palestra.
Fino a quando è scoppiata la guerra in Donbass, nel 2014, e si è arruolato nell’esercito, nel primo battaglione con il grado di soldato scelto nella fanteria.
Ha combattuto per 5 lunghi anni e a giudicare dalle foto e i video che mostra sul cellulare si capisce perché dal suo sguardo non traspaia nessuna paura, nessuna emozione.
Dà consigli a Max, il ragazzo più giovane del gruppo, come un padre ad un figlio. Racconta di quando esplose una bomba giusto accanto a lui e quella fu la fine della sua guerra, in un letto di ospedale per mesi e poi costretto a prendere delle pillole tutti i giorni.
Il suo bagaglio è piccolo: uno zaino e un materassino, in una grossa parte dello zaino le medicine, nell’altra probabilmente solo un cambio di vestiti.
È cattolico ed è nato nazionalista, cosi come dice che morirà nazionalista, del presidente Zelensky pensa che sia l’unico che ha votato con piacere. «Domani vengono a prendermi in stazione i miei compagni del primo battaglione, mi danno la mia attrezzatura e andiamo direttamente al nord di Kiev. Non vedo l’ora di arrivare» ci dice sorridendo, squadrandoci dalle lenti sporche degli occhiali.
Ma non ha paura? «E di cosa? Morirò se Dio lo vorrà, l’unica cosa che non voglio è essere ucciso facilmente. Sono pronto e preparato: i russi dovranno essere tanti per ammazzarmi».
Mentre parla della morte mangia un omogenizzato di frutta per bambini.
«Per noi hacker il pc è un proiettile»
A Kiev il fumo si leva dietro i palazzi in lontananza. La città, ormai spettrale, sta vivendo nel sottosuolo: nei rifugi antiaereo, nelle stazioni della metropolitana, negli ospedali-bunker dove donne e bambini cercano rifugio. È l’undicesima giornata di guerra in Ucraina e con i nostri occhi vediamo la capitale sotto bombardamento. Più complicato è vedere, invece, lo scontro cibernetico senza precedenti che insieme a terra, mare, aria e spazio si colloca nella dottrina militare della battaglia a cinque dimensioni. La cyber war consiste nell’intercettazione, nell’alterazione e nella distruzione dei sistemi di comunicazione nemici ma anche nella divulgazione di contenuti atti a dominare l’informazione.
Ci troviamo al ventunesimo piano di un palazzo vicino a piazza Santa Sofia, proprio davanti alla torre della televisione di Kiev, colpita negli scorsi giorni dai raid aerei russi. Siamo con Michael, alto, robusto, con la barba e una felpa a fiori. Sta davanti a un pc, è un creativo che insieme con altri, 26.000 giovani, dice lui, fa parte di un gruppo di esperti della comunicazione - registi, grafici, giornalisti - che hanno deciso di mettere le proprie competenze comunicative a servizio della resistenza. Non solo, fa parte anche di un altro gruppo, questa volta di 67.000 persone, che conoscono il sistema, il secondo giorno hanno sferrato un Dos attack e così continuano a fare sistematicamente. I loro appartamenti e le loro connessioni internet conducono una guerra fatta di disinformazione sui media e sui social network russi. Nella divulgazione di contenuti hanno deciso di utilizzare i propri profili social, questo li rende più vulnerabili perché possono essere intercettati in qualsiasi momento, ma al contempo gli permette di raggiungere un pubblico più esteso. Ci racconta che hanno persino telefonato a diverse agenzie funebri a Mosca per ordinare 5.000 bare da inviare in Ucraina: «Questo è il genere di azioni che fanno capire alla popolazione russa che non ci sono soltanto le informazioni del governo di Vladmir Putin, divulgate per abbattere il morale delle truppe e della popolazione ucraina. In fondo noi stiamo facendo vedere ai russi la verità, anche se in maniera cruenta o ironica. È un’operazione su larga scala di cui il nostro governo è al corrente, anche se siamo indipendenti. Rompendo il filtro di informazione russo, i cittadini andranno a cercare le nostre notizie da soli».
Dimitri è un altro di questi smanettoni. È un uomo silenzioso con la paura impressa negli occhi. Fino a una settimana fa lavorava per una società di consulenza finanziaria nel settore IT, ha le caratteristiche tipiche di un nerd della tecnologia. Oggi è nella capitale per lavorare con l’esercito nella cyber security: «Davanti ad un computer farò meglio che con un fucile in mano» ci dice. Per comprendere l’importanza di questi attacchi informatici è necessario avere chiaro un concetto: proteggere i dati significa garantire la sicurezza dei cittadini, delle infrastrutture e delle istituzioni, per questo motivo lo scontro cibernetico su larga scala può essere distruttivo come una mitragliatrice. Nella serata di mercoledì 4 marzo, alle 21:10, il servizio Border Gateway Protocol (Bgp) – un protocollo di rete che permette a più dispositivi di scambiarsi informazioni - della società di software statunitense Cisco, ha segnalato che è avvenuto un attacco di tipo Bgp ai danni dell’Ucraina. Un evento di questo tipo implica che zone di rete monitorate dall’Ucraina possono essere controllate dalla Russia. Le finalità di un attacco simile sono molteplici: per esempio l’intercettazione del traffico di rete e quindi di informazioni ucraine da parte dei russi, in modo da implementare operazioni di spionaggio e causare disservizi. Sempre nel corso della stessa sera, un altro attacco cibernetico ha scosso la rete, questa volta quella russa. L’obiettivo è stato il sito di Gazprom, a cui sono stati sottratti dati da parte del gruppo hacker Against The West (Atw). Attualmente non sembrerebbe che le informazioni rubate possano compromettere i sistemi della società, tuttavia il sito Web dell’azienda risulta irraggiungibile in varie zone del mondo.
Quasi contemporaneamente, Anonymous ha annunciato di aver pubblicato un ulteriore data leak relativamente al sito del governo russo.
ha collaborato Francesca Canto





