2022-03-18
Fragili e smidollati, hanno subappaltato la lotta alla paura
Manifestazione per la pace a Milano (Ansa)
I progressisti parteggiano per Kiev non per senso di giustizia, ma perché temono lo scontro fatale col «cattivo» del Cremlino.Quelli che si sentono sempre dalla parte giusta della Storia nelle ultime settimane hanno escogitato un modo molto carino per istruire noi poveri ignoranti. Considerandoci incapaci di ragionamenti complessi, ci trattano come bambini e provano a spiegarci la guerra in Ucraina come se fossimo all’asilo. Anzi, per la precisione al parco giochi. A cominciare è stato quel geniaccio di Stephen King, al solito mirabile nel partorire immagini efficaci. Il grande romanziere, giorni fa, ha illustrato su Twitter la sua strategia. Consiste sostanzialmente nel fare «quello che la maggior parte di noi ha imparato da bambini al parco giochi: non stai in disparte a guardare mentre un bambino grande picchia uno più piccolo. Potrai prendere un pugno o due mentre cerchi di fermare il bambino grande, ma è la cosa giusta da fare». La formuletta, semplice e ficcante, viene riciclata in continuazione dai nostri guerrafondai progressisti, Concita De Gregorio l’ha riproposta appena un paio di giorni fa su Repubblica, in televisione viene riutilizzata con allarmante frequenza. E allora proviamo per un momento a prenderla sul serio, questa storiella del bambino grande e del bambino piccolo, laddove ovviamente il piccolo sarebbe l’Ucraina e il bullo corpulento la Russia. Proviamo a immaginare che cosa accadrebbe nella nostra realtà quotidiana se si presentasse uno scontro infantile di tal fatta. Per prima cosa, viene da pensare che la gran parte dei presenti ignorerebbe la rissa, continuando per quieto vivere a farsi i fattacci propri. Oppure, semplicemente, non se ne accorgerebbe, mantenendo gli occhi incollati al cellulare. Ma cerchiamo di essere ottimisti e di accantonare questa triste eventualità. Fingiamo dunque di essere adulti che si imbattano nella lite fra un bambino grande e uno piccolo. Dalle nostre parti, se un bambino rispondesse a una minaccia con un pugno, o si difendesse alzando le mani, verrebbe molto probabilmente rimproverato. Se la baruffa avvenisse in una scuola, entrambi i fanciulli finirebbero ragionevolmente in punizione, a entrambi verrebbe spiegato che «non si picchiano gli altri bambini, ma si chiama la maestra». Verrebbero convocati i genitori, è possibile che il dirigente scolastico si sentirebbe in dovere di convocare uno psicologo, le mamme sulle chat passerebbero interminabili ore di sconcerto chiedendosi se non sia il caso di mandare i propri figli in un altro istituto. Di sicuro, a nessuno verrebbe in capo di aiutare il bambino più piccolo fornendogli un bastone o una pietra. L’intera società occidentale ha optato da tempo per la rimozione della violenza e dell’aggressività. Il contatto fisico, il pugno e lo schiaffo, suscitano terrore e indignazione soprattutto fra i progressisti più illuminati. Il Covid ci ha fatto dimenticare «il mondo di prima», ma forse conviene ricordarsi che proveniamo da anni di dibattiti estenuanti sulla «mascolinità tossica» e la «violenza maschile». La forza fisica, identificata con la virilità, è da tempo il nemico numero uno del ceto intellettuale, degli educatori e dei genitori-come-si-deve a ogni livello. E non è forse un caso che numerosi studiosi abbiano parlato di «generazione dei fiocchi di neve» a proposito dei bambini e degli adolescenti odierni, rintracciandone il tratto caratteristico nella fragilità. E non si tratta soltanto dei più giovani. L’emergenza Covid ci ha mostrato quanto l’Occidente, l’Europa e l’Italia in particolare siano terrorizzati dalla