2022-05-28
Formaggio di fossa, aristocrazia romagnola
Sogliano al Rubicone: il formaggio esce dalla fossa dopo la stagionatura (visitsoglianoalrubicone.it)
Piccolo gioiello di una tradizione secolare ben radicata, è divenuto «principe» grazie al suo gusto complesso e armonico: è elegante, dolce e piccante. Sta nel microclima delle celle termiche in collina fino al «riemergere dal purgatorio» il 24 novembre.Ci sono leggende che diventano realtà, memoria storica di un territorio, ad esempio la Romagna collinare, quella meno conosciuta che fa da sfondo alle spiagge a tintarella variabile del turismo vacanziero. Il formaggio di fossa era piccola ancella di una tradizione secolare ben radicata, divenuta principessa al gusto, e quindi salvata da una immeritata estinzione, solo negli ultimi decenni. Un palmares di testimoni al suo fianco che fa la differenza. Si potrebbe iniziare dai fratelli Chiaretti, casari di frontiera in quel di Mondaino. «Parafrasando la Divina Commedia di Dante Alighieri, si potrebbe dire che, nel caldo della fossa (sua incubatrice di originale affinamento, ndr) il formaggio trascorre un sonno purgatorio per liberarsi di acqua, sali, grassi e, infine, risorge a vita nuova per consentire al palato un paradiso di sapori e aromi». Inevitabile citare il cantore massimo della Romagna felix, Tonino Guerra, di cui abbiamo già raccontato le gesta nelle precedenti puntate. «L’odore del formaggio di fossa ti arriva addosso come una nuvola e lo raccogli con tutto il corpo. Ti fa ritrovare in bocca paesaggi perduti e giochi sgangherati dell’infanzia. Il formaggio di fossa ha una prepotenza senza cattiveria e tu l’ascolti con tenerezza». Poesia pura, che porta alla curiosità della traduzione al gusto. Non senza prima tralasciare l’impatto visivo, come racconta Piero Meldini «la prima cosa che mi colpì fu l’aspetto singolare delle forme, che sembravano essere state schiacciate sotto le ruote di un camioncino. Poi ne apprezzai il profumo, amarognolo e lievemente pungente, con suggestivi sentori autunnali. Al gusto un insieme complesso e armonico, dolce e piccante, elegante e di carattere. Inconfondibile». Il suo cantore Graziano Pozzetto, grazie al quale, con il libro dedicato (Panozzo Editore), abbiamo trovato le maggiori fonti documentali. «È il tesoro più aristocratico tra le ricchezze gastronomiche della Romagna». È ora di risalire alle radici, con l’introduzione di un altro grande interprete della cucina locale, il mitico Gian Franco Bolognesi, storico ristoratore de La Frasca, in quel di Castrocaro Terme, estimatore dell’arte nelle sue varie espressioni, tra i maggiori cultori del Tonino Guerra pittore, le sue sale una piccola galleria d’arte. «Se non ne conosci la storia perdi gran parte della sua bontà». Fu grazie a lui, in un goloso abbinamento con il savor (una confettura ottenuta dal mosto d’uva), che un altro romagnolo illustre, il gastronauta Davide Paolini, rimase intrigato in tempi non sospetti tanto da esserne uno dei primi divulgatori, assieme a Luigi Veronelli, che su Capital così lo descrisse «Sublime, di sapore delicato tendente al dolce appena appena interrotto dalla carezza amarognola». È ora di aprire gli archivi storici. Le fosse, nelle colline romagnole, erano una sorta di celle termiche per conservare i prodotti della mietitura, ma anche cassette di sicurezza per proteggere il raccolto dalle incursioni corsare nelle frequenti scaramucce belliche che, da sempre, hanno caratterizzato quelle terre. Sogliano al Rubicone sorta di capitale storica, con numerose delegazioni circostanti, da Talamello a Sant’Agata Feltria, sino a Mondaino. In un terreno di origine morenica le fosse erano una sorta di generosa eredità trasmessa da madre terra, bisognava saperla valorizzare. A forma di fiasco o tronco conica, tre metri di diametro con una profondità variabile dai tre ai sette metri. Il pozzetto esterno di circa un metro. Un