Le nuove norme fanno lievitare le spese per le certificazioni dei dispositivi medici a carico delle imprese. Che non possono scaricare i costi sulle Asl e rischiano di dover abbandonare i mercati europei. Da qui al 2024 potrebbero mancare 23.000 tipi di strumenti.Cosa c’entra il marchio Ce, ovvero il bollino che troverete sul giocattolo da comprare al nipotino per Natale e che ne comprova la conformità alle normative europee, con una protesi per l’anca? Un pacemaker? Un aggeggio che misura i livelli di glucosio nel sangue? Semplice: anche i dispositivi medici hanno bisogno di essere certificati. Esattamente come la tastiera del vostro computer. Come la sigaretta elettronica che state fumando mentre leggete il giornale. Come l’alberello luminoso che avete piazzato in salotto. Il guaio è che, per colpa dell’approccio oltranzista della Commissione Ue, di quelle apparecchiature a uso sanitario, presto, potrebbe esserci una preoccupante penuria. Ecco perché.A maggio 2021 e, successivamente, a maggio 2022, sono entrati in vigore due regolamenti (745 e 746) che hanno reso più stringenti i requisiti di qualità e sicurezza dei prodotti a uso sanitario. Fin qui, nulla di strano. L’esigenza di alzare l’asticella era stata avvertita già dal 2010, dopo lo scandalo delle protesi Pip: le mammelle al silicone, fabbricate da un’azienda francese con un gel scadente e impiantate a mezzo milione di donne nel mondo. Il diavolo si nasconde nei dettagli: ottenere una certificazione, ora, è diventato parecchio più difficile. Non solo perché vanno raccolte più evidenze cliniche, ma pure per ragioni burocratiche. Lo spiega alla Verità Fernanda Gellona, direttore generale di Confindustria dispositivi medici: «È stato ridotto il numero di organismi notificati», cioè gli enti che si occupavano dei controlli sui materiali candidati alle licenze. «Da un lato è stato giusto, perché prima erano troppi e non tutti all’altezza del compito». Solo che, adesso, si sta creando un collo di bottiglia: i «vigilanti» sono di meno; durante i lockdown, giocoforza, sono state interrotte le ispezioni; nel frattempo, le certificazioni in scadenza, circa 1.400 nel solo 2022, dovevano essere replicate seguendo l’iter modificato, inflessibile; e poi ci sono quelle nuove. Il timore è che, di qui al 2024, vengano a mancare la bellezza di 23.000 dispositivi. «Tra regole più severe e il rischio moria che si sta generando», conclude Gellona, «si poteva trovare una via di mezzo…».D’altra parte, come ha denunciato Reuters l’altro giorno, all’estero già si vedono imprese pronte ad abbandonare i mercati europei. L’agenzia stampa ne ha contattate otto e alcune di esse sottolineano che i loro dispositivi sono essenziali per gli ospedali. Cosa succederebbe se, nell’arco di pochi mesi, finissero le anche di titanio, o scarseggiassero i piccoli dispositivi elettrici che servono a supportare i pazienti bradicardici? Il problema è che, addentrandosi nella trafila per conquistare il marchio Ce, i costi, per le imprese, lievitano. John O’Dea, dirigente di un’industria irlandese, ha calcolato che, per uno strumento di laparoscopia addominale e pelvica, la procedura passerà dai vecchi 15.000 a 100.000 euro. L’esempio, proposto da Reuters, forse è un po’ estremo: molto dipende dalla tipologia di prodotto. Comunque, le ditte italiane sanno che gli oneri non potranno essere scaricati sugli acquirenti finali: le Asl hanno un budget di spesa e acquistano con gare pubbliche. Ad assottigliarsi sarà il margine di profitto dei privati, quindi la solidità dei bilanci, in una fase in cui l’inflazione energetica e delle materie prime colpisce duro. Un danno enorme a un settore che vale 16,7 miliardi di euro, per 4.323 imprese, di cui 2.523 dedicate alla produzione, con 94.153 dipendenti. Di tutto ciò, a Ursula von der Leyen & c., sembra interessare poco. È il metodo maoista dell’esecutivo europeo: si decide un obiettivo, lo si persegue a qualsiasi prezzo - il prezzo, tanto, lo pagano sempre gli altri.Ritorna in scena il copione recitato quando si è trattato di imporre l’agenda green: norme irragionevoli destinate all’automotive, che non salveranno l’ambiente e intanto falcidieranno migliaia di posti di lavoro. Regalando un vantaggio competitivo ai concorrenti extra Ue. Per il caso dei dispositivi medici, anzitutto americani e cinesi: il loro business, nei rispettivi mercati interni e in quelli internazionali, meno ingessati, continuerà a crescere. E l’asimmetria produrrà un ulteriore paradosso: «Le precedenti direttive avevano individuato un buon compromesso tra rigore e regole snelle», ricorda infatti l’esponente di Confindustria. «Tant’è che molte innovazioni arrivavano prima in Europa che in America. Le direttive andavano riviste; ma ormai, l’inasprimento consentirà alla Food and drug administration di ingaggiare prima di noi le aziende innovative».L’impatto