2022-09-16
Federer dice basta. Da oggi il tennis ha un mito in più
L’annuncio: la Laver Cup sarà l’ultimo torneo. Più che per trofei lo svizzero resterà inarrivabile per la magia messa nel gioco. «Riassume in sé l’essenza stessa del tennis». Quando Gianni Clerici parlava di Roger Federer non andava oltre, metteva il punto. Gesti bianchi, la perfezione, il resto è circo. Lo Scriba nutriva un’ammirazione assoluta per il fuoriclasse svizzero: la sua eleganza che mitigava la devastante potenza, la genialità dei colpi, la sensibilità del tocco, il serve and volley (quando serve), vale a dire qualcosa di sconosciuto per il gruppone di racchettari da mille all’ora che oltre la linea di ricezione del servizio si trovano in una terra incognita. «Sarebbe stato il numero uno anche giocando a curling», scherzava. Il numero uno di tutto ha detto basta.Lo ha fatto a modo suo, con la discrezione di una lettera ai tifosi e una dichiarazione registrata su Instagram. Lo ha fatto come se uscire dal campo per entrare nella leggenda fosse più facile di un passante di rovescio. Lo ha fatto a 41 anni, sazio di trionfi, di trasferte transoceaniche e di infiltrazioni alle ginocchia. La Laver Cup di Londra la prossima settimana sarà il suo ultimo valzer, «poi per essere felice mi basteranno le cose di famiglia, le piccole conquiste di mio figlio, i buoni voti di mia figlia». Il ragazzone di Basilea, pargolo di un manager svizzero e di una signora sudafricana, si affacciò su un campo da tennis con la fascetta da Bjorn Borg a fine secolo, se ne va 24 anni dopo spingendo un forziere intero con le ruote: 20 titoli del Grande Slam, otto Wimbledon (record), sei Australian Open, cinque Us Open, un Roland Garros. Maledetta terra rossa, più favorevole ai bombardieri come Rafael Nadal.Ha vinto 103 tornei del circuito, ha guadagnato 130 milioni di dollari in soli montepremi e ha battuto un record pazzesco: nel 2014 ha fatto alzare alla Svizzera la Coppa Davis. Sempre vestito di bianco come piace ai puristi, lontano dalle tentazioni di fricchettoni e finti alternativi in cerca d’autore, misurato nelle dichiarazioni come se avesse sempre davanti la duchessa di Kent. Federer, «the swiss maestro», torna a casa, a Wollerau nel Canton Svitto (fra Zurigo e il lago dei Quattro cantoni) ad aiutare Mirka a crescere i quattro eredi e a preparare agli amici la carbonara che gli ha insegnato Francesco Totti. L’ultimo passo verso l’uscita lo racconta così. «Devo riconoscere che è arrivato il momento di mettere fine alla mia carriera. Come sapete, gli ultimi tre anni mi hanno presentato delle sfide sotto forma di infortuni e operazioni. Ho lavorato tanto per ritornare a una forma completamente competitiva, ma conosco anche le capacità e i limiti del mio fisico: il suo messaggio è chiaro. Ho 41 anni. Ho giocato più di 1.500 partite in 24 anni. Il tennis mi ha trattato più generosamente di quanto io potessi immaginare, ma ora è arrivato il momento di capire di dire basta e terminare la mia carriera da professionista». Poi arriva la riflessione di cuore, il passaggio emozionale, la consapevolezza di dover vivere un’altra vita. «Tra i tanti regali che il tennis mi ha fatto il più grande, senza dubbio, è avermi permesso di conoscere tante persone lungo la via. I miei amici, i miei avversari e, ancor più importante, i miei tifosi. Vedere la mia famiglia fare il tifo per me è una sensazione che porterò con me sempre. Quella di ritirarmi è stata una decisione agrodolce, so che mi mancherà tutto quello che il circuito mi ha dato in questi anni». È impossibile sintetizzare Federer. Bisognerebbe essere autenticamente impressionisti e fissare momenti sospesi. Eccone quattro. Il primo riguarda quel colpo fra le gambe, in recupero, che fa milionate di clic su YouTube. Ebbene, prima di lui i pro meno attrezzati lo tentavano solo in allenamento, spesso con lividi alle tibie. Gli altri sono altrettante sfide epocali. Il 2 luglio 2001 è quello del passaggio di testimone sull’erba di Wimbledon, il confronto generazionale agli ottavi di finale: Pete Sampras non perde da cinque anni quando si trova di fronte il putto elvetico con i capelli lunghi e le movenze feline. L’americano si arrende in cinque set e in conferenza stampa dice: «Ho conosciuto tanti giovani di talento ma questo è speciale». Un nuovo re del tennis sta nascendo. Nel 2011 al Roland Garros Federer si sporca la divisa, sudore e sangue per conquistare Parigi per la prima e unica volta, contro l’avversario più difficile: Nole Djokovic in versione carroarmato. Quattro set perfetti con inchino finale. Ma la partita della vita è l’ultima a Melbourne del 2017, lui già maturo (35 anni), Nadal in pieno sabba agonistico. È il match di culto, quello del monarca quasi al tramonto che resiste e ribadisce il primato non contro un avversario fortissimo, ma contro sua maestà il Tempo. Alla fine i media paragonano l’impresa al terzo mondiale vinto da Pelè, al Tour de France di Gino Bartali nel 1948, al canestro di Michael Jordan sulla sirena nella finale Nba contro gli Utah Jazz. Federer è sempre stato avaro di parole ma una frase l’ha ripetuta spesso: «Il tennis è uno sport speciale. Ecco perché spesso ti ritrovi a parlare con te stesso». Qualche volta anche a urlare, a spaccare le racchette, a uscire dal corpo per entrare in una dimensione onirica. Sembra impossibile ma da junior (esattamente come Borg) ha dato di matto pure lui: «I miei genitori impazzivano e mi dissero che se avessi continuato non avrebbero più viaggiato con me». Papà Robert lo voleva diplomato, poi laureato. E queste costose divagazioni con la racchetta gli piacevano poco. «A 16 anni chiesi ai miei di poter lasciare la scuola per concentrarmi sul tennis. Mio padre mi concesse tre anni: se non va bene torni dritto in classe. Non ne poteva più di sganciare 30.000 franchi all’anno per mantenere i miei sogni». Poco male, è tornato indietro tutto con gli interessi. Senza Federer è un tennis meno elegante, meno fantasioso, dominato da pallettari supersonici o da spostati di talento. Di sicuro, vedendo giocare lui, un Carlos Alcaraz ha deciso di affinare non solo il servizio, ma anche la volée. E la rete non è più una sconosciuta. «La vita non è altro che volontà di potenza», affermava un signore che due secoli fa si fermò a scrivere a Lanzerheide, proprio vicino al cottage invernale di Re Roger. Un distruttore di mondi gentile e ben vestito, Friedrich Nietzsche. Un altro che andava dritto per dritto.