2019-06-10
Follia: paghiamo i Paesi poveri perché ci mandino più immigrati
Altro che «aiutiamoli a casa loro». Lo strumento dei mini finanziamenti, che muove un giro d'affari da 100 miliardi di euro all'anno, si sta rivelando un incentivo a lasciare le nazioni d'origine. Che porta lauti ricavi alle banche.L'economista Ilaria Bifarini: «Alcune Ong offrono "prestiti all'emigrazione" Tra piccoli mutui e rimesse, l'indigenza globale è un business».Lo speciale contiene due articoliAiutiamoli a casa loro. Uno slogan talmente gettonato da essere finito persino sulla bocca di Matteo Renzi. Nel 2017 l'ex premier, ormai in ambasce dal punto di vista politico, finì sulla graticola per aver postato sui social una citazione del suo libro Avanti nella quale ammette che il dovere che abbiamo nei confronti degli immigrati non è quello di «accogliere in Italia tutte le persone che stanno peggio», bensì «aiutarli davvero a casa loro». Ma cosa succede se con l'idea di aiutare i migranti «a casa loro» si finisce invece per incentivarli a lasciare gli Stati di origine e approdare sulle nostre coste? È proprio questo l'effetto collaterale del microcredito, quei prestiti di importo limitato (dall'equivalente di pochi euro, fino qualche migliaio) diffusi in alcuni Paesi in via di sviluppo. La microfinanza di piccolo in realtà ha solo il prefisso all'inizio del nome: i prodotti finanziari offerti agli individui poco solvibili e sottobancarizzati generano a livello mondiale un giro d'affari di 114 miliardi di dollari annui (circa 100 miliardi di euro, pari al 6% del Pil italiano), coinvolgendo 139 milioni di individui, in prevalenza (83%) donne. Un business in piena crescita, se si pensa che nel 2017 l'incremento dei volumi è stato pari al 15,6%, mentre quello fatto registrare in termini di beneficiari è stato del 5,6%. Ma si tratta di un business che allo stesso tempo nasconde un pericoloso lato oscuro. Ti pago per partireNel 2012 l'antropologo David Stoll mandò alle stampe un lungo e dettagliato studio, nel quale dimostrava come il microcredito abbia favorito l'emigrazione clandestina dal Guatemala agli Stati Uniti. Due anni più tardi Marianne Bylander, docente di Sociologia al Lewis & Clarke College di Portland (Oregon, Stati Uniti) pubblicò una ricerca che aveva come oggetto «l'inaspettata e sottovalutata conseguenza della diffusione del microcredito: l'interazione con le migrazioni». L'analisi della Bylander documentava la forte diffusione dei «migra-loans» (dove loans sta per prestiti) in Cambogia, un Paese «saturato dal microcredito». Nel giro di un quindicennio, infatti, il numero di individui coinvolti in questo meccanismo è passato da poco più di 1.000 nel 1997 a quasi 1,4 milioni nel 2011 (su un totale di 14,1 milioni di abitanti). Parallelamente, il tasso di indebitamento dei beneficiari è esploso dal 40% circa dei primi anni al 140% del 2011. Di conseguenza, il tasso di prestiti insoluti è lievitato rapidamente, toccando il 23% nelle zone più sature. Questa drammatica situazione ha portato i debitori a provarle tutte pur di ripagare il finanziamento ricevuto. Come spiega la Bylander, «in molte parti del Paese la strategia più utilizzata è stata quella di varcare le frontiere e cercare lavoro nella vicina Thailandia». Le cifre parlano di un milione di cambogiani che vivono e lavorano in clandestinità oltre confine. Stimare il numero esatto di persone che hanno sfruttato il microcredito per entrare in Europa e in Italia è impresa ardua. Basti pensare che, se prendiamo in considerazione la top 10 dei Paesi che fanno maggiore uso di questo strumento e facciamo le debite proporzioni con le persone che in patria usufruiscono di questi piccoli prestiti, si può stimare che circa 55.000 stranieri che oggi vivono nei nostri confini abbiano avuto accesso a questa fonte di finanziamento. L'illusione offerta dal microcredito è quella di sfuggire dalla povertà attraverso la realizzazione di un'idea imprenditoriale. Secondo uno schema tipicamente occidentale, le banche (o altri soggetti parabancari) prestano i soldi e i proventi generati dall'attività consentono alla persona che ha ricevuto la somma di ripianare il debito. Facile no? Per un periodo si è pensato che le cose potessero andare bene. Basti pensare che il 2005 è stato dichiarato dall'Onu «l'anno del microcredito», e almeno in una fase iniziale questa formula ha ricevuto potenti endorsement (anche di natura finanziaria) da personaggi del calibro di Hillary Clinton, Bill Gates, Bono e George Soros. L'apice si è raggiunto nel 2006, quando l'economista bengalese inventore del microcredito, Muhammad Yunus, è stato insignito del premio Nobel per la pace. Dal premio ai guaiEppure, come accade spesso quando c'è di mezzo l'economia, le cose prendono una piega diversa dal previsto. Uno dei primi a rendersi conto