2025-06-21
L’Ue molla un pezzo di Green deal
Ursula von der Leyen (Ansa)
Ppe e Ecr costringono la Von der Leyen a fare un passo indietro sulla direttiva che imponeva la censura alle dichiarazioni ambientali fasulle. Ribera messa all’angolo.Diceva Angela Merkel: «Ciò che va bene per la Germania va bene per l’Europa». Di recente lo ha confermato anche Valdis Dombrovskis, il commissario lettone «cane da guardia» dei conti, che nei colloqui informali ha ammesso che il Rearme Eu è tagliato sugli interessi di Berlino. Così la Commissione europea, guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen, fa rapidissima marcia indietro sulla pomposa legge chiamata Green claims directive, che sarebbe la censura contro le dichiarazioni ambientali fasulle. Per chi pensa che il Green deal sia stata e sia tutt’ora una follia è comunque un successo, ma guai a illudersi che sia la definitiva resipiscenza di Bruxelles. In Germania non più tardi di un mese fa quattro altissimi dirigenti del gruppo Volkswagen - quelli che fino a ieri dicevano che l’auto elettrica ci salverà, ma ora hanno cambiato idea visto che le macchine a pila le vendono solo i cinesi e loro non esportano quasi più nulla a Pechino - sono stati condannati «per frode aggravata ai danni dei consumatori e delle autorità di controllo» come ulteriore atto dello scandalo dieselgate. Gli industriali tedeschi che si sono liberati dei verdi nel governo federale hanno tempestato Manfred Weber – pure lui tedesco – potentissimo capo del Ppe temendo che il nuovo regolamento sulle dichiarazioni ambientali voluto da Bruxelles diventasse una sorta di gogna. Da qui l’inversione a “U” della Commissione. Pare che alla marcia indietro si sia opposta la vicepresidente socialista Teresa Ribera Rodriguez, un’oltranzista green. Ieri - alla vigilia dell’ultimo giro di colloqui – il portavoce della Commissione ha annunciato: «S’intende ritirare la proposta di regolamento sul greenwashing che era stata avanzata nel 2023». Non ci sono state altre spiegazioni, peraltro la Commissione ha facoltà di ritirare i provvedimenti fino all’ultimo istante. Le ha fornite comunque l’eurodeputata del Ppe Araba Kokalari: «Le organizzazioni dell’industria, dell’ambiente e dei consumatori hanno criticato la proposta, che manca di una valutazione d’impatto e contraddice il principio fondamentale di una migliore regolamentazione». In realtà per fare argine a questo regolamento giudicato da tutto il mondo imprenditoriale europeo insostenibile si è formata una maggioranza diversa da quella che sostiene Ursula von der Leyen. A fianco del Ppe si è schierato il gruppo Ecr di cui Fratelli d’Italia ha la leadership ed è parte consistente e se il provvedimento fosse stato portato in aula Ursula von der Leyen avrebbe incassato il no anche dei Patrioti (vi aderisce la Lega) e dei Sovranisti (ci sta Afd) che messi insieme fanno 375 voti: una maggioranza schiacciante che avrebbe tagliato fuori il Pse compresi i paladini verdi del Pd. «Il lavoro e la determinazione di Ecr e della delegazione di Fratelli d’Italia», evidenziano il copresidente di Ecr al Parlamento Europeo, Nicola Procaccini, e il capo delegazione di Fdi a Bruxelles, Carlo Fidanza, «hanno permesso di bloccare la direttiva Green Claims. Una normativa che avrebbe potuto imporre oneri ingiustificati e restrizioni eccessive in materia di comunicazione ambientale delle aziende». Il regolamento anti-greenwashing se fosse passato avrebbe previsto che le aziende si sottoponessero all’esame di enti di certificazione esterni per validare le proprie credenziali green. Uno dei punti di maggiore preoccupazione era il passaggio della «legge» che sostiene: «Le affermazioni ambientali devono essere trasparenti, verificabili e basate su prove scientifiche, le dichiarazioni che associano un impatto ambientale neutro, ridotto o positivo sulla base della compensazione delle emissioni devono essere supportate da prove e dati verificabili». Ma questo non vale solo per il prodotto finale: l’azienda che si serve di subforniture deve certificare tutta la filiera. Ciò comporta un peso burocratico insostenibile e un abnorme lievitazione dei costi. La legge prevedeva che se gli attori economici non si fossero adeguati i governi erano obbligati a comminare durissime sanzioni. Ovviamente solo per le imprese europee, perché i cinesi potevano e possono continuare a venderci i loro prodotti senza che nessuno chieda conto dell’impatto.