prospettiva del dolore fisico, quanto siano ossessionati dal «rischio zero», addirittura terrorizzati dal contatto pacifico, figuriamoci da quello violento. Siamo seri: in quanti sono stati realmente disposti a sacrificarsi per gli altri, in tempi di pandemia? E quanti hanno preferito discriminare, insultare ed emarginare le categorie ritenute «pericolose» per il benessere fisico?Quindi siamo onesti: la lite tra il bambino piccolo e quello grande sarebbe realmente risolta a pugni? Non scherziamo. Sarebbe già un grande risultato se i genitori evitassero di chiamare la polizia e di coinvolgere avvocati, pedagogisti e servizi sociali. A maggior ragione impressiona l’entusiasmo guerrafondaio esibito dai più nelle ultime ore. Ma, con tutta probabilità, stiamo semplicemente osservando l’altra faccia della medaglia. Il sostegno liberal-bombarolo agli ucraini non è motivato da effettiva ammirazione per chi ha il fegato di scontrarsi, bensì da altre e più inquietanti ragioni. Certo, da una parte influisce senz’altro la sovrapposizione di categorie artificiali alla realtà. I liberal di casa nostra hanno appiccicato alle forze di Kiev l’etichetta resistenziale, e identificato Putin come il nuovo «fascista» o «fasciocomunista». Tutto questo a prescindere dai fatti, e cioè dall’evidenza che vi siano forze identitarie da una parte e dall’altra della barricata, forze in lotta fra loro per motivi del tutto diversi da quelli che la massa immagina. Al solito, siamo dalle parti del «fascismo eterno» di Umberto Eco, una visione che sostituisce al fascismo storico e reale un fascismo immaginario identificato con la generica sopraffazione. Applicando il filtro deformante di Eco, può accadere persino che un gruppo dichiaratamente nazionalsocialista venga esaltato quale baluardo «antifascista» perché si oppone a Putin, il quale è «come Hitler» (così Antonio Scurati sulla Stampa).A ben vedere, siamo di fronte a una variazione sul tema del discorso precedente. Nella prospettiva di Eco, il fascismo è sostanzialmente il male assoluto e coincide appunto con la sopraffazione e la violenza. Ergo lo scontro fisico, la lotta, le arti marziali, persino l’educazione del corpo sono guardate con sospetto, son considerate «fascisterie». Paradossalmente, è proprio questo rifiuto del rischio e del dolore quasi patologico a motivare il feroce sostegno alla guerra che vediamo in queste ore. Poiché sono altri a combattere, non temiamo danni immediati. Però speriamo che il bambino piccolo (l’Ucraina) ci liberi del bullo (la Russia) che potrebbe costituire, in futuro, un rischio per noi. Siamo disposti a tollerare che gli ucraini si sacrifichino fino all’ultimo uomo perché desideriamo non la tregua, ma l’annientamento del babau di Mosca. Ecco qui: la paura del pugno e dello schiaffo favorisce l’uso delle armi. Il terrore della sofferenza che contagia impone la «disinfezione» attraverso operazioni militari «chirurgiche»: meglio fare piazza pulita oggi che stare in pensiero domani. Altro che prenderci un paio di pugni per difendere un piccino. La paura ci ha fatto immediatamente optare per l’approccio «zero Putin», proprio come l’ossessione per l’immunità ci ha spinto, nei fatti, a illuderci di poter vivere in un mondo «zero Covid». Sogniamo un paradiso in terra privo di rischio, luminoso e piacevole. Se appare un’ombra, preferiamo toglierla di mezzo. Invece, per quanto difficile e doloroso, l’ombra va affrontata, attraversata, costretta a scendere a patti. Solo così si diventa adulti. Altrimenti, si resta per sempre bambini. Peggio: bambini terrorizzati che, se al parco incontrano un bulletto, subito invocano la no fly zone.
Elly Schlein (Imagoeconomica)
Edoardo Raspelli (Getty Images)