dei limiti di questo strumento è stato Milford Bateman, visiting professor alla Pula University in Croazia e autore di numerosi saggi sul tema. Con un lungo editoriale pubblicato nel 2015 sulla rivista socialista americana Jacobin Magazine, Bateman distrugge pezzo per pezzo quella che egli stesso definisce «l'ideologia del microcredito». Terminato il periodo d'oro, nella seconda metà degli anni Duemila iniziano a venire a galla i problemi. Secondo l'economista, il problema risiede nell'approccio sbagliato nei confronti del problema della povertà. Moltiplicare l'offerta (cioè gli imprenditori) non comporterà infatti un incremento della domanda quanto semmai un aumento della competizione e la conseguente discesa dei prezzi. Un po' come se si pretendesse di risolvere la crisi dei consumi aprendo più negozi. La vera questione, osserva Bateman, riguarda perciò la capacità di aumentare il potere d'acquisto delle popolazioni in difficoltà. Solo così la ricchezza generata sarà reale e l'economia potrà beneficiarne. Dal momento che il microcredito finisce per causare «migrazioni involontarie e l'aumento dell'indebitamento finisce per esacerbare la vulnerabilità dei migranti», secondo Marianne Bylander, «le istituzioni che si occupano di microfinanza e i governi devono intervenire».Piatto riccoDifficilmente questo potrà accadere, per un motivo molto semplice: il microcredito è un ottimo affare. Dopo una prima fase durata circa un decennio, caratterizzata da una gestione pubblica, l'erogazione di questi finanziamenti è stata liberalizzata in favore di soggetti privati. Basti pensare che nel 2016 il Roe (return on common equity, l'indice utilizzato nel mondo della finanza per definire la redditività di un'azienda) della microfinanza è stato pari al 12,6%, ben più alto tanto per rendere l'idea di quello di Intesa Sanpaolo e di Unicredit. Il Banco Compartamos, la più grande realtà di microfinanza in Sud America, conta 15.000 dipendenti e ha distribuito nel 2013 dividendi per 154 milioni di euro. La Grameen Foundation, spin off su scala mondiale della Grameen Bank fondata dallo stesso Yunus, ha stretto un sodalizio con la Better than cash alliance, una partnership che punta alla sostituzione del contante con la moneta digitale e della quale fanno parte colossi del rango di Unilever, H&M, Coca Cola, Citi, Mastercard, Visa, Inditex e la Bill & Melissa Gates Foundation. La facciata è quasi sempre quella della filantropia, come nel caso di Positive Planet, l'Ong cofondata dall'economista francese Jacques Attali (consigliere di Francois Mitterand e «inventore» di Emmanuel Macron) e dall'onnipresente Muhammad Yunus, che opera come una sorta di mediatrice tra i potenziali clienti e chi eroga i fondi. Anche in questo caso i partner sono di primo livello: si va Ernst & Young (una delle quattro società di consulenza più forti al mondo), a Microsoft e Accenture, passando per Capgemini.Nato per finanziare i progetti dei Paesi in via di sviluppo, il microcredito si appresta a conquistare anche l'Europa. Nel vecchio continente, infatti, le operazioni erogate sono passate dalle 494.800 del 2015 alle 664.000 del 2017 (+17%), mentre il volume complessivo si è attestato nel 2017 a 2,07 miliardi di euro (+24% rispetto al 2015). L'obiettivo finale è quello dell'inclusione finanziaria, in altre parole garantire anche ai migranti accesso a tutti gli strumenti bancari. Stando ai dati dell'Osservatorio nazionale sull'inclusione finanziaria dei migranti, nel 2016 i conti correnti intestati a clienti immigrati erano 2,7 milioni, in forte crescita del 52% rispetto al 2010. Sul piatto il gigantesco giro d'affari delle rimesse (i risparmi inviati dai migranti nel proprio Paese di origine) che solo per il ramo bancario rappresenta un volume annuo di 500 milioni di euro e 200.000 operazioni con una commissione media intorno al 3,6%. Dovevamo aiutarli a casa loro, invece li abbiamo spinti a venire a casa nostra. E le banche ci stanno guadagnando. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/follia-paghiamo-i-paesi-poveri-perche-ci-mandino-piu-immigrati-linganno-del-microcredito-2638753202.