2023-05-16
L’incertezza del voto turco riapre la crisi del grano e contagia Libia e Tunisia
Una scheda elettorale in un seggio turco (Getty Images)
Erdogan batte i sondaggi ma non Kilicdaroglu. E attende il ballottaggio del 28 maggio. Antonio Tajani: «Caos migranti senza accordo sul cibo». A rischio la tenuta del Medio Oriente.È un quadro d’incertezza quello emerso dalle elezioni turche di domenica. Nessuno dei candidati presidenziali è infatti riuscito a superare la soglia del 50% dei voti: Recep Tayyip Erdogan è arrivato primo con il 49,5%, seguito da Kemal Kilicdaroglu al 44,8%. Più indietro, si è piazzato il «terzo incomodo», Sinan Ogan, con il 5,1%. Una situazione complessiva che rende quindi necessario un ballottaggio il prossimo 28 maggio, mentre lo stesso Ogan si avvia a ricoprire il ruolo di kingmaker. Il Sultano è andato meglio di quanto preconizzato dai sondaggi e si è rivelato capace di espugnare quasi tutte le province che erano state colpite dal terremoto di febbraio. Va però anche detto che è la prima volta che Erdogan deve affrontare un secondo turno. L’incertezza è dunque significativa e sta già determinando delle spiacevoli conseguenze interne (come il calo della lira turca). Tuttavia il ballottaggio rappresenta un’incognita anche dal punto di vista geopolitico. Pensiamo innanzitutto alla crisi ucraina. Finora la Turchia si è ritagliata il ruolo di principale mediatore tra Kiev e Mosca. E, pur con alterne fortune, qualche risultato è riuscita a conseguirlo: a partire dall’accordo sul grano che fu stipulato nel luglio dell’anno scorso tra Turchia, Ucraina, Russia e Onu. Come noto, si sta cercando di rinnovare tale intesa prima che scada il 18 maggio. Eppure, nonostante qualche recente progresso nelle trattative, il suo rilancio non sembra ancora a portata di mano. Proprio ieri il ministero degli Esteri ucraino ha reso noto che non sarebbero previsti nuovi colloqui negoziali questa settimana. E adesso l’incertezza politica turca potrebbe avere delle ripercussioni negative sulla proroga dell’accordo.A sottolineare la pericolosità di un mancato rinnovo è stato il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani. «Ne va della vita di milioni di persone in povertà. Ne nascerebbe una crisi nei Paesi dell’Africa centrale e subsahariana che, insieme alla guerra in Sudan, rischia di attivare una pericolosissima spirale sul fronte migratorio», ha dichiarato ieri al Messaggero, precisando di confidare nella «mediazione indipendente della Turchia». Non a caso, il titolare della Farnesina ha parlato anche di Tunisia. «Continueremo a fare di tutto per sostenerla sul piano economico e invitiamo i partner europei a guardare la crisi con “occhiali africani”». «Non si possono condizionare le riforme di Saied ai finanziamenti, devono andare di pari passo. L’Italia ha già dato 10 milioni di euro e altri 100 sono in arrivo», ha chiarito. Tajani ha centrato il punto. Se l’accordo sul grano non dovesse essere prorogato, si configurerebbero effetti deleteri su Africa e Medio Oriente: effetti che innescherebbero flussi migratori a cui il nostro Paese si ritroverebbe esposto. È in questo quadro che l’incertezza politica turca rischia di aggravare il problema. Il futuro di Erdogan in questo momento è appeso a un filo. E così rimarrà fino al ballottaggio. La forza politica del Sultano, che è finora stato de facto il principale artefice dell’intesa sul grano, è quindi al momento azzoppata. Tutto questo, mentre l’Ue e il Fmi continuano a rifiutarsi di concedere dell’ossigeno finanziario alla Tunisia. Risultato: il Paese nordafricano stenta a stabilizzarsi e una bomba migratoria rischia di esplodere da un momento all’altro sulle nostre coste. Il presidente tunisino, Kais Saied, è sicuramente un leader controverso, ma va ricordato che l’alternativa a lui è Ennahda: un movimento islamista, gravitante attorno alla galassia dei Fratelli musulmani, che intrattiene rapporti con Hamas. Ma l’incertezza politica turca potrebbe avere degli impatti anche sulla Libia. E non solo per quanto riguarda lo scenario di un mancato rinnovo dell’accordo sul grano. Va infatti tenuto presente che la Turchia esercita una notevole influenza politico-militare sull’Ovest libico (a giugno scorso, Ankara prorogò di 18 mesi la presenza delle proprie truppe in loco). Ebbene, Kilicdaroglu si è mostrato in passato critico verso l’interventismo libico del Sultano. Inoltre, l’incertezza politica turca potrebbe creare instabilità in seno al governo di Tripoli, col rischio di accendere nuove tensioni nell’intero Paese (incoraggiando magari qualche sommovimento dai territori orientali). Per di più, un indebolimento dell’influenza turca potrebbe portare la Russia (già presente nell’Est libico con i mercenari della Wagner) a espandere ulteriormente la sua longa manus. Sotto questo aspetto, è quindi urgente che Roma rafforzi il coordinamento con Washington, per cercare di consolidare la propria influenza su Tripoli, inserendosi a discapito di Ankara e arginando eventuali iniziative di Mosca. E proprio Mosca probabilmente naviga con cautela in queste ore. Non è un mistero che Vladimir Putin sperasse in una rapida vittoria di Erdogan. Dal 2017 Ankara si è avvicinata alla Russia sul piano energetico e della difesa. Il Cremlino ha inoltre sempre visto nel Sultano un mediatore gradito nel contesto della crisi ucraina, mentre, pochi giorni fa, Kilicdaroglu aveva accusato i russi di diffondere online del materiale fake e di interferire nelle elezioni turche. Eppure, come sottolineato ad aprile dal Wilson center, è improbabile che un’eventuale presidenza di Kilicdaroglu possa portare a eclatanti cambiamenti nelle relazioni tra Ankara e Mosca. Ieri, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, si è affrettato a dire che la Russia rispetterà ogni decisione del popolo turco, per poi aggiungere: «Ci aspettiamo che la nostra cooperazione continui, si approfondisca e si espanda». Inoltre, pur dicendo di voler rientrare nel programma americano degli F-35, la coalizione che sostiene Kilicdaroglu non si è impegnata chiaramente a rinunciare al sistema missilistico russo S-400, acquistato da Erdogan. Il vero problema per Putin sarà semmai l’instabilità di un’eventuale presidenza Kilicdaroglu, vista l’eterogeneità della coalizione che lo sostiene. Uno scenario, questo, che potrebbe lasciar campo libero allo zar su alcuni fronti internazionali, è vero. Ma che lo priverebbe di un solido punto di riferimento politico nel complicato quadro della crisi ucraina.
Marta Cartabia (Imagoeconomica)
Sergio Mattarella con Qu Dongyu, direttore generale della FAO, in occasione della cerimonia di inaugurazione del Museo e Rete per l'Alimentazione e l'Agricoltura (MuNe) nella ricorrenza degli 80 anni della FAO (Ansa)