2021-10-02
Formaggio o dessert? Il dilemma dello chef
Prima il cacio o il dolce? L'annosa questione trova schieramenti contrapposti. Ma secondo i detti popolari di molte regioni non possono sussistere dubbi su come concludere il pasto. Nelle nostre abitudini è la frutta a essere scomparsa come portata finale.«La bocca l'è minga stracca se la sa nò de vacca». Un pasto non è serio se non finisce con un pezzo di formaggio. I milanesi giurano che il proverbio è nato in terra lombarda, regione di abbondanti foraggi e grandi formaggi, all'epoca dei monaci casari delle abbazie cistercensi. I veneti rivendicano sull'aforisma il sigillo della Serenissima: «La boca non xe straca fin che non la sa de vaca». Anche i piemontesi ci mettono lingua variando il detto, ma rispettando il concetto: «Se 'l disnar a finiss nin an vaca, a val n'aca». Se il pranzo non finisce col formaggio non vale un'acca. Rimane lettera muta.Il proverbio, con accenti dialettali diversi, veicola in tutta Italia con il diffondersi, nell'Ottocento, dell'opulenta cucina borghese che attinge spesso e volentieri da quella d'Oltralpe improntata al genio di Anthelme Brillat-Savarin, gastronomo francese vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento. Sua la guercia sentenza: «Un fine pasto senza formaggio è come una bella donna senza un occhio». Per non essere da meno Alexandre Grimod de la Reynière, scrittore gourmet suo contemporaneo, raccomandava «il formaggio, biscottino dei bevitori», lasciando intendere che il cacio servito come dessert è uno stimolo a continuare il piacere gastronomico.Tutti d'accordo, dunque. Ma a questo punto si pone il dilemma: si serve prima il formaggio e poi il dolce o viceversa? I vecchi galatei, che nel quesito inseriscono anche la frutta, non hanno dubbi: prima va servito il formaggio, poi il dolce e per ultima la frutta. I tempi, però, sono cambiati e pochi oggidì concludono il pranzo o la cena con la frutta che si riserva agli spuntini de metà mattina e metà pomeriggio. Rimangono il dolce e il formaggio. Quale prima e quale dopo? Bel problema. Antonio Santini, patron del ristorante tristellato Dal Pescatore a Canneto sull'Olio, maestro indiscusso del servizio in sala, risponde: «Personalmente preferisco il formaggio prima del dolce perché continua la serie dei piatti salati». Paolo Petroni, presidente dell'Accademia italiana della cucina, dà invece ragione all'antico proverbio: «Posto di fronte all'aut aut, scelgo il formaggio per ultimo. Fanno così anche gli inglesi che nei loro menu riportano come ultima voce savory, cioè salato, saporito, intendendo un formaggio erborinato che, di solito, è lo Stilton». «Formaggio o dolce come dessert? E perché non tutti e due insieme?», suggerisce Corrado Benedetti, affinatore di formaggi sui Lessini veronesi. Benedetti esporta con successo nei negozi di nicchia di mezza Europa due erborinati-dessert. Il primo, Bosco Reale, è stagionato con frutti rossi di montagna e Cointreau; nelle venature blu del secondo, chiamato Nobile, circolano cioccolato e rum. «Abbinati con frutta secca e superalcolici o con miele, confetture e passito bianco, sono un fine pasto ideale».Altro proverbio con protagonista il formaggio, altra storia. «Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere». Siamo nel tardo medioevo. Secoli bui per i poveri cristi. Sulle tavole dei re, dei nobili feudali e dell'alto clero si celebra il matrimonio gastronomico del millennio: formaggio e pere. L'atto di nozze è vergato su un documento francese del Duecento riportante un modo di dire che tira in ballo addirittura l'Onnipotente: «Dio non ha mai stretto un mariage/ così saldo come quello tra pera e fromage». Il matrimonio è esclusivo, strettamente riservato ai palati dei ceti ai vertici della società. È tanto elitario che ne genera quasi subito un altro in cui formaggio e pere diventano il simbolo della divisione fra le classi sociali, un bando diretto alla