2020-09-07
Finkielkraut insegna: il popolo ha bisogno di radici e tradizioni
Alain Finkielkraut (Ansa)
L'esaltazione della migrazione perpetua cancella l'identità La comunità smarrita riscopre così il valore di patria e storia.Il nuovo libro del filosofo francese Alain Finkielkraut - in prima persona, una sorta di autobiografia intellettuale appena pubblicata da Marsilio - è sottile ma denso, e come sempre accade con questo autore contiene una marea di spunti interessanti. Dopo tutto, Finkielkraut è uno degli intellettuali più celebri d'Europa sull'immigrazione e sul cosiddetto «scontro di civiltà», che gli hanno procurato ben più di un attacco da sinistra. E dire che lui proviene da lì, la sua vocazione alla militanza è esplosa durante il Sessantotto francese. Lui la sintetizza in un pugno di frasi: «All'inizio fu il conformismo. Nel maggio del '68, come la maggior parte di coloro che si cominciava a chiamare, con una tenerezza da cui già traspariva la deferenza, “i giovani", sono stato investito e in seguito trascinato dall'onda», racconta. «Ho manifestato rumorosamente, ho protestato con coraggio, ho corso a perdifiato; ho attinto, per i miei primi interventi, a un lessico che nel mese di aprile mi era ancora estraneo; come tutti, dall'oggi al domani, ho iniziato a utilizzare la parola compagno, sono stato fedele alla mia epoca attraverso la mia stessa ribellione contro le diverse forme di autorità».Il punto fondamentale di tutto il volume è questo: come è possibile che un attivista sessantottino sia diventato un punto di riferimento per il pensiero conservatore? In che modo agiscano altri vippetti francesi scaturiti da quella stagione lo sappiamo: basta leggere le banalità di Bernard Henry-Levy, nemico supremo dei populisti con la passione per le guerre umanitarie, filosofetto di tendenza impegnato ad attaccare «le destre», e per questo funzionale al pensiero dominante, di cui è servo fedele.Finkielkraut, invece, si è mosso nella direzione opposta. Ha avuto il fegato di esporsi ad accuse feroci per le sue idee sul multiculturalismo. «Penso che la parola “migrante" sia rivelatrice in sé», ha detto in una recente intervista a Figaro. «Agli occhi dei partigiani dell'ospitalità incondizionata, dell'apertura infinita delle frontiere, l'uomo che arriva non viene definito né per la sua origine né per la sua destinazione, ma solo per il suo essere in viaggio. Non si vuole vedere in lui altro che l'homo migrator. Questo accecamento è evidentemente problematico e pericoloso, perché l'antisemitismo di cui l'Europa è oggi teatro non è più endogeno, ad esempio. È legato all'immigrazione. Questo deve essere detto con il maggior tatto possibile, perché non si possono certo descrivere i migranti come invasori pogromisti. Ma questo problema dovrebbe perlomeno poter essere evocato. Ora se usiamo la parola “migrante" è impossibile. L'immigrazione è l'ultimo rifugio dell'antirazzismo ideologico. È una fortezza che sembra difficile da espugnare».Anche nel nuovo libro Finkielkraut ritorna sul tema dell'antisemitismo. Mostra quanto sia diffusa a sinistra l'ostilità verso Israele, e nota un'inversione di tendenza: gli ebrei, quando erano «senza patria», sradicati, suscitavano l'astio di un certo tipo di destra, che li accusava di essere sostanzialmente gli ideatori di questa figura dell'homo migrator. Oggi che la patria finalmente l'hanno ritrovata, subiscono assalti dalla parte opposta.Ed eccoci al nodo centrale della questione, alla grande battaglia ora in corso. Il radicamento - di cui tanto ha parlato Simone Weil ne La prima radice - è un bisogno fondamentale di ogni uomo, ma la civiltà occidentale lo respinge. A lungo l'ideologia dello sradicamento ha funzionato. Finkielkraut, parlando dei suoi connazionali, scrive che «quando era saldamente consolidata, la componente francese della civiltà europea non significava nulla per loro. Ora che la sua esistenza è messa in discussione, si riaffaccia alle loro menti. Scoprendola precaria, diventa per loro preziosa».Questo ragionamento vale anche per noi. Se le destre guadagnano consensi, non è per via di un ritorno delle «forze oscure della reazione», e nemmeno c'entra la famigerata «paura del diverso» sempre chiamata in causa. È come se gli europei, a un certo punto, avessero lasciato parlare il cuore. Immersi nel caotico mondo liquido della globalizzazione, senza certezze né appigli, si sono resi conto dell'importanza del passato, della tradizione, dell'identità. «Nel momento in cui si rivela deperibile», scrive Finkielkraut, «smettono di trattare questa identità con disprezzo o di prenderla per oro colato. Ne riconoscono l'importanza vitale, e i bambini viziati che erano diventano grati a essa».Meglio di chiunque altro, Finkielkraut spiega il sorgere di quello che volgarmente viene chiamato sovranismo. Chiarisce - senza pregiudizi né superiorità morale - perché in tanti oggi si spostino a destra: «Se sono diventati conservatori», dice, «senza che nulla li predisponesse a esserlo, non è perché invecchiando considerino nefasta ogni novità, e nemmeno perché abbiano aderito miseramente al partito dell'Ordine e della difesa dei privilegi; è perché rifiutano di veder scomparire l'ambiente che li ha nutriti e di essere sradicati dalla propria terra». Non sono nemmeno diventati «di destra», in fondo: «La verità è che si preoccupano per la sopravvivenza della comunità storica in cui assume un senso e può svilupparsi il grande scontro tra destra e sinistra».Se l'intera cultura europea viene distrutta, e la comunità si sregolata, perde di senso tutto, anche la divisione politica. Se i pensatori liberal di casa nostra dessero uno sguardo a queste parole, forse riporrebbero almeno per un po' la superiorità morale e la fissazione per la migrazione a tutti i costi. E si renderebbero conto della granitica verità a cui è giunto Finkielkraut: senza patria e senza radici, i popoli muoiono.