2021-07-09
Stadio, pronostico e capi della Uefa L’Italia ha il vantaggio di avere tutto contro
La bolgia di Wembley e il «debito» di Ceferin con Johnson per la Superlega. Missione impossibile? Meglio, non c'è paura. «Nella sala si susseguivano voci incontrollate e pazzesche: si diceva che a Wembley l'Italia stesse vincendo per 20-0 e che avesse segnato anche Zoff su calcio d'angolo», ricorda il ragioner Fantozzi in uno dei precedenti Italia-Inghilterra rimasti nell'immaginario collettivo - benché disputato soltanto nella fantasia letteraria di Paolo Villaggio - a testimonianza di quanto la perfida Albione sia per noi avversario tignoso e temuto. E non sono necessarie nemmeno le iperboli per rendersi conto che domenica sera con gli inglesi non sarà solo una partita di calcio, ma una disfida tellurica in cui gli azzurri, prima di vedersela con gli avversari, dovranno districarsi tra mille circostanze avverse, avendo dunque niente da perdere, e forse molto da guadagnare. Un fatto è certo: la squadra di Roberto Mancini sarà pellegrina in terra ostile. Lo stadio (previsti 60.000 spettatori, la stragrande maggioranza dei quali con la croce di San Giorgio cucita sulle magliette) sarà una polveriera, dalla regina all'ultimo venditore di fish and chips dei sobborghi di Londra tiferanno per i beniamini di casa, e gli specialisti in dietrologia potranno sbizzarrirsi fino al calcio d'inizio. Già il rigore dubbio assegnato agli inglesi nella semifinale con la Danimarca ha scatenato polemiche e rievocato movimenti diplomatici del recente passato. Prima tra tutti, l'alleanza tra Boris Johnson e Aleksander Ceferin. Fu proprio Johnson, circa un mese e mezzo fa, a fiancheggiare il plenipotenziario Uefa nel dare una spallata al progetto della Superlega, caldeggiato dalle più influenti società spagnole e dalla Juventus, con l'appoggio di Inter e Milan. Il premier britannico si attivò con i club anglosassoni coinvolti nell'operazione volta a creare un super campionato europeo per poche squadre blasonate, convincendoli a desistere, guadagnandosi parole al miele da parte di Ceferin, imbufalito con le squadre ribelli, collocate tutte a sud della Manica. Di recente ci ha pure messo lo zampino Mario Draghi: il presidente del Consiglio italiano, a fine giugno, aveva ventilato l'ipotesi di spostare la finale di Euro 2020 da Wembley a un altro stadio, magari l'Olimpico di Roma, complice la risalita dei contagi da variante Delta del Covid in area britannica. «Ho intenzione di adoperarmi perché la finale non si faccia in un paese dove i contagi stanno crescendo rapidamente», aveva detto Draghi. Sgarro che forse si saranno legati al dito a Downing Street e dintorni. Insomma, se la finale degli Europei fosse davvero una tenzone bellica, la brigata italiana si ritroverebbe circondata su più fronti e tagliata fuori da vettovaglie e rifornimenti. Poi ci sono le questioni di campo. La compagine allenata da Gareth Southgate è cresciuta partita dopo partita, macinando gioco, svolgendo l'ordinaria amministrazione negli ottavi contro una Germania addormentata, ma rifilando quattro pappine nei quarti di finale alla pimpante Ucraina di Shevchenko. In più, ha incassato un solo gol fino a oggi, quello in semifinale con la Danimarca (per di più su punizione), a riprova di una solidità già sfoderata ai Mondiali 2018, quelli in cui l'Italia non era nemmeno riuscita a qualificarsi e in cui l'Inghilterra approdò in semifinale. La mina vagante si chiama Raheem Sterling. Classe 1994 con baricentro basso e quadricipiti esplosivi, è un esterno d'attacco adattabile su ambo i lati della formazione, capace di svariare sulla trequarti o a ridosso della prima punta. Se si ritrova il pallone tra i piedi e inizia una cavalcata, fermarlo diventa un'impresa, occorre raddoppiare e sperare nella Provvidenza, che in Italia ha in Giorgio Chiellini un suo illustre rappresentante terreno. Per far capire meglio la portata dell'atleta: il picco di velocità raggiunto da Sterling in un match si aggira sui 35 chilometri orari. Davanti poi c'è Harry Kane. La punta del Tottenham, apparsa legnosa durante il girone preliminare, si è sbloccata quando le sfide sono diventate a eliminazione diretta, rivelandosi per ciò che è: un centravanti in grado di capitalizzare gli spunti concedendo poca tregua. Non scordando, si diceva, una difesa difficile da penetrare e una panchina - con Rashford, Trippier, Foden, Grealish - che offre parecchie alternative. Ma questa situazione è forse l'ideale per gli azzurri. La peculiarità italiana, come sottolineato anche da Luca Toni in un'intervista alla Verità, è quella di saper risorgere nei momenti bui, adottando come proprie armi quelle disgrazie che fino a un secondo prima riteneva aliene e sovvertitrici. Era accaduto nei Mondiali di Germania 2006, vinti dopo lo scandalo Calciopoli, superando in semifinale i padroni di casa nello stadio di Dortmund, con tutto il pubblico contro. Sta accadendo adesso, con una Nazionale ricostruita pezzo per pezzo, rimettendo assieme i cocci del disastro della gestione di Gianpiero Ventura. Aver superato con discreta scioltezza il Belgio nei quarti di finale ha già certificato la completa rinascita della fenice tricolore, la vittoria sulla Spagna ne ha poi cementato l'ambizione, dimostrando come si possa vincere facendo della leggerezza di non aver nulla da perdere un privilegio stilistico. Dicendola tutta: se ci fosse capitata in finale la Danimarca, la faccenda sarebbe stata differente, la responsabilità di imporsi su un contendente inferiore per tecnica e per storia avrebbe forse innescato quella che i tennisti chiamano sindrome del braccino. In questo caso no. La pressione, il dover vincere a tutti i costi davanti ai propri sostenitori, la necessità di assecondare il motto football's coming home («Il calcio sta tornando a casa», grido di battaglia dei tifosi d'oltremanica che si sentono inventori dello sport del pallone, ma un Europeo non l'hanno mai vinto) sono tutte incombenze in capo ai nostri rivali.