2023-04-22
Fare figli è più facile se si lasciano aperti i piccoli punti nascita
Avanza l’idea di rivedere la soglia di 500 parti l’anno, al di sotto della quale una struttura va chiusa. Ma alcuni medici dicono no.A Macerata, insieme ai collettivi di sinistra, le femministe hanno fatto slittare il convegno pro life.Lo speciale contiene due articoli.Tra i disincentivi alla natalità da eliminare, di cui parla il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, dovrebbero esserci anche gli obblighi di 500 parti l’anno per tenere aperto un punto nascita. Altrimenti vengono chiusi, come è capitato e sta accadendo in diverse Regioni italiane, costringendo le future mamme compiere lunghi tragitti per dare alla luce il loro piccolo all’interno di una struttura ospedaliera.A Sant’Anna di Castelnovo Monti, l’unico ospedale presente in tutto il comprensorio dell’Appennino reggiano, il punto nascita è chiuso dal 2017. Eppure, nel 2020, durante la campagna elettorale regionale, il governatore Stefano Bonaccini promise che l’avrebbe riaperto; a marzo 2021 definì «un errore» chiuderlo, ma il centro aprirà (forse) non prima del 2026.Un mese fa, addirittura, la direttrice dell’Ausl di Reggio, Cristina Marchesi, ha sostenuto che i servizi «andrebbero ristrutturati in base alle esigenze attuali e del futuro, non a quelle di ieri. Quindi, investire in ottica di una popolazione sempre più anziana e non per i neonati che non ci sono». Parole che hanno sorpreso e fatto indignare il sindaco di Castelnovo Monti, Enrico Bini. «Deve essere la presenza e il mantenimento dei servizi a incidere sul calo dei residenti in montagna, sulla necessità di avere famiglie che scelgano di vivere qui e le conseguenze di crescita sugli indici di natalità del territorio», è stato il suo commento. «Se ci abbandonassimo al ragionamento inverso, dovremmo mantenere sul territorio solo case di riposo e strutture per anziani, non più scuole, strutture sportive e servizi per i giovani».Intanto, da quando il punto nascita è stato chiuso, non poche mamme sono state costrette a partorire in ambulanza durante il viaggio dall’Appennino a Reggio. E non si può far nascere il proprio figlio ad Alto Reno Terme (Bologna), Pavullo nel Frignano (Modena), Castelnuovo ne’ Monti (Reggio Emilia), Borgo Val di Taro (Parma), perché i centri sono stati chiusi nel 2017.La Campania, ha chiesto l’apertura in deroga dei punti nascita negli ospedali di Polla, Sapri, Piedimonte Matese e Sessa Aurunca ma secondo il presidente della Regione, Vincenzo De Luca, il governo continua a dare parere negativo. «Non è vero che ha presentato una richiesta di deroga ben motivata», ha obiettato il senatore di Fdi Antonio Iannone, imputando al governatore scarsa attenzione per la questione. Il gruppo Cittadini attivi provincia di Salerno, già a novembre 2018, aveva scritto al governatore De Luca e all’allora ministro della Salute, Giulia Grillo, facendo presente che, chiudendo questi centri, «il tempo di percorrenza medio dal Vallo di Diano verso il più vicino punto nascita di Battipaglia, in condizioni ottimali, è di oltre 70 minuti, mentre verso il punto nascita del Dea di riferimento di Vallo della Lucania è di oltre 90, senza considerare i problemi legati alla viabilità, al traffico ed alle avverse condizioni climatiche».Anche per gli altri, si andava dai 70 ai 90 minuti di tragitto senza contare, sottolineavano, che «la chiusura del punto nascita di Polla è in contraddizione con l’individuazione del Vallo di Diano quale “Area pilota per la strategia delle aree interne”, al fine di riorganizzare i servizi offerti ai cittadini, a partire dai servizi per la salute, attraverso modelli di gestione efficaci e coerenti con le esigenze del territorio». Sempre in Campania, dall’1 gennaio 2016 rimane chiusa l’unità di ginecologia e ostetricia presso l’ospedale Santa Maria dell’Olmo.Tra la fine del 2017 e il 2018 l’assessorato alla Sanità della Lombardia ha detto stop ai punti nascita dell’Istituto clinico Beato Matteo di Pavia e dell’Istituto clinico Città di Brescia, di Oglio Po, Piario, Chiavenna e Angera. In Toscana, dallo scorso giugno non è più attivo il reparto maternità dell’ospedale Cosma e Damiano di Pescia, la principale struttura sanitaria della Valdinievole. Pensate, si erano registrate 459 nascite, appena 41 in meno rispetto alla soglia di 500 che per legge sono la quota minima a giustificare l’esistenza di un punto nascita.Nel 2014, i punti nascita in Italia erano 513; 467 nel 2016, calati poi a 397 nel 2018; nel 2021 erano 364. Diminuiscono le nascite, ma le necessità delle partorienti non cambiano come ha evidenziato Imma Vietri di Fdi, prima firmataria della proposta presentata in commissione Affari sociali della Camera e approvata nei giorni scorsi all’unanimità. Una risoluzione che chiede di aumentare e tutelare la distribuzione dei punti nascita, anche nelle strutture ospedaliere dove si effettuano meno di 500 parti l’anno, «dato totalmente inappropriato, soprattutto alla luce della crisi demografica in Italia», ha sottolineato il deputato, così da non mettere a rischio la salute e la vita di partorienti e figli.Una scelta possibile, basta «valutare nuovi protocolli di sicurezza volti a garantire elevati standard operativi, tecnologici e di sicurezza», chiede la