
Gli sponsor dem George Soros e David Rockefeller sostengono i militanti con la kefiah che contestano la Casa Bianca stessa. Un cortocircuito che fa gioco a Donald Trump: «Restituisca quei soldi».È un cortocircuito pesante quello in cui è rimasto invischiato Joe Biden. Secondo una recente inchiesta di Politico, alcuni dei principali finanziatori del Partito democratico hanno foraggiato varie organizzazioni coinvolte nelle aggressive proteste filopalestinesi in corso nei campus americani. Peccato per Biden che tali organizzazioni spesso e volentieri si siano mostrate assai critiche della sua stessa politica mediorientale, tacciandolo di eccessiva vicinanza a Israele. L’inchiesta di Politico si concentra soprattutto su tre finanziatori dem: George Soros, David Rockefeller Jr e Nick Pritzker. Cominciamo col dire che tra i promotori delle proteste figurano Jewish voice for peace e Ifnotnow: due associazioni sostenute dalla Tides foundation, a sua volta sovvenzionata in passato dalla Open society di Soros. «Un altro notevole finanziatore dem, la cui filantropia ha contribuito a sovvenzionare il movimento di protesta, è David Rockefeller Jr, che siede nel consiglio di amministrazione del Rockefeller brothers fund», ha riportato Politico, per poi aggiungere che questo fondo «negli ultimi cinque anni ha donato quasi 500.000 dollari direttamente a Jewish voice for peace, che si descrive esplicitamente come antisionista». Secondo la testata, il Rockefeller brothers fund avrebbe finanziato anche la Tides foundation. Infine, Politico ha rilevato che alcuni dei gruppi coinvolti nelle proteste filopalestinesi sono sovvenzionati dalla Libra foundation, che è guidata da Nick e Susan Pritzker. Ricordiamo che, oltre alle proteste pro Palestina, alcune di queste organizzazioni hanno contestato duramente lo stesso Biden. Basti pensare che tra i partner beneficiari della Libra foundation figura Climate justice alliance: un’associazione che, stando a quanto riferito da Politico, avrebbe partecipato a manifestazioni che accusavano Biden di genocidio. Non solo. Secondo l’Anti defamation league, Jewish voice for peace diffonde «idee provocatorie» che «possono contribuire a dare origine ad antisemitismo». Il presidente americano è quindi in un vicolo cieco. Da una parte, è in vantaggio su Donald Trump in materia di raccolta fondi. Dall’altra, i principali finanziatori dem foraggiano quelle stesse organizzazioni di estrema sinistra che contestano radicalmente la sua politica mediorientale. Il paradosso è evidente, ma il punto è che probabilmente l’inquilino della Casa Bianca sa di non potersi permettere una rottura con questi miliardari. Non a caso Trump ha deciso di mettere il dito nella piaga. «Chiedo ufficialmente a Biden e al Comitato nazionale democratico di restituire le donazioni di tutti gli antisemiti, gli odiatori americani e i finanziatori del caos che hanno finanziato il caos nei nostri campus», ha dichiarato, sabato scorso, il candidato repubblicano durante un comizio in New Jersey. «Restituisci i soldi, Joe», ha aggiunto. Ma non sono solo i repubblicani ad andare all’attacco. Ventisei deputati dem hanno inviato una lettera al presidente, esprimendo preoccupazione per la sua scelta di congelare la consegna di munizioni e di alcune bombe a Israele. Una mossa, questa, che - secondo Axios News - avrebbe irritato anche alcuni grandi finanziatori dello stesso Biden, come il magnate Haim Saban. Dall’altra parte, il presidente deve fare i conti con le comunità arabo-americane che, vicinissime all’estrema sinistra dem, hanno minacciato di boicottargli la ricandidatura a novembre in alcuni Stati chiave, come il Michigan e il Wisconsin, a meno che la Casa Bianca non raffreddi ulteriormente i rapporti con Israele. Tutto questo ha portato Biden ad assumere una linea ondivaga e contraddittoria sia nelle sue relazioni con lo Stato ebraico sia rispetto alle proteste nei campus. Proteste che, per inciso, sono largamente impopolari tra gli americani: secondo un sondaggio della Suffolk university, il 67% dei cittadini d’Oltreatlantico si dice, almeno in qualche misura, preoccupato per queste manifestazioni aggressive. Finora Biden, pur condannandone gli aspetti antisemiti, non ha mostrato un approccio granché severo verso queste proteste (che sono inoltre state elogiate dal regime iraniano). Ma Israele non ha relazioni tese soltanto con l’attuale amministrazione americana. Delle fibrillazioni sono tornate a verificarsi anche con la Santa Sede, dopo che, durante un incontro ospitato in Vaticano dalla Fondazione Fratelli tutti, l’attivista yemenita Karman Tawakkol ha parlato di «genocidio» in riferimento alla crisi di Gaza. In particolare, l’ambasciata israeliana presso la Santa Sede si è detta «indignata e sconvolta» per l’accaduto. Dal canto suo, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha detto al segretario di Stato americano Tony Blinken che le operazioni dell’Idf nella stessa Rafah comportano «gravi rischi per la sicurezza». Benjamin Netanyahu sembra comunque intenzionato ad andare avanti. «Non ci fermeremo finché non avremo portato al crollo del regime terroristico di Hamas», ha detto ieri. Frattanto sembra essersi registrata una piccola svolta diplomatica: secondo Middle East Eye, Israele starebbe rimandando i propri diplomatici in Turchia, dopo averli ritirati a ottobre per motivi di sicurezza. Le relazioni tra Gerusalemme e Ankara restano comunque piuttosto tese a causa della crisi di Gaza. Giusto ieri, durante un incontro con il premier greco, Kyriakos Mitsotakis, Recep Tayyip Erdogan ha riferito che un migliaio di miliziani di Hamas stanno ricevendo cure in ospedali turchi, definendo inoltre l’organizzazione terroristica un «movimento di resistenza».
Leone XIV (Ansa)
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