
Le principali metropoli turche sono rimaste al partito di opposizione Chp, che le aveva in mano dal 2019 Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul, è l’astro nascente. Ma su Palestina e Nato ragiona come il sultano.La sconfitta subita da Tayyp Recep Erdogan alle elezioni amministrative in Turchia rappresenta un evento epocale. Il presidente turco ha riconosciuto la vittoria dell’opposizione nelle elezioni comunali: «Oggi hanno vinto 85 milioni di turchi, il risultato deve essere un punto di svolta per il nostro partito. Non abbiamo ottenuto il risultato che ci aspettavamo, è il momento di fare analisi e agire con coraggio. Negli ultimi 22 anni ci sono state 18 elezioni e abbiamo quasi sempre vinto - questa volta non è andata così, ma in futuro tutto può succedere». Le principali metropoli turche - Istanbul, Ankara, Smirne - sono rimaste saldamente nelle mani dell’opposizione laica moderata rappresentata dal Partito popolare repubblicano (Cumhuriyet halk partisi- Chp), che le aveva in gran parte conquistate nel 2019. Nonostante Erdogan abbia investito tutto se stesso nel tentativo di riconquistarle anche grazie allo spazio illimitato che ha disposizione sui media, ha rimediato una sonora sconfitta che pone interrogativi sul suo futuro politico. Inoltre, il Chp si è affermato come la principale forza politica, dato che, rispetto a cinque anni fa, ha ottenuto la vittoria nella maggior parte dei distretti della metropoli sul Bosforo, riconquistando anche la centralissima Beyoglu dopo 30 anni. La situazione è ancora peggiore per il presidente ad Ankara, dove il sindaco uscente Mansur Yavas (Chp) non solo replica il successo del 2019, ma lo supera con un distacco di circa 26 punti dal rivale. A Smirne, la vittoria del Chp non sorprende, dato che il partito domina la terza città del Paese da decenni, così come accade in altri centri importanti come Adana e Mersin. Ciò che sorprende, invece, è la svolta in città come Bursa, un altro grande centro industriale considerato finora un bastione dell’Akp di Erdogan. Il presidente conserva il controllo dei principali centri sulla costa del Mar Nero e di gran parte dell’Anatolia centrale, ma anche qui si osservano cambiamenti significativi, con l’avanzata di partiti ultranazionalisti e religiosi. Il risultato delle elezioni amministrative in Turchia rappresenta un brusco segnale di stop per il presidente, che da quasi vent’anni esercita un controllo totale sul Paese, reprimendo il dissenso senza alcuna esitazione, e lo ha trasformato in una dittatura islamista fortemente influenzata dalla Fratellanza musulmana. In generale, emergono segnali di inquietudine e distacco da parte di fasce sociali che fino ad oggi hanno sempre sostenuto Erdogan: il presidente ha sempre contato sull’appoggio dell’elettorato tradizionalista e dei ceti più svantaggiati, a lungo emarginati dalla vita politica ed economica, ma che ora sembrano mostrare chiari segni di sfiducia nel presidente turco che è impegnato da tempo nel diventare una sorta di rappresentante globale dei dei diritti dei musulmani. A Istanbul, la città che da sola ospita un quinto della popolazione turca, emerge trionfante l’uomo che ambisce a sfidare Erdogan alle prossime presidenziali del 2028: Ekrem Imamoglu, 54 anni, un politico noto per il suo approccio pragmatico anche se come vedremo su Israele non è molto diverso da Erdogan. Imamoglu è da tempo una figura di spicco dell’opposizione, tanto che il presidente ha tentato di ostacolarlo con una serie indagini giudiziarie del tutto pretestuose e basate su presunti reati di opinione. Nel 2019, Imamoglu è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione per un presunto insulto ad alcuni funzionari elettorali, sebbene la sentenza sia ancora in attesa di appello. Inoltre, è attualmente coinvolto in un procedimento giudiziario riguardante presunte irregolarità in alcune gare d’appalto, accuse che molti ritengono motivate politicamente, considerando la mancanza di indipendenza del sistema giudiziario nel paese. Come detto, Ekrem Imamoglu e Recep Tayyip Erdogan sono molto diversi; tuttavia, sulla questione israelo-palestinese condividono la medesima posizione di fondo. Ad esempio, lo scorso 5 marzo il sindaco di Istanbul si è presentato ad un comizio avvolto nella bandiera palestinese in compagnia di Yusuf Barakat, uno studente palestinese che vive in Turchia. Barakat, che è un esponente di «Bds Turchia» (Movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni) che intende a porre fine a tutti agli accordi con Israele, ha preso la parola: «Esorto tutti i comuni della Turchia a non utilizzare prodotti provenienti da Israele. Il boicottaggio è fondamentale. Nonostante la guerra vergognosa e sproporzionata in corso, esistono ancora accordi di amicizia tra i comuni. Chiedo anche la cancellazione di questi accordi». Non la pensa diversamente il resto del Chp come visto l’8 ottobre 2023 (il giorno dopo le stragi nel Sud di Israele), con la dichiarazione del leader Kemal Kilicdaroglu, che ha affermato di essere dalla parte dei palestinesi: «La Palestina è un Paese che cerca diritti da molto tempo. Siamo sempre con il popolo palestinese. Non vogliamo mai una guerra. Anche le organizzazioni internazionali devono intervenire nel rispetto degli standard democratici per garantire la pace e garantire i diritti del popolo palestinese». Sugli altri temi, vedi il rapporto con la Nato e il supporto all’Ucraina, il Chp fino ad oggi ha cercato restare equidistante se non ambiguo, mentre lo stesso Kemal Kilicdaroglu si è più volte espresso a favore dell’entrata della Turchia nell’Unione Europea. Viste le premesse e il fatto che il 2028 è lontano i festeggiamenti per la sconfitta di Recep Tayyip Erdogan sono a dir poco prematuri.
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