plebaglia, un monito, più che un invito, rivolto ai servi della gleba: «Al villan non far sapere quanto è buono il cacio con le pere». In altre parole, contadini state al vostro posto, lavorate la zolla e non scocciate con rivendicazioni sociali.All'enigmatico proverbio ha dedicato un'indagine storica accurata Massimo Montanari, docente di Storia dell'alimentazione a Bologna, studio riportato in un libro di piacevolissima lettura: Il formaggio con le pere, la storia in un proverbio. In esso Montanari ricostruisce la genesi dell'aforisma partendo dall'abbinamento che ritiene «fortuito» (entrambi i cibi erano collocati a fine pasto per motivi legati a questioni di gusto e a ragioni dietetiche in linea con le cognizioni medioevali: dolce e salato, tenero e duro, freddo e caldo) e continuando coll'indagare i motivi secondo i quali il contadino deve ignorare quanto è buono il formaggio con le pere.In sostanza il cacio, che a quei tempi non era vario né di qualità come i formaggi d'oggidì, era ritenuto un cibo povero, degno di bocche voraci e di palati grezzi quali erano quelli di pastori e villani. Già Marziale, in un epigramma, lo aveva disprezzato parecchi secoli prima definendolo «cibo da schiavi». Al contrario i frutti, soprattutto le deliziose pere, erano fra i cibi più delicati in quanto deperivano in fretta, e tra i più ricercati. Ogni castello, ogni tenuta feudale, ogni convento aveva il brolo in cui crescevano diverse piante da frutto, peri innanzitutto che qualche secolo prima Carlo Magno aveva raccomandato di piantare e di curare.Le pere erano considerate nel Rinascimento frutti signorili, degni di prestigiosi omaggi tra signore e signore, da cardinale a cardinale, da amante ad amante. Nel 1564 Cristoforo Madruzzo, principe vescovo di Trento invia a Vienna cento pere a Massimiliano II, neoimperatore del Sacro romano impero. I Gonzaga di Mantova si distinguono per i preziosi cesti di frutta che fanno recapitare ai loro pari grado di altre città. Tommaso Campanella, poeta, filosofo e frate domenicano che, come il parroco di Fabrizio De André, non disdegnava il bene effimero della bellezza, scrive un sonetto sulle sensuali pere, anch'esse bene effimero, inviategli in regalo dalla sua amante: i frutti, toccati dalle labbra di lei e mordicchiati, gli erano ancora più cari e preziosi. Cos'ha, al contrario, di sensuale il formaggio? Sarebbe la stessa cosa riceverne in regalo un pezzo con i segni di 32 denti sopra? Scrive Montanari sul cibo associato al mondo dei pastori e dei contadini, sul povero cacio: «Il formaggio è il cibo di Polifemo, l'uomo-bestia non toccato dal processo di civilizzazione». Anche la Scuola medica salernitana ammoniva in quei tempi: «Caseus est sanus quem dat avara manus». Ovvero: mangiate poco formaggio se volete star bene. Dovrà passare qualche secolo perché il formaggio prenda la sua rivincita. In quell'epoca rappresenta l'alimento dei poveri mentre la pera lo è dei ricchi. Ognuno stia al suo posto, anche a tavola. Il contadino mangi il formaggio, ma non la pera. Prima di essere ammesso ai banchetti dei signori il formaggio dovrà pagare parecchi pegni, ma alla fine sarà nobilitato. «Un'accoppiata rassicurante», scrive Giovanni Ballarini in Il boccon del prete, «ma un tempo non disponibile per tutti e quindi i ceti abbienti, laici e religiosi, se ne sono appropriati emarginando gli altri, iniziando dai villani».I quali non se sono stati buoni e zitti, ma, impadronitosi del proverbio lo hanno rivoltato sovvertendone il significato. «I contadini dopo essersi appropriati di un adagio inventato contro di loro», scrive Montanari alla conclusione del suo libro, citando un proverbio della campagna senese, «hanno rivoltato la satira contro la parte avversa». Così il depositario del sapere non è più il padrone, ma il contadino: «Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere. Ma il contadino che non era coglione, lo sapeva prima del padrone».