
Il centrosinistra pullula di «cantieri». L'ex ministro pensa a un nuovo gruppo ecologista. Il capo dell'esecutivo può fare il federatore alla Romano Prodi, mentre Gian Luigi Paragone sogna di tornare al «vaffa».Il centrosinistra è un cantiere, sia alla sua destra sia alla sua sinistra. La pentola bolle perché i sondaggi, che dopo la crisi di agosto continuano a dare il centrodestra in testa, producono nei leader e negli aspiranti leader (del centrosinistra) l'idea che se la situazione resta questa, la partita sia persa, e che aumentando l'offerta politica sia possibile aumentare anche la raccolta del consenso. Ma non c'è un disegno, e nemmeno un regista occulto, in questo diffuso fervore: è semplicemente fisica politica. L'entropia, ovvero il disordine che deriva dalla crisi, il calcolo delle utilità marginali, la deriva dei continenti (di consenso) e le ambizioni individuali, fanno il resto. Su ognuno dei cantieri che si è aperto pesa il grande interrogativo: se il M5s viene ridimensionato, dove andranno a finire i suoi voti? Da tempo i sondaggisti di almeno due istituti ripetono a Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio che il grosso dei consensi pentastellati che venivano da destra sono già andati a Matteo Salvini nelle ultime europee. Ma gli altri? Questa è la grande domanda che attraversa gli stati maggiori di Pd e M5s.1La cosa verde. Ecco perché il primo cantiere aperto è quello di cui ha virtualmente tagliato il nastro Lorenzo Fioramonti. L'ex ministro dell'Istruzione, che ieri ha lasciato ufficialmente il Movimento 5 stelle per gli attacchi subiti, entrando «a titolo puramente individuale nel gruppo Misto», è da sempre caratterizzato sui temi ecologisti. Ha rapporti intenzionali, sia politici sia di opinione (a cominciare da un'amicizia con un pensatore ecologista come Jeremy Riflkin), parla quattro lingue e si muove a livello europeo. Fioramonti ha anche un'altra carta nella manica: è uscito in un momento in cui i mal di pancia grillini sono molto forti. Questo fa sì che a lui guardino sia parlamentari che sono ancora nel Movimento, ma critici con la leadership di Di Maio, sia altri che sono già usciti (come Gregorio De Falco e Paola Nugnes al Senato). Fioramonti è il primo dissidente M5s che abbia attaccato la Casaleggio e associati quando era ancora in un ruolo di primo piano, ed è anche l'unico di quelli che hanno rotto con il gruppo dirigente (dai tempi lontani di Giovanni Favia) che abbia forte visibilità mediatica e un seguito. Ma questo può bastargli per riuscire dove tutti hanno fallito? Il profilo è quello della Greta generation e il modello organizzativo sarebbe quello dei Verdi tedeschi. Per adesso Fioramonti si gode in Italia le vacanze con la famiglia (che normalmente risiede a Berlino), ma la prima difficoltà è questa: se dovesse provare la via di un gruppo parlamentare la soglia per potersi costituire in modo autonomo è di 20 seggi. 2La cosa «contiana». Contrariamente a quello che scrivono molti, Fioramonti non agisce in nome e per conto del premier. I due si conoscono dai tempi del governo ombra del M5s, ma hanno storie e profili diversissimi. Conte è cresciuto con monsignor Silvestrini nel collegio Nazareth, Fioramonti non è credente e voleva togliere i crocifissi dalle aule pubbliche. Se Conte (come immagina Nicola Zingaretti) dovesse diventare il candidato premier di tutta la coalizione la sua formazione nascerebbe per emanazione più sul modello della Lista Dini (1996) che su quello di un tradizionale partito strutturato. Anche perché, in questa fase, il premier - al contrario di Fioramonti - non potrebbe lavorare pubblicamente a nessuna formazione concorrente del M5s: rischierebbe di provocare la caduta del suo governo per una ritorsione scontata. Non può perdere, per ora, la sua formale terzietà: anche se dice che continuerà a far politica perché è l'unica via per provare a sondare il consenso. 3La cosa antagonista. Molti nel M5s sono convinti che il futuro della diaspora grillina sia il «ritorno alle origini». Ovvero una formazione che riprenda lo spirito di battaglia del «vaffa», e che - soprattutto -non scelga di schierarsi con il Pd, tirando alla vecchia parola d'ordine: «Né di destra né di sinistra». Questa tendenza è ancora uno stato d'animo ma ha un casus belli e un potenziale frontman: Gianluigi Paragone. L'innesco del processo, invece, è una scadenza fissata per i primi di gennaio, ovvero il giudizio dei probiviri sul senatore. Che ha usato proprio ieri parole caustiche e feroci sui dirigenti grillini con un'intervista a The Post che sembra fatta apposta per far saltare i nervi ai probiviri: «Oggi i dirigenti cascano persino in qualsiasi mia provocazione: me li sto bevendo io stesso i 5 stelle. Sono destinati a cadere, a inciampare sulle loro stesse gaffe». Parole senza rete: dette probabilmente da chi sa già che sarà espulso perché non avendo votato la fiducia per lui dal punto di vista regolamentare non c'è possibilità di appello. Paragone raccoglierà la spinta mediatica che un'espulsione provocherebbe e potrà mettere a frutto la sua indubbia capacità comunicativa. Negli ultimi mesi è stato uno dei grillini più invitati nei talk, e gli ascolti - che lui studia - dicono che il pubblico ha curiosità per la sua figura. L'ex conduttore della Gabbia ha chiaro il profilo che a suo avviso bisogna ricostituire: «Di Maio è solo il simbolo di questa sconfitta, ma ad aver ucciso il M5s è la somma di tutti gli errori. Compresi i miei». Poi l'affondo: «Ci siamo convinti che dovevamo essere credibili e così siamo, più loro che io, diventati Sistema».Il punto è che questi tre progetti insistono tutti sullo stesso bacino elettorale e scommettono tutti su due condizioni: che il consenso del M5s sia contendibile e stia per crollare, e che questi cantieri siano in grado di raccoglierlo. Si tratta di tre ipotesi divergenti: la prima verde, la seconda neocentrista, la terza antagonista. Il M5s riuscì nel 2018 (sembra un secolo fa) a produrre un effetto calamita, rispondendo contemporaneamente a tutte e tre queste domande. Nulla garantisce che scomponendo i fattori il risultato non cambi.