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2024-08-08
L’educazione è ricominciare, sempre Risé e Camisasca sul mistero del padre
Monsignor Massimo Camisasca e nel riquadro il libro La paternità (Imagoeconomica)
È strano che proprio io, che non sono sposato, mi metta a parlare di paternità. Eppure sono profondamente convinto che ogni uomo sia chiamato a essa. Non c’è solo la paternità biologica, c’è anche quella spirituale. Attraverso l’amicizia e la discepolanza, molti possono riconoscermi come padre, come autorità per la loro vita, come aiuto per la loro crescita. Perciò anch’io posso raccontare la mia esperienza in questo campo.
Il padre, anzitutto, è colui che accoglie. Dobbiamo passare molto tempo con i nostri figli, ascoltarli, giocare con loro. Queste ore, che possono sembrarci sprecate, sono in realtà le più feconde. Nel rapporto con il padre vissuto nell’infanzia, il bambino impara ad affrontare i primi problemi. Senza un rapporto con una persona grande il ragazzo rischia di assumere, nei confronti della vita, posizioni estreme, difensive, elusive, di diffidenza e di chiusura. Il figlio ha bisogno di sapere che il padre c’è, è presente, ha bisogno di sentire i suoi racconti e i suoi giudizi. Vuole sentirsi valorizzato, stimato, spinto nella vita. Se scappa, deve sapere che la porta di casa è sempre aperta e che verrà sempre riaccolto. La responsabilità di un educatore è impastata di terra e di sangue, di possibili errori e di sconfitte, ma anche di riprese, di nuove luci e nuovi traguardi.
La cosa più sbagliata per un padre è pretendere di fare bilanci. Le sue difficili scelte non meritano di essere uccise dai giudizi negativi di chi pensa di avere fallito. Lasciamo che sia Dio a giudicare. Solo lui è veramente Padre, e solo lui sa quale partecipazione alla sua paternità ciascuno di noi ha vissuto. Al padre spetta soltanto di ricominciare sempre, in ogni stagione della vita. Non si finisce mai di entrare nel mistero di un figlio e non si finisce mai di imparare nuovamente nell’incontro con lui. La provocazione del figlio è una provocazione sempre nuova. Il padre non educa ripetendo, ma non deve mai rinunciare a proporre le proprie ragioni di vita e i propri valori, ma deve offrirli sempre come qualcosa di positivo. I figli, più entreranno nel rapporto con lui, più diventeranno consapevoli, volitivi, capaci di coraggio e di iniziativa.
Questo cammino può condurre a una possibilità miracolosa: che un padre diventi discepolo dei propri figli, nella maturità della propria vita, accettando di imparare loro e di essere rigenerato nella propria esperienza. Ogni padre è un po’ come Abramo. Nella tradizione giudaico-cristiana egli è il padre per eccellenza, colui che ha accettato da Dio questa responsabilità, senza sapere dove lo avrebbe condotto. Ha vissuto sacrifici immensi, tra cui il rischio di perdere il proprio figlio, l’unico, avuto nella vecchiaia. Eppure, proprio per aver accettato di correre questa avventura vertiginosa, è diventato padre di una infinità di generazioni. [...]
Il popolo cristiano chiama i sacerdoti padri. Trovo altamente significativa questa voce popolare. Essa esprime qualcosa di profondamente radicato nella vocazione sacerdotale: sono chiamati da Dio ad essere persone mature, adulte, che si accompagnano ad altri uomini e donne, qualunque sia la loro età, per aiutarli a crescere.
La nostra società ha bisogno di padri. Va sempre più scomparendo la figura di colui che, con autorevolezza, accompagna il figlio ad affrontare la battaglia dell’esistenza, con spirito positivo e costruttivo. I frutti di questa assenza della figura paterna si vedono purtroppo nella crescente insicurezza dei giovani, nel loro continuo ritardare l’uscita dall’adolescenza.
