2025-02-01
Cenci, frappe, bugie, lattughe e cioffi. A Carnevale ogni... chiacchiera vale
Lo stesso dolce viene chiamato in maniera diversa nelle varie Regioni d’Italia. Per Iginio Massari sono «il simbolo» del periodo pre pasquale. Derivano dalla frictilia, la frittella preparata dalle matrone romane per i Saturnali.I linguisti la chiamano geosinonimia. Non è una parolaccia, né un peccato grave (quello è la simonia) e nemmeno una malattia misteriosa. È, al contrario, una delle tante voci preziose, ma poco conosciute, della nostra bella lingua italica aggredita e barbarizzata da molte, troppe, parole straniere. La geosinonimia aiuta gli italiani a capirsi tra di loro, sia che vivano in Valle d’Aosta, sia che abitino a Santa Maria di Leuca.Facciamo un esempio prendendo spunto dal Carnevale. La geosinonimia ci spiega perché i piemontesi e i liguri chiamino bugie le pasterelle di carnevale cosparse di zucchero che somigliano a lasagne con i bordi smerlati e preparate con uova, farina e un sorso di liquore. Gli stessi dolci i veneti li chiamano galani, i toscani cenci, i romani frappe, i campani e i siciliani chiacchiere. Ecco spiegata la funzione della geosinonimia: raccoglie quelle parole di uso regionale o locale o, addirittura, di un singolo campanile, che nei diversi luoghi della Penisola suonano in maniera diversa, ma significano la stessa cosa. Sono geosinonimi. La gastronomia è ricca di geosinonimi. Prendiamo il termine generico formaggio, così chiamato nell’Italia settentrionale. Nel Centro-Sud diventa cacio e toma nelle regioni confinanti con la Francia come il Piemonte e la Valle d’Aosta. Il cocomero toscano è chiamato anguria in Lombardia e Veneto, pateca in Liguria, melone d’acqua a Napoli. Alfredo Panzini, nel Dizionario moderno, spiega che in Calabria il cocomero è chiamato «zi parrucu» perché ricorda il volto rubicondo di un prete di campagna.Ma torniamo ai cenci, al dolce fritto più tipico del Carnevale e più diffuso in Italia in questo periodo, per raccontarne la storia, la geografia e la ricchissima geosinonimia. Fragrante e trionfante lo troviamo 2.000 e passa anni fa nell’antica Roma col nome di frictilia. Preparato dalle matrone e dalle casalinghe dell’Urbe, era il dolce tipico dei Saturnali, le feste in onore di Saturno, durante i quali la quotidianità veniva sovvertita e mascherata, tutto era permesso e anche lo schiavo poteva, in quella sorta di martedì grasso, essere eletto princeps tra i lazzi e gli scherni dei festanti. I Saturnali corrispondono, per stagione, mascherate e momentanei ribaltamenti del mondo reale, al nostro Carnevale.Da allora sono passate oltre due decine di secoli ma, bene o male, la storia della frictilia è arrivata via via sempre più croccante e zuccherata fino a noi, passando per le cucine rinascimentali del Panonto, un nome un programma, che ne La singolare dottrina (1560) parla di frappe e strufoli, antenati di cenci e chiacchiere, e di Bartolomeo Scappi, cuoco di Papi, che nel 1570 riprende e perfeziona la ricetta del Panonto nella sua Opera di Bartolomeo Scappi, precisando metodi di frittura e forme.Abbiamo iniziato con i cenci perché, quando si ragiona di lingua italiana, è obbligatorio partire dalla Toscana, madre dei padri del nostro idioma. A Firenze e terre collegate i dolci impasti di farina, uova, zucchero, tirati a sfoglia sottile e smerlettati con la rotella tagliapasta, si chiamano cenci, stracci. Oltre ai cenci in Toscana ci sono gli strufoli in Maremma e i crogetti in Valdichiana. Ma sono i cenci a dominare i Carnevali di Viareggio e di quasi tutta la Toscana, magari fatti con la farina di neccio (di castagne) o col Vin Santo. Lo Zingarelli spiega, caldeggiando l’uso plurale: «Il cencio è un dolce di pasta all’uovo, tagliato a cerchi, rettangoli o strisce e fritto o cotto al forno, tipico del Carnevale». Pellegrino Artusi, romagnolo di Forlimpopoli ma fiorentino d’adozione, ne detta la ricetta (è la 595) ne La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891). Il profeta della cucina italiana risorgimentale li chiama cenci e