microclima particolare, laddove la pietra porosa cedeva una umidità alla base della seconda fermentazione di formaggi che, sul finire della primavera, avevano già subito una prima maturazione, di circa due mesi. Un rito, quello dell’infossamento, con regole precise. Le forme, un tempo di latte vaccino, ora prevalentemente ovino, erano il frutto del miglior pascolo stagionale, ricco di umori e profumi. La bandiera a scacchi il 16 agosto, primo giorno dell’anno annonario. Formaggi stivati uno sull’altro con pazienza, ecco il perché, poi, della loro forma irregolare. «Un’arte in cui incastri e pressature sono funzionali a ridurre al minimo la presenza di aria». Una volta riempito il tutto, prontamente sigillato con assi di legno, malta e gesso a presa rapida e ricoperto poi con ciottoli di fiume, perfettamente mimetizzati nella vita quotidiana, posto che le fosse, per tradizione, erano poste entro la cinta urbana dei rispettivi borghi medioevali. Tre mesi di affinatura, con un metabolismo in chiave di fossa in cui vi è un mutuo scambio di odori e sapori tra le pareti rocciose e le forme in gestazione paziente. Questa sorta di placenta casearia con caratteristiche ben precise. Le pareti rivestite di canne di bambù agganciate a chiodi fissati sulla roccia. Sul fondo un pozzetto, protetto da assi di legno, attraverso cui si scarica lo scolo della maturazione relativa. Le forme, infatti, hanno una perdita di peso che va dal 10 al 20%. Vi è una trasformazione della componente lipidica per cui il formaggio di fossa, curiosamente, ha meno grassi della dietetica mozzarella. La sfossatura, cioè «il riemergere dal purgatorio» avviene il 24 novembre, vigilia della Festa di Santa Caterina, la protettrice dei casari, una martire del IV secolo in quel di Alessandria d’Egitto, condannata a morte e decapitata tanto che, dalla ferita, non sgorgò sangue, ma latte purissimo. La produzione del formaggio di fossa era molto radicata e identitaria, ma limitatamente alla sua enclave romagnola. Il cambio di passo tra gli anni Settanta e Ottanta, grazie ad amministratori e produttori illuminati. A Sogliano le famiglie Mengozzi e Pellegrini. I primi, ora per trasmissione ereditaria Ricci-Rossini, non hanno mai cessato l’attività, nel corso del tempo. I secondi autentici testimonial, con un piccolo Museo dedicato nonché un creativo ricettario che valorizza la creatura con diverse chiavi di lettura, non ultimi i cioccolatini al formaggio di fossa e albana passita. A Talamello regista del recupero il farmacista e sindaco Tonino Monti, tanto che ora, ogni anno, si festeggia con gemellaggi assieme ad altre chicche nazionali. A Mondaino un’alleanza montanara, con la trentina Cavalese, tanto che il latte di capra vola qui per immergersi tra le fosse. In cucina c’è solo l’imbarazzo della scelta. Un tempo il fossa era ruspante merenda contadina, con pane casereccio e vino rosso. Ora si viaggia senza barriere, dalla pasta, al pesce, marmellate, dolci e affini. Ne dà una singolare chiave di lettura Bruno Morara, sommelier caseario. «Il fossa è un formaggio da meditazione, che va assaggiato poco per volta, lasciando che la saliva svolga il suo compito, masticandolo lentamente. Solamente in questo modo il formaggio sarà in grado di liberare la sua enorme base aromatica». Il colpo d’ala da parte del vulcanico chef stellare Gian Franco Vissani «Il fossa è come lo Chateau d’Yquem, come lui può essere goduto in grande solitudine. Occorre spenderlo in equilibrio, mai in eccesso», tanto da tradurlo poi, al piatto, con baccalà e rabarbaro, salsa di ceci e fossa.Curiosità finale a testimoniarne l’unicità. Anni fa un medico omeopata scoprì che il fossa era tollerato anche da chi era allergico ai latticini. Ecco allora che, ancora una volta, il Bel Paese si conferma grande patrimonio di eccellenze che, da Cenerentole, hanno tutte le potenzialità per diventare Principesse tricolori. Senza se e senza ma.