
La regione è punto d'incontro e di scambio tra culture diverse che, proprio nel cibo, permettono di scoprire storie e tradizioni sopravvissute all'omologazione dei tempi moderni. Dai salumi al radicchio rosa di Gorizia, dalle chicche casearie alle verze.È una delle regioni più piccole d'Italia, eppure è una antologia di storie, che vanno dal mare alla montagna in poco tempo. Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia, descrive il Friuli «un universo nella sua varietà». Gli fa eco Maurizio Bertera: «È Mitteleuropa ancor più dell'Alto Adige per le influenze slovene, ungheresi, boeme, ebraiche». Un melting pot culinario liquidato dal quel romagnolo di Pellegrino Artusi come «piatti di tedescheria», ma erano altri tempi. C'era da riunire un'Italia da secoli divisa sotto diverse bandiere. Un esempio il Friuli Venezia Giulia, crocevia di popoli, punto d'incontro e di scambio tra culture diverse che, proprio a tavola, permettono di scoprire storie e tradizioni sopravvissute all'omologazione dei tempi moderni. Una regione in cui le differenze ambientali sono a tal punto rimarcate da costituire zone enogastronomiche a sé stanti. Valli e popolazioni abituate a una vita di resistenza in cui la prima legge era quella di non buttar via niente, di far tesoro di tutto quanto la natura e la lavorazione dell'uomo permettevano di conservare nella dispensa e mettere poi in tavola. Un esempio la pitina, piccola chicca di alcune valli pordenonesi. Un curioso incrocio tra un salume e una polpetta dove il sale era troppo prezioso per la conservazione delle carni (di domestiche pecore e capre, come di selvatici cervi e caprioli) che non venivano insaccate nel budello del maiale, il cui allevamento era lusso di pochi, ma ripassate in una farina di mais e poste ad affumicare lentamente sul fogher domestico. Sacrificate poi con debita polenta fumante. Dalle pastorali valli pordenonesi alla nobile e asburgica Gorizia, definita dal barone Carl von Czoernich «la Nizza dell'Impero», per il suo clima mite con vista alpina. Sua la prima descrizione, nel 1873, come ricorda Roberto Zottar, storico e accademico della cucina, di una locale «cicoria rossa e dolce». Quello che adesso è il prezioso e ricercato radicchio rosa di Gorizia, leggenda racconta sia giunto ai piedi del Collio grazie ad un certo signor Vida che, reduce dal Veneto infestato dalla peste, aveva fatto scorta dei semi della cicoria veneta, ora conosciuta come radicchio rosso (di Chioggia o di Treviso). La sua coltivazione integrava il reddito invernale dei campi. Il nome attuale lo si deve ad uno storico coltivatore, Carlo Brumat, nel 2000. Oramai la produzione vede coinvolti una decina di resistenti su pochi ettari. Una lavorazione impegnativa, che può durare anche otto mesi dalla semina alla raccolta, con una resa finale di circa il 30 per cento, dando un prodotto straordinario, apprezzato per la sua croccantezza e una lieve sfumatura dolce che lo differenzia dai più conosciuti radicchi veneti. Molto eclettico in cucina, tanto che su di lui si sono accesi i riflettori della creatività di svariati mestoli stellati. Se tradizione, oltre che in insalata, lo vede incrociare le sue cotture con l'orzotto, l'udinese Emanuele Scarello lo propone con il pesce, il padovano Massimiliano Alajmo lo rilegge con bottarga di muggine, crema gelata al cren e parmigiano. Rosa di Gorizia valorizzata al palato pure in pasticceria, come insegna il goriziano Federico De Luca. Si torna ruspanti con la sasaka, antico spuntino del boscaiolo, tradizione dell'alta Carnia. Era un modo per conservare il lardo avanzato dalla preparazione dei salumi. Lavorato con sale e pepe, conciato con vino e aglio macerato. Affumicato e poi macinato con cipolla cruda. Una mitteleruropa suina a mille, messa poi a riposare dentro un vasetto in dispensa per venire consumata alla prima occasione utile. Spalmata su pane di segale con ricotta acida o a mantecare un goloso risotto. Gli fa eco il cugino pestat di Fagagna, un lardo macinato e mescolato con ortaggi che sta