basta, non usa altri sinonimi per il dolce come fanno altri scrittori gastronomi. Nella ricetta suggerisce di aggiungere all’impasto un cucchiaio di acquavite e raccomanda di praticare con la rotellina a smerli «qualche incisione in codeste strisce per ripiegarle o intrecciarle o accartocciarle onde vadano in padella con forme bizzarre».Quattro decenni dopo lo scrittore Paolo Monelli, nel suo viaggio gastronomico attraverso l’Italia Il ghiottone errante, 1935, racconta di aver bevuto a Valdigne, in Valle d’Aosta, «un vino fatto con l’uva dei mille metri accompagnato da frappe dolci, proprio uguali alle sfrappole emiliane, di cui non vi posso dire il nome nell’idioma locale perché non l’ho scritto subito e la memoria mi ha tradito». Grazie al modenese Monelli apprendiamo che sfrappole è usato a Bologna e in quasi tutta l’Emilia mentre il più orecchiabile e amabile frappe è usato in altre zone dell’Emilia, nelle Marche, in Umbria, a Roma, nel Lazio, nell’Aquilano. Siamo in grado di rimediare alla memoria traditrice del ghiottone errante dando un nome, anzi due, ai dolci da lui apprezzati nella bilingue Val d’Aosta: in questa Regione a Carnevale chi parla italiano mangia le bugie, chi ha lingua e palato francesi mangia gli stessi dolci ma li chiama merveilles (meraviglie).Troviamo le bugie anche in Piemonte (oltre a gasse, risòle e gale), in Liguria e in Sardegna, Regioni unite per tanti anni al regno sabaudo. Nel Logudoro e nel Campidanese le bugie diventano is meraviglias fatte con farina di grano duro alla quale per stemperare la rusticità si aggiungono uova, acquavite, scorza di arancia e limone. In Lombardia non c’è Carnevale senza le chiacchiere. Sull’origine del nome ci sono due versioni: la prima teorizza che sia dovuto al cicaleccio delle suore che preparavano tali dolci in convento. Nella seconda versione, molto amata a Napoli, riecco Margherita di Savoia, la regina «golosa» che diede il nome alla pizza tricolore. Secondo l’aneddoto, la sovrana, alla quale non dispiacevano le chiacchiere con gli ospiti a corte, chiese un dolce al cuoco di corte napoletano Raffaele Esposito che accompagnasse la delizia del conversare. Esposito preparò i cenci con una ricetta tutta sua, battezzandoli chiacchiere.Ma la Lombardia non è tutta chiacchiere: nelle Province confinanti col Veneto, Brescia e Mantova, le chiacchiere diventano lattughe per la forma a foglia larga. Nel Triveneto troviamo i crostoli con le varianti grostoli o grostoi. In Veneto, particolarmente ricco di geosinonimi, a Padova e a Venezia i cenci si chiamano galani per la forma che ricorda le frange degli abiti di gala, della festa. Giorgio Rigobello, nel Lessico dei dialetti del veronese, precisa che in alcuni luoghi del territorio scaligero, a Villafranca, in Valpolicella e in Val d’Alpone, questi dolci di carnevale vengono chiamati sòssole, in quanto la forma ricorda i trucioli (sòsole), residui delle piallature. In Abruzzo, oltre alle frappe, ci sono i cioffi. In Molise i cunchielli. In Calabria le chiacchiere e, in certe zone, i guanti. In Sicilia i chiacchieri.Iginio Massari, il grande maestro pasticciere, sottolinea che con qualunque nome sia chiamato, chiacchiere, crostoli, bugie, lattughe, galani, questo dolce è il re del Carnevale. «Ha tanti nomi non solo in Italia, ma in tutta Europa. In Francia lo fanno i panettieri, in Italia tutte le pasticcerie. È il dolce che ricorda l’infanzia, le mamme, le nonne, la gioia del Carnevale. Qualsiasi nome gli date, questo dolce è il simbolo del Carnevale. Adesso c’è un nuovo modo di vivere. In casa non si prepara quasi più. Negli appartamenti l’odore del fritto è invadente, intacca i capelli. Ma il Carnevale vive di dolci fritti, rappresentano la gioia, l’abbondanza: le zeppole campane hanno invaso il mondo; le castagnole, frolla fritta inzuppata con l’Alchermes e cosparse di zucchero vaniglia o ripiene di varie confetture; le fritelle di riso o di mele; la crema cotta genovese. Quale liquore uso per fare le chiacchiere? Il Marsala».
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)