Dove non c’è stata un’esperienza vera di rapporto col padre, diventa difficile una relazione creativa con la realtà: la si subisce ma non la si sa affrontare. Si rischia di assumere, nei confronti di essa, posizioni estreme che possono essere, secondo le differenze temperamentali, difensive, elusive, di diffidenza e chiusura. Oppure, all’opposto, di aggressività e di attacco preconcetto.
L’insicurezza e l’instabilità sono le caratteristiche del mondo giovanile di oggi. Molti ragazzi vedono la realtà come nemica. Hanno paura di uscire da sé, paura di ciò che può succedere. Creano così dei clan ovattati in cui cercare protezione. Privilegiano il rapporto virtuale attraverso le tecnologie o, più drammaticamente, si rifugiano nella dimenticanza di sé attraverso la droga o il bisogno esasperato di rapporti sessuali.
Dobbiamo aiutare i giovani a riscoprire i loro padri e dobbiamo aiutare gli adulti ad essere padri e madri autorevoli ed accoglienti. Questo può avvenire anche attraverso l’esempio dei sacerdoti, della loro paternità spirituale. Uso questa espressione per chiarire che voglio parlare non della generazione carnale ma di quella putativa, quella che si assume l’educazione delle persone anche senza un legame biologico. È il grande insegnamento che san Giuseppe rappresenta per noi. Come a lui fu affidato dal Padre il bambino Gesù, così l’esistenza dei nostri figli ci è affidata da un Altro. D’altra parte, anche il padre carnale genera per educare. Nessuno genera soltanto per mettere al mondo: non sarebbe umano. Anche i preti sono dunque chiamati alla paternità. Proprio noi sacerdoti che, nella Chiesa latina, prima di essere ordinati abbiamo aderito al dono della verginità.
Personalità mature e autorevoli non significa personalità perfette, senza limiti o smagliature. Semplicemente, persone impegnate con la propria vita, entusiaste della grazia che hanno ricevuto, sicure, non per superbia intellettuale o per adesione ideologica a delle verità, ma perché seriamente abbandonate a colui che è venuto loro incontro per salvarli.
La maggior parte dei ragazzi che ho condotto al sacerdozio è stata segnata dalla presenza di preti che non li astraevano dalla loro vita quotidiana e normale, ma li accompagnavano in essa, mostrando come lo studio, gli affetti, le difficoltà, i progetti per il futuro, tutto fosse più vero, più bello e più grande seguendo Cristo.
È dall’interno di una vita normale che si capisce la straordinarietà di Gesù. Proprio questo impressiona un giovane: vedere nel prete non uno specialista della preghiera, della liturgia, e neppure solo un efficace organizzatore di giochi e di gite, ma un uomo vero che in Cristo ha trovato lo sviluppo più autentico della sua intelligenza e la pienezza della sua vita affettiva.
I fiumi di paternità e figliolanza di monsignor Camisasca
Paternità, figliolanza, educazione, sono i grandi temi al centro della riflessione e del percorso esistenziale dell’autore, Massimo Camisasca, ora vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla e protagonista di molte altre iniziative, presenti nella forza e ispirazione di questo libro. Che ha il grande merito di risvegliare il lettore dall’accomodante sonnolenza e ottusità nella quale viene oggi spinto dalle mode e modi attuali di guardare alle fasi e ai personaggi centrali della vita umana: padre, madre, figli. Uno sguardo, quello oggi dominante, ispirato dal tentativo di evitare a tutti sforzo, impegno e fatica. Ma quindi anche verità, che è sempre figlia di quello sforzo.
