
Nel centenario dell'occupazione della città adriatica, il legame tra quell'impresa e il regime fascista fa discutere gli esperti. E se per Guerri l'accostamento è abusivo, altri studiosi la vedono diversamente.«La causa di Fiume non è la causa del suolo: è la causa dell'anima, è la causa dell'immortalità», amava dire Gabriele D'Annunzio, mettendo da subito in chiaro che, entrando nella «città irredenta», non stava mica mettendo in piedi una polemica condominiale su qualche centinaio di metri quadrati in più o in meno da assegnare al regno d'Italia… Era il 12 settembre 1919 quando, con circa 2600 uomini, il poeta occupò la città adriatica, proclamandone l'annessione al Regno d'Italia. Vi restò diversi mesi, prima di essere sgomberato con la forza nel famigerato «Natale di sangue» del 1920. Quella che poteva essere una «normale» scaramuccia di confine, tipica dei tormentati anni successivi alla Grande guerra, assunse invece, grazie al genio immaginifico del Vate, un significato ben più ampio. L'impresa di Fiume ambiva a lanciare un messaggio ai contemporanei e ai posteri che fosse emblematico di un certo modo di leggere la politica, la cultura, l'arte, il lavoro. Nella breve parentesi dannunziana, a Fiume si tentò un esperimento sociale utopistico, ma di sicuro fascino, i cui tratti erano a un tempo libertari ma marziali, nazionalisti ma goliardici. Sul contenuto di quel messaggio, tuttavia, gli storici non hanno smesso di litigare. Il centenario alle porte, capitando peraltro in un atmosfera di fantasioso quanto esacerbato allarme antifascista permanente, non ha certo contribuito a rischiarare la vicenda. A rilanciare la polemica, ci ha pensato Giordano Bruno Guerri, storico e presidente della Fondazione del Vittoriale degli italiani, con il suo recente Disobbedisco (Mondadori).Guerri definisce la storia dell'impresa di Fiume «inquinata dalla mitologia fascista» e dipinge la «controsocietà» messa in piedi dal poeta come «in contrasto sia con le idee e i valori dell'epoca sia - e tanto più - con quelli del fascismo». Quel «tanto più», però, grida vendetta. È vero, i rapporti tra D'Annunzio e Benito Mussolini non furono mai semplici, anche se mettere a confronto la logica di un poeta con quella di un politico non è forse corretto. È vero, ci fu una componente di reduci dell'avventura fiumana che scelse l'antifascismo, a cominciare da Alceste De Ambris. Ma il fiumanesimo antifascista organizzato nell'Unione spirituale dannunziana fu poca roba e piuttosto confusa, finendo nell'imbarazzo di doversi dichiarare fedele al pensiero e non alla persona del Vate. Non un gran successo, si direbbe. È del resto complicato trasformare in eroe anti mussoliniano uno scrittore che, durante la crisi successiva al delitto Matteotti, rassicurò personalmente Mussolini che non avrebbe mosso un dito contro di lui, raccomandandogli di «aver fede intiera» nella sua «lealtà e carità di patria» e che nel 1925 metterà addirittura la sua firma in calce al Manifesto degli intellettuali fascisti. Dati di fatto inoppugnabili, a cui è arduo opporre le solite leggende metropolitane, come quella su Mussolini che saluta il poeta con un retorico «Ti saluto, alato fante», ricevendo di rimando un caustico «E io saluto te, o lesto fante». Secondo lo storico Raoul Pupo, anch'egli da poco uscito in libreria con il suo Fiume città di passione (Laterza), il fiumanesimo, dopo il Natale di sangue, «diverrà terreno di scorreria del fascismo, che riuscirà ad ereditarne quasi tutto, a parte l'essenza libertaria». Ma aggiunge anche che l'impresa di Fiume è stata «esempio anticipatore di tendenze generali della lotta politica nell'Italia del tempo, e in particolare della capacità del fascismo di subordinare a sé gli apparati dello Stato». Insomma, la questione resta aperta. Ma forse la stiamo inquadrando dalla parte sbagliata.