Antonio Quirici e Diego Dolcini (iStock)
content.jwplatform.com
Arrivò prima dei fratelli Lumière il pioniere del cinema Filoteo Alberini, quando nel 1894 cercò di brevettare il kinetografo ispirato da Edison ed inventò una macchina per le riprese su pellicola. Ma la burocrazia italiana ci mise un anno per rilasciare il brevetto, mentre i fratelli francesi presentavano l’anno successivo il loro cortometraggio «L’uscita dalle officine Lumière». Al di là del mancato primato, il regista e produttore italiano nato ad Orte nel 1865 poté fregiarsi di un altro non meno illustre successo: la prima proiezione della storia in una pubblica piazza di un’opera cinematografica, avvenuta a Roma in occasione dell’anniversario della presa di Roma. Era il 20 settembre 1905, trentacinque anni dopo i fatti che cambiarono la storia italiana, quando nell’area antistante Porta Pia fu allestito un grande schermo per la proiezione di quello che si può considerare il primo docufilm in assoluto. L’evento, pubblicizzato con la diffusione di un gran numero di volantini, fu atteso secondo diverse fonti da circa 100.000 spettatori.
Filoteo Alberini aveva fondato poco prima la casa di produzione «Alberini & Santoni», in uno stabile di via Appia Nuova attrezzato con teatri di posa e sale per il montaggio e lo sviluppo delle pellicole. La «Presa di Roma» era un film della durata di una decina di minuti per una lunghezza totale di 250 metri di pellicola, della quale ne sono stati conservati 75, mentre i rimanenti sono andati perduti. Ciò che oggi è visibile, grazie al restauro degli specialisti del Centro Sperimentale di Cinematografia, sono circa 4 minuti di una storia divisa in «quadri», che sintetizzano la cronaca di quel giorno fatale per la storia dell’Italia postunitaria. La sequenza parte con l’arrivo a Ponte Milvio del generale Carchidio di Malavolta, intenzionato a chiedere al generale Kanzler la resa senza spargimento di sangue. Il secondo quadro è girato in un interno, probabilmente nei teatri di posa della casa di Alberici e mostra in un piano sequenza l’incontro tra il messo italiano e il comandante delle forze pontificie generale Hermann Kanzler, che rifiuta la resa agli italiani. I quadri successivi sono andati perduti e il girato riprende con i Bersaglieri che passano attraverso la breccia nelle mura di Porta Pia, per passare quindi all’inquadratura di una bandiera bianca che sventola sopra le mura vaticane. L’ultimo quadro non è animato ed è colorato artificialmente (anche se negli anni alcuni studiosi hanno affermato che in origine lo fosse). Nominata «Apoteosi», l’ultima sequenza è un concentrato di allegorie, al centro della quale sta l’Italia turrita affiancata dalle figure della mitopoietica risorgimentale: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini. Sopra la figura dell’Italia brilla una stella che irradia la scena. Questo dettaglio è stato interpretato come un simbolo della Massoneria, della quale Alberici faceva parte, ed ha consolidato l’idea della forte impronta anticlericale del film. Le scene sono state girate sia in esterna che in studio e le scenografie realizzate da Augusto Cicognani, che si basò sulle foto dell’epoca scattate da Ludovico Tumminello nel giorno della presa di Roma. Gli attori principali del film sono Ubaldo Maria del Colle e Carlo Rosaspina. La pellicola era conosciuta all’epoca anche con il titolo di «La Breccia di Porta Pia» e «Bandiera Bianca».
Continua a leggereRiduci