2020-06-25
Fiducia alla Camera, Senato ignorato. Il dl Rilancio umilia il Parlamento
Impossibile discutere i 300 emendamenti (molti di maggioranza). I deputati di Pd, M5s, Leu e Iv si litigano un fondo da 800 milioni a fronte di proposte di spesa per 40 miliardi. A Palazzo Madama testo «blindato».L'ex «decreto aprile» sarà convertito in luglio. Il rinvio di ieri, inevitabile conseguenza del contrasto in seno alla maggioranza sul passaggio del testo in commissione Bilancio alla Camera, ha infatti due conseguenze.La prima è il ricorso alla fiducia a Montecitorio, unico modo - non certo indolore - per chiudere in tempo il vaglio di un numero mostruoso di emendamenti. Non indolore, perché la maggior parte di quelli che saranno sacrificati sono intestati a deputati di maggioranza.La seconda è che, comunque, il passaggio in Senato - dove i numeri di sinistra e grillini sono sempre più risicati a causa delle uscite dal gruppo del M5s - dovrà essere altrettanto rapida per evitare l'onta inammissibile di una decadenza del decreto, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17 maggio scorso. Ieri infatti è stata anche confermata l'indiscrezione, semplicemente desumibile dal calendario, che il testo non farà tre letture, ma arriverà «blindato» al Senato, dove dovrà con ogni probabilità essere sottoposto a un altro voto di fiducia per evitare sorprese. In pratica, la stessa sorte - a Camere invertite - che era toccata alla manovra per l'anno in corso approvata sul filo di lana a dicembre 2019. Allora fu Montecitorio a fare da «passacarte» sulla cosiddetta Finanziaria, la settimana prossima toccherà a Palazzo Madama pigiare i bottoni senza poter mettere mano a un decreto monstre di 256 articoli (record assoluto), che ieri gli osservatori definivano correttamente «maxi manovra di primavera». Il testo approderà in Aula a Montecitorio non prima di giovedì prossimo, e sarà dunque modificato solo in questo primo passaggio parlamentare.In effetti, il problema principale non è tanto la lentezza dell'Aula, quanto il mix tra la lentezza incredibile del governo nel licenziare il «decreto aprile» - poi costretto al cambio di nome per evidenti ragioni - e la pervicace volontà di caricarlo di una serie di norme obiettivamente poco cogenti in un veicolo legislativo d'urgenza, a maggior ragione nella piena emergenza della crisi Covid. Il risultato è stato da un lato ritardare interventi più rapidi che gli altri Paesi hanno messo in campo con più velocità (malgrado siano stati colpiti più tardi rispetto a noi); dall'altro di estromettere quasi totalmente le due Camere da significativi interventi sul testo medesimo. Motivo per cui la «piena disponibilità» alla collaborazione declamata ieri sera in audizione dal ministro Gualtieri suona un po' paradossale.È su questo frangente che si misurano i rischi politici per la tenuta del governo, ma in fondo di tutto il sistema democratico della rappresentanza. Per dare un'idea del peso e delle conseguenze delle scelte fatte in questi mesi, mentre il governo incontrava varie personalità della vita socioeconomica del Paese a Villa Pamphili, i parlamentari di maggioranza (e non) preparavano tonnellate di emendamenti al dl Rilancio da convertire. La tradizionale scrematura in commissione Bilancio alla Camera ha accantonato circa 300 proposte di modifica, quasi tutte provenienti da Pd, M5s, Leu e Italia viva. Il testo del decreto assegna una capienza di circa 800 milioni al cosiddetto Fispe (Fondo per gli interventi strutturali di programmazione economica): una sorta di «salvadanaio» cui attingere per finanziare proprio tali emendamenti. In condizioni normali, tale fondo serve a soddisfare le richieste di maggioranza e opposizione, in parti ovviamente proporzionate al peso politico. Il computo complessivo delle necessità di finanziamento dei soli emendamenti della maggioranza ammonta, secondo fonti vicine alla materia consultate dalla Verità, a circa 40 miliardi. Significa che il 98% degli interventi chiesti, nel complesso, dalle forze di maggioranza sono destinate a essere vanificate dalla tagliola imposta dai tempi. Non è un caso se ieri la discussione in Commissione bilancio è stata agitata fin dal mattino, e non è andata meglio in serata, quando l'audizione del ministro Gualtieri stesso è stata sospesa tre volte per forti contestazioni a lui rivolte. Al di là delle intemperanze dell'opposizione, che ha ripetutamente impedito al titolare del Mef di parlare, quel che in prospettiva deve preoccupare di più è la pressione cui viene sottoposta la rappresentanza parlamentare in un frangente inedito nella storia della Repubblica.È difficile aspettarsi sorprese dal voto di fiducia sul dl Rilancio, perché non è interesse di nessuno non approvare quel testo, il cui decadimento avrebbe conseguenze gravissime di cui nessuno può intestarsi la responsabilità. Ma con l'auspicabile conclusione dell'emergenza sanitaria, che i dati sembrano ogni giorno confermare, quanto è possibile proseguire in una situazione politica simile, in cui di fatto il Parlamento è quasi inattivo da mesi sul pacchetto di interventi più importanti per contrastare il disastro economico causato dalla pandemia? Un parlamentare di maggioranza, soprattutto del M5s (che non ha il Mef), può davvero pensare che il suo ruolo sia di approvare decreti, rischiando che venga assegnati al Tesoro il potere di riallocare qualsiasi capitolo di spesa (vedi pezzo a fianco) su cui, comunque, non ha potuto mettere becco? Può farlo, per di più, sostenendo un esecutivo nato rivendicando nella infuocata crisi dell'agosto 2019 le prerogative di una Repubblica parlamentare? Non è una questione formale. Secondo il Fmi, le cui stime vanno prese con le molle, l'Italia chiuderà il 2020 con il peggior calo del Pil al mondo: -12,8% assieme alla Spagna (Area euro -10,2%, Usa - 8%).