È stato giustamente scritto in questi giorni: «Se è effettivamente pertinente la ricerca storica che si prefige di riequilibrare la comprensibile “manipolazione" del fiumanesimo da parte della storigrafia del Ventennio (anche per averlo magari poco ricordato e celebrato) è altrettanto vero che da un punto di vista “ideologico" il fascismo fu un pluralismo abbastanza omogeneo di linee spirituali oltre che ideologiche. Ed è per tal via che si crea il nesso tra fiumanesimo e fascismo, soprattutto il fascismo squadrista e quello della Rsi. Un modo di sentire e concepire l'uomo, alcuni valori e principi fondanti a prescindere dalle forme istituzionali a cui danno vita». Sono parole di Maurizio Murelli, nome pesante della destra radicale milanese e oggi animatore delle edizioni Aga, per i cui tipi è appena uscito D'Annunzio politico, del dannunziano di sinistra Nino Daniele (con un saggio introduttivo di Claudio Siniscalchi). Il catalogo di Aga è del resto una miniera d'oro per gli appassionati di cose fiumane: vi troviamo il diario di Mario Carli, Con D'Annunzio a Fiume, e, dello stesso autore, lo scandaloso romanzo a tinte erotiche Trillirì. Ma anche Gli allegri filibustieri di D'Annunzio, del segretario tuttofare del Vate, Tom Antognini, La stagione delle fiamme danzanti, di Leon Kochnitzky, L'asso di cuori, di Atlantico Ferrari, dedicato a Guido Keller, e il libro di avventure uscocche Santa pirateria, di Yambo. Anche se la vera chicca, che poi spiega bene come un certo tipo di commistioni ideologiche non siano rimaste limitate ai 16 mesi di occupazione di Fiume ma abbiano caratterizzato tutto il Novecento, la si trova in un altro libro su D'Annunzio, pubblicato anni fa dalla precedente casa editrice di Murelli, e intitolato Il soggetto senza limite. L'autore è infatti Enrico Galmozzi, ex terrorista di Prima linea. Il rosso e il nero uniti dalla passione per la Fiume dannunziana. Può far storcere il naso a molti, ma la cosa è significativa.Uno dei libri che hanno cambiato la percezione dell'avventura fiumana, del resto, è quello scritto nel 2002 da Claudia Salaris, studiosa delle avanguardie e moglie del pittore Pablo Echaurren. Si intitolava Alla festa della rivoluzione (Il Mulino) e proponeva uno «scandaloso» paragone tra i 16 mesi della Fiume dannunziana e il movimento del 1977, mettendo in risalto il clima libertario che si respirava nella città adriatica sotto la guida del Vate: l'amore libero, etero e omo, la cocaina, il naturismo... Un vero «ordine lirico», come l'ha definito lo storico Emilio Gentile. La cui vera essenza, tuttavia, rischia di sfuggire se ci si limita all'aspetto festaiolo e ci si dimentica che a far baldoria erano arditi e soldati, che la bisboccia si faceva con la bomba a mano attaccata al cinturone, e che comunque tutto nasce da un disperato amore per l'italianità delle «terre irredente». Non era esattamente un'assemblea d'istituto, diciamo.A Fiume si fecero del resto le ossa personaggi del calibro di Ettore Muti, che poi finirà per diventare praticamente l'emblema dell'uomo nuovo fascista realizzato. L'assunzione di Fiume nel pantheon antifascista non può ancora essere data per assodata, comunque, se, appena qualche anno fa, qualcuno propose di cambiare il nome di Ronchi dei Legionari, la cittadina in provincia di Gorizia da cui mossero i miliziani del Vate, in «Ronchi dei partigiani». Il D'Annunzio sincero democratico, insomma, crea ancora delle resistenze, con buona pace di certi gruppuscoli dell'estrema sinistra, per lo più romana, che negli anni scorsi hanno provato a riscoprire l'estetica e il riferimento ideologico fiumano, insieme a quello fortemente sopravvalutato degli Arditi del popolo, per ravvivare l'esangue immaginario «rosso». Esperimenti bislacchi e sintesi mai nate per davvero, ma che testimoniano se non altro la tenuta del mito dannunziano. Cento anni dopo, ne va ancora della causa dell'anima.
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