2025-06-20
        Dopo 14 anni, finiscono le primavere arabe
    
 
Il modello politico iniziato con Obama che ha portato a stravolgimenti in Libia, Egitto e Tunisia pronto a cambiare. Sauditi e Paesi sunniti puntano al controllo del Medio Oriente. È la crisi della filiera di potere democratico che aveva avviato il disgelo con Teheran.Il 2011 e il 2014 sono due momenti che hanno segnato le sorti del Medio Oriente e del Mediterraneo. Quattordici anni fa fu decretata la fine di Muhammar Gheddafi e gli Stati Uniti guidati da Barack Obama diedero il calcio d’inizio alle cosiddette primavere arabe. Stravolgimenti che toccarono oltre la Libia, anche la Tunisia, l’Egitto, sul medio termine il Sudan e resero il Qatar il Paese più influente nell’area e persino in Europa. «Se l’America non fosse intervenuta e non avesse assunto il comando dell’intervento internazionale contro il rais libico», racconta Obama nel libro pubblicato nel 2020, «le truppe di Gheddafi avrebbero assediato Bengasi. Nel migliore dei casi, il conflitto si sarebbe prolungato e sarebbe sfociato in una guerra civile vera e propria. Nel peggiore, decine di migliaia di persone, o forse ancora di più, sarebbero morte di fame, avrebbero subito torture o sarebbero state giustiziate. E, in quel momento, almeno, ero l’unica persona al mondo che potesse evitarlo». Inutile dire che le cose sono andate diversamente. Molto diversamente. Cosa sia la Libia è sotto gli occhi di tutti. Instabilità e guerra ancora oggi. L’Egitto dopo essere finito nelle mani della Fratellanza Musulmana ha svoltato bruscamente con l’arrivo di Abdel Fattah al-Sisi. Alla Tunisia è andata diversamente e solo nel 2021 il partito Ennahda, figlioccio della Fratellanza, ha subito un colpo elettorale. Mantiene ancora una forte influenza e, nonostante il presidente Saied si sia smarcato, è una zavorra per i rapporti internazionali e la possibilità di avviare un vero rilancio del Paese. Se torniamo a quegli anni possiamo ricordare senza problemi il ruolo di Al jazeera emittente qatarina in tutti i Paesi vittima delle primavere araba. Ma la filiera dem Usa non si è limitata al disimpegno nel Mediterraneo (con la collaborazione dei francesi che non vedevano l’ora di accoppare politicamente Silvio Berlusconi e i suoi rapporti privilegiati con Gheddafi) ha avviato anche un percorso di disgelo con l’Iran. Il 2014 è stato, infatti, l’anno in cui le trattative sul nucleare a Vienna hanno mostrato i pericoli sottostanti. Obama sostenitore dell’avvicinamento fece qualche piccolo passo indietro solo perché i Repubblicani fecero un buon risultato alle elezioni di Mid term. All’epoca Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, ebbe a scrivere: «Il ricorrente timore palesato dal Grand old party (Gop) è che l’amministrazione Obama sia oltremodo disposta a fidarsi delle dubbie promesse iraniane rischiando così di firmare un bad deal per gli interessi strategici di Washington». Nel medio/lungo periodo, ciò - è la tesi sostenuta - implicherebbe un prezzo troppo alto da pagare a fronte della principale posta in palio dell’accordo: la (già molto precaria) stabilità del Medio Oriente, a sua volta interconnessa con la sicurezza d’Israele. «Le recenti notizie arrivate dall’Iran», scriveva Ispi, «non hanno fatto altro che accrescere i sospetti dei Repubblicani. L’International atomic energy agency (Iaea), agenzia delle Nazioni Unite, ha annunciato che Teheran ha violato alcune clausole dell’accordo provvisorio del 2013 e ha impedito le ispezioni dell’Iaea stessa in alcuni degli impianti nucleari». Proprio la capacità di arricchimento dell’uranio e la tipologia di ispezioni affidate all’agenzia Onu sono stati due tra i punti più complicati delle trattative di quell’anno. In aggiunta a ciò, non era piaciuta alla maggioranza in pectore al Congresso la notizia della lettera segreta inviata da Obama alla Guida Suprema, Ali Khamenei, giunta mentre questi rivolgeva nuove accuse a Israele definendolo un regime «barbarico e infanticida». A undici anni di distanza e dopo l’attacco di Israele ai siti nucleare iraniani la situazione e il modello politico di Obama può finalmente cambiare. Il nuovo patto di Abramo rilanciato da Donald Trump vede i sauditi e i Paesi sunniti puntare al controllo del Medio Oriente. Il Qatar è silenzioso ma non riesce più a influire come prima. L’asse tra Gerusalemme e Riad si sta rivelando molto forte, tanto che in Medio oriente sembra non esserci più nessuno disposto a sostenere gli ayatollah. Russia e Cina stanno a guardare e se lo schema dovesse realizzarsi, sarà anche più facile per i sauditi mettere un piede a Gaza a avere per la prima volta nella storia un porto nel Mediterraneo. Ciò significherebbe la fine dell’onda lunga delle primavere arabe e anche il declino del modello democratico che ha pesato sul Mare nostrum. Attenzione, se i sauditi dovessero raggiungere i loro obiettivi, i repubblicani avrebbero davanti una prateria politica, ma gli effetti si sentirebbero anche in Europa. Le relazioni con il Qatar diventerebbero radioattive e la filiera socialista quella che spingeva Federica Mogherini in Iran riceverebbe una batosta. Infine anche i Paesi del Magreb dovrebbero fare i conti con i nuovi equilibri del Middle East. Il prossimo anno Libia e Tunisia potrebbero essere interessate da importanti novità. Non è facile prevedere quali. Ma una cosa è certa il coagulo sunnita punta a eliminare i tentacoli sciiti e quindi alla stabilità e al business. Chissà se qualcuno chiedere il conto a Barack Obama e ai suoi proseliti di tutti gli errori commessi.