della riforma si poteva evitare? O almeno mitigare? Certo. Adottando lo stesso principio di buon senso che avrebbe dovuto suggerire a Bruxelles di ritardare, ben oltre il 2035, il pensionamento dei motori a combustione: bastava far slittare ancora l’applicazione del regolamento. Il 475 sarebbe dovuto entrare in vigore nel 2020 ed è stato rinviato all’anno seguente. Quando il coronavirus, a ogni modo, ancora mordeva. La Commissione non ha voluto sentire altre ragioni. Ma nel frattempo, come ci ha segnalato Gellona, non si è nemmeno premurata di completare l’infrastruttura digitale per la banca dati Eudamed, dove i produttori dovrebbero inserire le informazioni utili alla tracciabilità dei prodotti. Le aziende sono tenute a farlo, eppure la piattaforma non è pienamente operativa. Una contraddizione di marca kafkiana, rappresentazione plastica di come (non) funzioni l’Euromoloch.Qualcuno confida che, a correggere il fondamentalismo dell’Unione, intervengano gli Stati membri. Qualcun altro obietterà: quando c’è di mezzo la salute, quella di essere esigenti è un’ottima decisione. Sì. Ma un conto è la sicurezza, un conto è l’autolesionismo. Un conto è mettere in commercio una stampella o una macchina per le analisi del sangue efficienti, un conto è correre il pericolo di non averle per niente. Suvvia: che storia racconteremmo, oggi, se l’Europa fosse stata altrettanto rigida sui vaccini anti Covid? Com’è? A Bruxelles, il rigore circola a targhe alterne?
Massimo Doris (Imagoeconomica)
Secondo la sinistra, Tajani sarebbe contrario alla tassa sulle banche perché Fininvest detiene il 30% del capitale della società. Ma Doris attacca: «Le critiche? Ridicole». Intanto l’utile netto cresce dell’8% nei primi nove mesi, si va verso un 2025 da record.
Nessun cortocircuito tra Forza Italia e Banca Mediolanum a proposito della tassa sugli extraprofitti. Massimo Doris, amministratore delegato del gruppo, coglie l’occasione dei conti al 30 settembre per fare chiarezza. «Le critiche sono ridicole», dice, parlando più ai mercati che alla politica. Seguendo l’esempio del padre Ennio si tiene lontano dal teatrino romano. Spiega: «L’anno scorso abbiamo pagato circa 740 milioni di dividendi complessivi, e Fininvest ha portato a casa quasi 240 milioni. Forza Italia terrebbe in piedi la polemica solo per evitare che la famiglia Berlusconi incassi qualche milione in meno? Ho qualche dubbio».
Giovanni Pitruzzella (Ansa)
Il giudice della Consulta Giovanni Pitruzzella: «Non c’è un popolo europeo: la politica democratica resta ancorata alla dimensione nazionale. L’Unione deve prendere sul serio i problemi urgenti, anche quando urtano il pensiero dominante».
Due anni fa il professor Giovanni Pitruzzella, già presidente dell’Autorià garante della concorrenza e del mercato e membro della Corte di giustizia dell’Unione europea, è stato designato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica. Ha accettato questo lungo colloquio con La Verità a margine di una lezione tenuta al convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, dal titolo «Il problema della democrazia europea».
Ansa
Maurizio Marrone, assessore alla casa della Regione Piemonte in quota Fdi, ricorda che esiste una legge a tutela degli italiani nei bandi. Ma Avs la vuole disapplicare.
In Italia non è possibile dare più case agli italiani. Non appena qualcuno prova a farlo, subito si scatena una opposizione feroce, politici, avvocati, attivisti e media si mobilitano gridando alla discriminazione. Decisamente emblematico quello che sta avvenendo in Piemonte in queste ore. Una donna algerina sposata con un italiano si è vista negare una casa popolare perché non ha un lavoro regolare. Supportata dall’Asgi, associazione di avvocati di area sorosiana sempre in prima fila nelle battaglie pro immigrazione, la donna si è rivolta al tribunale di Torino che la ha dato ragione disapplicando la legge e ridandole la casa. Ora la palla passa alla Corte costituzionale, che dovrà decidere sulla legittimità delle norme abitative piemontesi.
Henry Winkler (Getty Images)
In onda dal 9 novembre su History Channel, la serie condotta da Henry Winkler riscopre con ironia le stranezze e gli errori del passato: giochi pericolosi, pubblicità assurde e invenzioni folli che mostrano quanto poco, in fondo, l’uomo sia cambiato.
Il tono è lontano da quello accademico che, di norma, definisce il documentario. Non perché manchi una parte di divulgazione o il tentativo di informare chi stia seduto a guardare, ma perché Una storia pericolosa (in onda dalle 21.30 di domenica 9 novembre su History Channel, ai canali 118 e 409 di Sky) riesce a trovare una sua leggerezza: un'ironia sottile, che permetta di guardare al passato senza eccessivo spirito critico, solo con lo sguardo e il disincanto di chi, oggi, abbia consapevolezze che all'epoca non potevano esistere.