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="quei-soldi-servono-per-sovvenzionare-chi-sta-per-partire" data-post-id="2638753202" data-published-at="1758064165" data-use-pagination="False"> «Quei soldi servono per sovvenzionare chi sta per partire» L'economista Ilaria Bifarini si autodefinisce «bocconiana redenta», e non potrebbe esserci un termine più adatto per chi proviene dalla culla italiana del neoliberismo e finisce per firmare un libro («Neoliberismo e manipolazione di massa», 2017) con il dichiarato proposito di smascherare «l'inganno liberista». Nei prossimi giorni è in uscita il suo nuovo libro «Inganni economici. Quello che i bocconiani non vi dicono», nel quale si focalizza sulla perdita di sovranità monetaria e sui falsi miti su cui si fonda l'attuale modello unico economico (lo Stato è come una famiglia, l'austerity espansiva, il fantasma dell'inflazione che non si materializza mai). Con lei abbiamo discusso delle storture della microfinanza, uno dei tanti argomenti al centro dei suoi studi. Perché il sistema del microcredito ha fallito? «Il microcredito, ideato per traghettare i Paesi in via di sviluppo fuori dalla condizione di miseria, in realtà ha finito per impoverirli. Esso non ha avuto alcun impatto sullo sviluppo delle economie locali e dell'occupazione, ma è stato per lo più utilizzato per soddisfare le esigenze di consumo delle famiglie, che sono finite nel vortice dell'indebitamento, costrette a pagare tassi di interesse usurai. Per ripagare i prestiti si sono verificati casi di vendita di organi da parte di cittadini bengalesi e un aumento di suicidi in alcune zone dell'India. Si è rivelato un business molto profittevole per gli istituti di microcredito, che si sono diffusi massicciamente in tutto il mondo». Altro che speranza, è il ritratto della disperazione… «Nelle aree dove si è originato il sistema del microcredito, come l'India e il Bangladesh, è stata provata l'esistenza di una correlazione diretta tra espansione del microcredito e aumento dei flussi migratori verso l'estero. Proprio in un villaggio del Bangladesh è stata creata, a fine anni Settanta, la Grameen Bank, il primo istituto finanziario a concedere denaro alle persone più indigenti. Ben presto questi finanziamenti sono stati destinati all'emigrazione, considerata una opportunità di miglioramento del benessere delle popolazioni, secondo l'infondato paradigma di sviluppo economico, abbracciato dalle organizzazioni internazionali, che vede nelle rimesse da parte dei migranti una fonte di crescita per il Paese d'origine». È possibile quantificare il peso che questi strumenti hanno avuto nel massiccio afflusso di migranti nel nostro Paese? «Il Bangladesh, dove è nato il microcredito, è il Paese di provenienza di circa un decimo dei migranti che ogni anno arrivano in Italia (oltre 10.000 nel solo 2017). Il Brac (Bangladesh rural advancement commitee), è la più grande Ong al mondo, leader nel settore dei cosiddetti “prestiti all'emigrazione", e ha filiali in Asia, America Latina e in molti Paesi dell'Africa. Non solo fornisce i finanziamenti e l'assistenza per emigrare attraverso il microcredito, ma si occupa anche di fornire alle famiglie dei migranti prestiti di rimesse, per accedere a somme di denaro per investimenti o spese mentre aspettano di ricevere le rimesse inviate dall'estero». Che interesse hanno questi soggetti a promuovere la bancarizzazione delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo? «La povertà globale è uno dei maggiori business del sistema economico attuale, che vale decine di miliardi di dollari all'anno tra piccoli prestiti, carte di credito e microcrediti. Poi c'è l'affare d'oro delle rimesse - a latere del quale prolifera il settore delle agenzie di recupero del credito - che ha visto un incremento in termini globali di oltre il 50% in soli 10 anni, per una cifra complessiva di 445 miliardi di rimesse nel solo 2016, il 13% delle quali è stato inviato in Africa. È la finanziarizzazione della povertà e delle vite umane». E il tanto gettonato slogan «aiutiamoli a casa loro»? «Occorre liberare questi Paesi dal neocolonialismo, che opera attraverso l'ingerenza di potenze come la Francia. Quest'ultima, di fatto, non ha mai smesso di esercitare la propria egemonia sul continente africano, depredandolo delle sue ricchissime risorse naturali e minerarie, imponendo una moneta neocoloniale come il franco Cfa, che impedisce lo sviluppo economico nazionale e priva questi Stati del 50% delle proprie riserve valutarie, alimentando uno stato di tensione e guerre civili permanenti al fine di destabilizzare il territorio. Non servono aiuti o piani Marshall da parte dell'Unione europea ma solo lasciarli in pace a casa loro». Non ritiene un controsenso che il prodotto del microcredito abbia attecchito anche in Italia? «È in atto un drammatico processo di globalizzazione della povertà e di terzomondizzazione dell'Occidente, favorito dalle migrazioni di massa e di cui l'Italia è una delle principali vittime. Il modello economico attuale, che io definisco neoliberista per facilità d'identificazione, non si basa più sull'economia reale, quella della produzione e del consumo, ma si arricchisce con la finanza. Siamo nella situazione paradossale per cui la povertà e l'indebitamento sono divenuti la fonte principale di guadagno dei mercati. Non a caso nel nostro Paese è stata istituita la Fondazione Grameen Italia, dedicata allo studio e alla replica di programmi di microcredito sul modello di quella bengalese».