diventando il testimonial di una razza autoctona ritrovata, il maiale nero di Fagagna, che vede regista della sua rinascita lo storico sindaco, nonché illuminato agronomo Gianluigi D'Orlandi. In una regione in cui oramai, sul pianeta caseario, il montasio la fa da padrone, ci sono altre piccole chicche da scoprire come, ad esempio, il formadi frant, il formaggio frantumato. Storie di valli e di montagne, una delle espressioni più vere dell'arte contadina del recupero. Una specie di formaggio anomalo che non nasce dalla caseificazione diretta del latte, ma dalla frantumazione di altri formaggi. Una storia di cui non vi sono memorie scritte, giunta a noi per il passaparola familiare. In sostanza si recuperavano prodotti non riusciti o non adatti alla stagionatura. Formaggi d'alpeggio a diverso grado di maturazione. Un profumo intenso dovuto alla ricchezza delle essenze presenti sui pascoli friulani. Un gusto piccante dovuto alla lavorazione con il pepe aggiunto assieme alla panna per la relativa mantecatura per una stagionatura in cantina di circa 40 giorni. Pepe «preventivo», utile nella tradizione rupestre per tenere lontani gli attacchi famelici dei roditori, scudo naturale alle nocive fermentazioni batteriche. Più viene prolungato il tempo di stagionatura, maggiore è l'armonia organolettica che si ottiene da questa jam session casearia. Tre gli artigiani che, sotto la bandiera della chiocciola Slow ood, si sono dedicati alla tutela di questo prodotto. Tra loro il mago del frant, Beppe Rugo, con le sue piccole forme impreziosite da aromatizzazioni diverse, dal peperoncino al finocchietto, passando per semi di papavero come uvetta. Tolto dai suoi vasetti, dove può essere conservato a lungo, il formadi frant, dalla pasta compatta, ma friabile. si può abbinare a risotti, patate lesse, l'immancabile polenta. Altra chicca casearia frutto di ingegno e passione è quella dello jamar, figlio delle grotte carsiche, intrigante creatura voluta da Dario Zidaric. Facendo tesoro di quanto sostenuto dall'agronomo Livio Poldini, ovvero che nei pascoli carsici «ci sono più varietà botaniche che in tutta la Germania», e quindi con il latte ricco di profumi che si può ottenere, Zidaric ha trasformato la grotta (jama nello slang locale) posta davanti alla sua fattoria in una raffinata stazione di affinamento. Dopo una stagionatura di tre mesi in cantina porta le varie forme in una grotta profonda 70 metri. Umidità al 90% e temperatura costante a 12 gradi. Quattro mesi al buio, le forme avvolte in una rete a maglie larghe e appese a pali di legno. Ne esce un prodotto dal fascino molto particolare che la storica famiglia Devetak, nella vicina san Michele al Carso, ha promosso a piatto del buon ricordo, con i fusi, salsiccia e jamar. Altra storia, altre tradizioni le verze, definite da Nelso Tracanelli «essere spesso l'unico ospite invernale dell'orto». Capitale morale di questo piccolo universo a parte Feletto, una frazione di Tavagnacco. I suoi stessi abitanti definiti «verzars», vuoi per le loro preferenze culinarie, o perché residenti in un luogo dove le caratteristiche pedoclimatiche ne esaltavano la coltura. Dal 2001 qui si svolge la festa della verza, nel giorno di sant'Antonio abate, il 17 gennaio, forse non a caso ritratto con un maialino ai suoi piedi, a suggerire l'abbinamento perfetto. Cultura e gastronomia vanno a braccetto tanto che, nel corso delle varie edizioni, vengono pubblicati i quaderni della verza, piccoli opuscoli divenuti pepita ricercata dai bibliofili culinari. Da provare i rambasicci, involtini di verza con carne di maiale e manzo. In quest'area i furti di verze, nei campi raggelati delle notti invernali, erano una piaga costante, come è vero che la verza era protagonista di numerosi lazzi goliardici di incerta virtù, con riferimenti dichiaratamente allusivi alle bellezze muliebri, opera del poeta rurale Ermes di Colloredo. Il percorso continua, ma stavolta comodamente seduti a tavola, con altre scoperte (e sorprese).
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