
Non sono segnali troppo positivi quelli che si stanno registrando sul delicato dossier libico. Un problema, questo, che chiama in causa nodi internazionali e interni. Sul piano internazionale, va innanzitutto rilevato che la Turchia ha di fatto respinto la richiesta, avanzata dal presidente francese Emmanuel Macron nell'ambito della recente conferenza tenutasi a Parigi, di ritirare le proprie forze militari dal Paese nordafricano. "Se si individua il ritiro delle forze straniere dalla Libia come il più importante, come il problema principale, riteniamo che sia sbagliato", ha dichiarato Ibrahim Kalin, principale consigliere per la politica estera del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. "La Libia ha bisogno di sostegno per il suo processo politico, le elezioni, le questioni economiche", ha aggiunto. "La nostra presenza militare è per aiutare l'esercito libico ad addestrarsi", ha proseguito, "Siamo lì come forza di stabilità e aiuto al popolo libico. E la nostra priorità per quanto riguarda la sicurezza è aiutare i libici a mettere in piedi il loro esercito nazionale libico unito". Del resto, che Ankara non avesse dato troppo peso alla conferenza parigina era risultato subito chiaro dal fatto che, anziché partecipare di persona, Erdogan avesse inviato soltanto il proprio viceministro degli Esteri. Il Sultano non aveva tra l'altro digerito l'invito della Grecia al summit, senza poi dimenticare gli antichi screzi avuti in passato con lo stesso Macron su vari dossier (tra cui proprio quello libico). Un secondo aspetto problematico è invece di natura interna e riguarda le recenti candidature alle elezioni presidenziali libiche, previste per la fine di dicembre. Negli scorsi giorni, sono infatti scesi in campo due (controversi) nomi di peso: il figlio di Muammar Gheddafi, Saif al-Islam, e il generale Khalifa Haftar. Due candidature che hanno già acceso polemiche: come sottolineato da The Libya Observer, il procuratore militare libico ha infatti chiesto all'Alta Commissione elettorale nazionale di bloccare la registrazione di entrambi, a causa delle accuse di crimini che pendono sul loro capo. Inoltre, al di là delle questioni giudiziarie, è chiaro che queste candidature rispecchino delle dinamiche geopolitiche. Il figlio del defunto rais, intrattiene legami con il Regno Unito, mentre – secondo quanto riferito da The Guardian – sarebbe plausibile ritenere che la Turchia si opporrà alla sua eventuale elezione. Un'opinione, questa, tuttavia non condivisa da tutti: a settembre, la testata Al Monitor ha infatti parlato di un tentativo di avvicinamento politico alla famiglia Gheddafi da parte di Ankara. Come che sia, il nemico giurato di Erdogan resta Haftar: il generale che, acerrimo avversario dei Fratelli Musulmani, ha potuto storicamente contare sull'appoggio di Arabia Saudita, Egitto, Russia e Francia. D'altronde sarà un caso, ma negli ultimi tempi Macron sembra aver notevolmente rinsaldato i propri rapporti con il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi. Tutto questo, mentre Mosca – solitamente restia a lasciarsi troppo coinvolgere nella diplomazia occidentale sulla Libia – ha inviato il potente ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, alla recente conferenza di Parigi. Tra l'altro, Haaretz ha riportato che il figlio di Haftar, Saddam, avrebbe effettuato di recente un viaggio in Israele per ottenere appoggio a favore del padre: quello stesso Saddam che, sempre secondo Haaretz, sarebbe assistito da un'agenzia di Pr con sede in Francia e negli Emirati arabi uniti. Alla luce di tutto ciò, non è escludibile che l'asse internazionale a favore di Haftar si stia sotterraneamente ricostituendo. Il che spiegherebbe anche l'irritazione della Turchia. Una Turchia che, almeno al momento, vede probabilmente il proprio candidato di riferimento nell'attuale premier ad interim, Abdul Hamid Dbeibah, da sempre considerato vicino ad Ankara e alla Fratellanza musulmana. Da quanto emerge, è chiaro che le divisioni (interne e internazionali) restano significative. E che la strada verso le elezioni di dicembre rischia di rivelarsi molto più accidentata del previsto.
Andy Mann for Stefano Ricci
Così la famiglia Ricci difende le proprie creazioni della linea Sr Explorer, presentata al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, concepita in Patagonia. «Più preserveremo le nostre radici, meglio costruiremo un futuro luminoso».
Il viaggio come identità, la natura come maestra, Firenze come luogo d’origine e di ritorno. È attorno a queste coordinate che si sviluppa il nuovo capitolo di Sr Explorer, il progetto firmato da Stefano Ricci. Questa volta, l’ottava, è stato presentato al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, nata tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, terre estreme che hanno guidato una riflessione sull’uomo, sulla natura e sul suo fragile equilibrio. «Guardo al futuro e vedo nuovi orizzonti da esplorare, nuovi territori e un grande desiderio di vivere circondato dalla bellezza», afferma Ricci, introducendo il progetto. «Oggi non vi parlo nel mio ruolo di designer, ma con lo spirito di un esploratore. Come un grande viaggiatore che ha raggiunto luoghi remoti del Pianeta, semplicemente perché i miei obiettivi iniziavano dove altri vedevano dei limiti».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.