risoluzione approvata. Ora tocca al governo, aggiornare gli standard. «I punti nascita devono restare aperti. Sono importantissimi per accogliere e valutare le donne che aspettano un bambino e avviare il percorso individuale più idoneo per loro e i figli che aspettano, sia durante la gravidanza sia al momento del parto», ha detto di recente Roberto Zagni, già primario al San Leopoldo Mandic di Merate, sostenendo che «i parametri sul numero minimo di parti in un anno per tenere aperto un punto nascita vanno rivisti».Curiosamente, invece, a marzo gli esperti delle associazioni di ginecologia e anestesia in audizione alla Camera, hanno ribadito che, per garantire standard di sicurezza a madre e bambino, «i punti nascita devono essere di almeno 1.000 parti all’anno e mai meno di 500». Forse, invece, servono solo buone strutture funzionanti, con personale formato e motivato. Si contano i parti, per valutare l’idoneità di un punto nascita e poi si reputa un ospedale di comunità con dieci posti letto più importante di una scuola con 90 bambini. Accade a Napoli, dove i piccoli dovranno fare fagotto dopo che sono stati appena spesi 300.000 euro per ammodernare edificio e palestra.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/fare-figli-aperti-punti-nascita-2659893845.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="che-pena-le-femministe-che-occupano-il-salone-dove-si-parla-soltanto-di-vita" data-post-id="2659893845" data-published-at="1682102407" data-use-pagination="False"> Che pena le femministe che occupano il salone dove si parla soltanto di vita Mobilitazione e proteste abortiste dovevano essere e mobilitazione e proteste abortiste sono state. Tanto che la prima delle due giornate di «Maternità in-attesa: preservare la salute della donna in gravidanza» - in programma, ieri presso la biblioteca statale che si trova nella facoltà di Filosofia, in via Garibaldi 20, a Macerata, non si è potuta tenere; non secondo la scaletta prevista, almeno. A farlo sapere, con una nota diffusa ieri pomeriggio, è stata Francesca Romana Poleggi, membro del direttivo di Pro vita & famiglia, associazione promotrice dell’evento insieme alla Regione Marche, al Centro di aiuto alla vita di Loreto, alla Federazione consultori familiari di ispirazione cristiana regione Marche e all’Opa - Osservatorio permanente sull’aborto. «Decine di femministe hanno occupato la biblioteca», ha spiegato Poleggi, «hanno urlato a chiunque si avvicinasse al tavolo dei relatori per parlare ai microfoni. In più, hanno affisso volantini e striscioni contro il convegno e con espliciti riferimenti sessuali e occupato quasi tutte le sedie della sala». Il collettivo studentesco Depangher ha così rivendicato la protesta sulla sua pagina Facebook, «x» compresa: «All’arrivo dei Pro vita in università l’aula era già piena di studentx, ed era stata trasformata in uno spazio femminista. Una contestazione partecipata, colorata e durata circa un’ora che ha costretto i relatori a ritardare l’incontro, tra fischi, cori, coriandoli e slogan che rivendicavano il diritto ad un aborto libero e sicuro». Nella biblioteca sono effettivamente comparsi, come provano numerose foto, striscioni con scritte come «Sul mio corpo decido io» e «Nella nostra università nessun credito». Queste ultime parole rispecchiano la rabbia per il fatto che la partecipazione all’evento - ieri, è il caso di dirlo, quasi abortito -, prevedesse la possibilità, di cui ha scritto anche su L’Espresso Simone Alliva in un pezzo eloquente fin dal titolo («Lo strano caso degli antiabortisti che regalano crediti ai medici nelle Marche») di raccogliere crediti formativi per infermieri, farmacisti, medici, ostetriche e psicologi. Depangher aveva, inoltre, fatto sapere come, diversamente da quanto programmato, fossero stati negati alla due giorni sia una sala sia il patrocinio dell’università. L’Università di Macerata ha, però, inviato una nota di rettifica, per spiegare da una parte come, in realtà, non avesse «mai concesso il patrocinio all’iniziativa» e, dall’altra, che «non è stato mai contemplato il rilascio di crediti formativi». Peccato che nonostante ciò - e benché i lavori della giornata di ieri fossero stati previsti, per citare ancora l’ateneo marchigiano, «non negli spazi dell’ateneo, ma in quelli della biblioteca statale, istituzione indipendente» - essi non si siano potuti tenere nei termini previsti, a causa delle dure proteste organizzate. E pensare che la giornata non aveva alcuna finalità di critica alla facoltà di abortire per la donna. «Il nostro scopo è difendere il diritto alla salute delle donne e il loro diritto anche a non abortire», ha sottolineato sempre Poleggi,aggiungendo: «Ma loro lo volevano impedire. È questa la libertà che professano? Sono questi i diritti e la democrazia di cui si ergono a paladine? Soltanto l’intervento della Digos ha permesso, seppur in estremo ritardo, l’avvio del convegno». Che, quindi, ha avuto svolgimento anche se non prima che le femministe rovesciassero sulle sedie coriandoli e volantini e che alcuni partecipanti all’evento, comprensibilmente spaventati, decidessero di andarsene. Una esemplare lezione di buona educazione e di democrazia, dunque, quella dei collettivi e delle femministe.
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)