2022-03-20
Frida Kahlo negli scatti di Nickolas Muray. Amore e arte in mostra a Stupinigi
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È la residenza sabauda di Stupinigi a ospitare - sino al prossimo 5 giugno - la mostra dedicata alla celebre artista messicana Frida Kahlo vista attraverso gli scatti del fotografo Nickolas Muray, suo amante e amico di lunga data. Sessanta le immagini esposte, per un suggestivo viaggio emozionale nella vita di una delle figure più iconiche e pop del XX secolo.Geniale, intelligente, irriverente, pasionaria, trasgressiva, anticonformista, magnetica. Frida Kahlo, nata Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (1907-1954), è tutti questi aggettivi. E infiniti altri. E’ la sofferenza che si sublima nell’arte e che nell’arte trova l’ancora di salvezza alla sua vita travagliata. E’ la donna dai mille amanti, ma che in realtà amò sempre un unico uomo, il pittore Diego Rivera, suo mentore e per ben due volte marito. E’ il Messico, con i sui colori, i suoi profumi, le sue tradizioni ancestrali. E’ la rivoluzione e la politica. Ma Frida Kahlo è soprattutto una donna, forza pura a coprire la fragilità di un corpo martoriato dalla poliomelite e da un terribile incidente, che le frantumò tutte le ossa e le spezzò la spina dorsale, ma non le tolse la vita e nemmeno l’amore per la vita. Anzi. Dal dolore nacque la sua arte. E dalla sua atroce sofferenza fisica quel suo gusto di prendere la vita a morsi, di goderne ogni attimo fino in fondo, fino all’estremo. Frida Kahlo è arte e passione. Forse l’artista che più di ogni altra si è rappresentata nelle sue tele e che più di ogni altra è stata rappresentata. Ecco. La mostra di Stupinigi è esattamente questo: Frida Kahlo « rappresentata », ossia colta nella sua essenza e nella sua dimensione più intima dall’obiettivo del fotografo americano Nickolas Muray, suo amico, amante e confidente, colui che più di ogni altro seppe guardarla dentro e scandagliare i suoi segreti. Legato alla Kahlo da un amore travagliato durato quasi dieci anni (dal 1936 al 1947), soggiogato e stregato dalla prorompente sensualità e personalità dell’artista messicana, di lei ci ha lasciato ritratti memorabili, entrati di diritto nell’immaginario collettivo universale: Frida Kahlo sulla panchina bianca per esempio, oppure Frida Kahlo con la sua aquila da compagnia, o, ancora Frida Kahlo in terazza. Ritratti di un’energia straordinaria, che arrivano agli occhi (e al cuore) dell’osservatore come un fascio di luce brillante e colorata. In queste immagini c’è davvero tutta Frida: la sua fierezza, la sua messicanità, le sue sopracciglia, la peluria sulle labbra - non celata ma ostentata con orgoglio – la sua sfrontatezza, a tratti anche la sua dolcezza. A fare da corollario a questo straordinario corpus fotografico, le ricostruzioni degli ambienti di casa Azul (la dimora di Coyoacán in cui Frida nacque e visse), le riproduzioni dei suoi famosi abiti etnici e dei monili tribali, contenuti multimediali di grande interesse e il documentario Artists in Love (in collaborazione con SKY Arte) sulla relazione tormentata con Diego Rivera.Al termine del percorso espositivo, come una sorta di «mostra nella mostra », a rendere omaggio a Frida Kahlo anche le opere di Karla De Lara, artista messicana contemporanea e figura di spicco dell’iperrealismo della pop art: in un tripudio di colori dalla straordinaria vivacità e policromia, la De Lara ha saputo cogliere il dolore di Frida e trasformarlo in gioia, per la vita e per la sua terra.Come ha dichiarato Carlos Garcia de Alba, Ambasciatore del Messico in Italia «La mostra Through the Lens of Nickolas Muray è un omaggio fotografico alla vita e all'opera dell'artista messicana Frida Kahlo, diventata un'icona mondiale, non solo nel campo delle arti, ma anche nella promozione dell'identità femminile e dell’equità di genere».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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