2024-10-22
Errori e forzature: il rientro dei profughi dall’Albania è un mostro giuridico
L’intervento dei magistrati ha strumentalizzato la sentenza europea per colpire il governo. Ecco perché non regge. E se fosse soltanto un «bluff» quello costituito dal richiamo operato dal Tribunale di Roma alla recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea per negare la convalida dei provvedimenti di trattenimento in Albania di alcuni «migranti» che, pur provenendo da Paesi ufficialmente qualificati come «sicuri», avevano avanzato richiesta di protezione internazionale? Il sospetto nasce quando, applicando appunto le regole del gioco del poker, si vada a «vedere» l’effettivo contenuto della suddetta decisione e a verificarne le possibili implicazioni. All’origine della vicenda vi era stata la richiesta di protezione internazionale rivolta alle autorità della Repubblica Ceca da un cittadino della Moldavia; richiesta respinta per la ragione che tale Paese fa parte di quelli che il governo ceco ritiene «sicuri». L’interessato propose appello sostenendo, in sintesi, che la Moldavia non potesse realmente ritenersi un Paese «sicuro» per la duplice ragione costituita dal fatto che essa aveva adottato al proprio interno misure in deroga agli obblighi previsti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) - come espressamente consentito, in determinati casi, dall’articolo 15 di detta Convenzione - e che la sicurezza era stata esclusa per una parte del suo territorio, costituita dalla Transnistria. Il giudice d’appello, ritenendo che tali deduzioni fossero da valutare sulla scorta di quanto previsto da alcuni articoli della direttiva europea numero 32 del 2013 sulla protezione internazionale, decise di interpellare, in via pregiudiziale, la Corte di giustizia perché indicasse la corretta interpretazione che a essi si dovesse dare. La Corte di giustizia ha risposto, in sintesi, che: a) l’essersi un Paese avvalso della possibilità di deroga prevista dall’articolo 15 della Cedu non comporta l’automatica perdita della qualità di Paese «sicuro»; b) un Paese non può, però, essere considerato «sicuro» quando, anche per una sola parte del suo territorio, non siano soddisfatte le condizioni previste dalla citata direttiva 32/2013; c) l’eventuale insussistenza di tali condizioni dev’essere accertata, anche d’ufficio, dall’organo giurisdizionale al quale l’interessato si sia rivolto per vedersi riconoscere il diritto alla protezione internazionale. Ciò premesso, va subito detto che nei Paesi dai quali provenivano i «migranti» trasferiti in Albania, non sussisteva, pacificamente, né l’una né l’altra delle due situazioni di fatto che avevano indotto l’autorità giudiziaria della Repubblica Ceca a interpellare la Corte di giustizia. Non vi sarebbe stata, quindi, a rigore, alcuna stringente ragione per la quale il Tribunale di Roma dovesse attribuire - come invece ha fatto - decisivo rilievo a quanto dalla stessa Corte affermato in risposta ai quesiti che, con esclusivo riguardo a quelle specifiche situazioni, le erano stati sottoposti. Potrebbe tuttavia obiettarsi che l’ultima delle surriportate risposte della Corte, nei termini generali in cui essa risulta formulata, comportava il potere-dovere del Tribunale di verificare, anche d’ufficio, se nei Paesi di provenienza dei «migranti» fosse riscontrabile un’altra qualsiasi situazione incompatibile con la loro riconosciuta qualità di Paesi «sicuri». Anche ad ammettere la validità di tale obiezione, va però osservato che il tribunale ha fatto derivare la ritenuta, totale «insicurezza» dei Paesi in questione dal solo fatto che in essi, secondo quanto risultante dalle schede predisposte dal ministero degli Esteri, la garanzia di sicurezza non coprirebbe talune particolari categorie di soggetti, quali oppositori politici, dissidenti, difensori di diritti umani, eccetera. E ciò a prescindere dalla circostanza che, pacificamente, i «migranti» trattenuti in Albania non rientrassero in alcuna di tali categorie. Infatti - sempre secondo il Tribunale - avendo la Corte europea affermato che un Paese non può essere ritenuto «sicuro» quando non sia sicura anche una sola parte del suo territorio, essa avrebbe anche inteso affermare che lo stesso principio vale anche per il caso in cui la sicurezza non si estenda a determinate categorie di persone. Tale assunto non trova, però, nel testo della decisione della Corte, conferma alcuna. Questa non può, infatti, rinvenirsi - contrariamente a quanto apoditticamente affermato dal Tribunale - in un passaggio della motivazione di detta decisione nel quale, in realtà, è contenuto, per quanto qui interessa, solo un generico richiamo all’esigenza che, perché un Paese sia riconosciuto come «sicuro», non vi si faccia mai ricorso alla «persecuzione, quale definita dall’articolo 9 della direttiva (europea) 2011/95». Ed è appunto, infatti, a tale nozione che il Tribunale ha fatto richiamo per sostenere la mancanza di sicurezza, «tout court» nei Paesi di provenienza dei «migranti». Esso si è, però, «dimenticato» di fornire la benché minima motivazione circa le ragioni sulla base delle quali potesse affermarsi - come richiesto, invece, dal comma 1, lettera a), del citato articolo 9 - che in quei Paesi gli atti di persecuzione fossero «per la loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», oppure che costituissero, come previsto dalla successiva lettera b), «la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a)». Ed è da notare, in aggiunta, che l’inderogabilità prevista dal citato articolo 15, comma 2, della Cedu riguarda soltanto - in base al richiamo ivi contenuto agli articoli 1, 3, 4, 1° comma, e 7 della stessa Cedu - il diritto alla vita, il divieto della tortura e della schiavitù e il divieto di pronunciare condanna per un fatto che non sia già previsto dalla legge come reato al momento in cui esso è stato commesso. Tutte ipotesi, queste, con riguardo alle quali non risulta neppure minimamente accennata, da parte del Tribunale, l’esistenza di specifiche violazioni nei Paesi di provenienza dei «migranti».Sembra quindi potersi affermare, in conclusione, che la decisione della Corte di giustizia europea sia stata, in realtà, adoperata soltanto come schermo per coprire quella che, in sostanza, altro non appare se non l’ennesima manifestazione di una linea politica seguita, in materia di immigrazione, dalla parte trainante della magistratura mediante un indebito uso dello strumento giudiziario. Non c’è, allora, da scandalizzarsi se, da parte avversa, si pensa all’adozione di altri strumenti, discutibili quanto si vuole ma volti a far sì che quella linea possa essere contrastata.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.