Il fatto è, però, che è proprio nello sforzo, impegno e fatica che si forma la personalità umana, come le diverse antropologie hanno già chiarito, da sempre, ognuna nel suo modo. Ed è dall’attuale sostituzione dello sforzo con il culto della comodità e delle soluzioni prefabbricate e di massa, spinte da interessi soprattutto economici e materiali, che nascono i problemi educativi e sociali che indeboliscono gravemente l’attuale società occidentale. Come prova ad esempio il quarto di popolazione italiana tra i 15 e i 35 anni che finisce da anni con il non studiare né lavorare, rendendo così più amara e problematica l’esistenza agli stessi giovani e a tutti gli altri.
Monsignor Camisasca è invece forte testimone di un aspetto centrale dell’esperienza cristiana: la necessità di prendersi la responsabilità nel rapporto con l’altro, senza rifugiarsi nelle mode, manierismi e codici prefabbricati. Il cristiano scopre così nella sua stessa formazione di essere responsabile dell’altro. Ciò non è privo di fatiche e difficoltà. Anche qui Camisasca non fa sconti: «La responsabilità di un educatore ha sapore di terra e di sangue, di possibili errori e di sconfitte. Ma anche di riprese, di nuove luci e nuovi traguardi». E comunque è un tratto specifico dell’umano: «non può mai essere risparmiata, a nessuna società e nessuna generazione». Al centro dell’esperienza educativa, nei due sensi del nutrire il giovane e dell’estrarne e valorizzarne gli specifici contenuti personali e vocazioni espressive, agisce la libertà che si sviluppa nell’incontro del giovane con l’autorità autentica (che - da: augeo - è rappresentativo del far crescere), e rafforzandone la ricerca di espressione positiva lo aiuta a riconoscerla ed esprimerla, in sé e con gli altri.
Anche al padre e maestro, protagonista attivo dell’attività educativa, è comunque necessaria l’umiltà di riconoscersi come figlio, appartenente a qualcuno. Il libro ricorda che: «uno non può essere padre, generatore, se non ha nessuno come padre». L’Autore, che è stato allievo prezioso di don Giussani ed ha a sua volta fondato la Fraternità Sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo (oltre a tante altre iniziative), è un’illustrazione vivente di questo percorso creativo e formativo, che nel libro riconosce come: «l’esperienza più grande degli anni della mia maturità».
È questa la paternità spirituale, la cui ricchezza e necessità è nota da sempre, ma che si è fatta particolarmente presente nell’attuale società occidentale, dove negli ultimi anni una serie di fenomeni degenerativi hanno in gran parte trasformato i figli in persone «fatherless», senza padri, oggi allontanati spesso anche da casa da nuove consuetudini di costume, a cominciare dalle disposizioni dei divorzi, richiesti in due casi su tre dalle madri, e conclusi separando molto spesso i figli dallo scambio fisico quotidiano coi padri. Anche questa nuova situazione ha quindi ampliato l’importanza dell’esperienza della paternità spirituale (in realtà potenzialmente presente già nella relazione con il padre naturale). Una dimensione che oggi si rivela particolarmente utile, anche per riparare all’assenza paterna, frequentemente provocata dagli eccessi maternizzanti delle legislazioni famigliari degli anni Settanta del secolo scorso.
L’indispensabile «fiume di paternità che ci raggiunge per farci uomini» nutre e forma la tradizione, e ci trasmette le esperienze fisiche e spirituali dei padri, e anche quelle dei figli, diventandone a volte, anche discepoli. Il che significa sempre: «imparare a perdonare», l’attività cristiana per eccellenza. Spero che questi rimandi necessariamente sintetici, aiutino ad accogliere il livello di profondità e la ricchezza di questo libro prezioso, ricchissimo e autenticamente, affettuosamente educativo.
Buona lettura.
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Riduci
Pubblichiamo un estratto dell’ultimo libro del vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla e la prefazione della nostra firma. Nel suo nuovo libro, monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, ci guida alla riscoperta di un tratto essenziale dell’esperienza cristiana: il coraggio di assumersi la responsabilità dei rapporti - dell’essere padri, madri, figli - evitando il culto della comodità. Lo speciale contiene due articoli.È strano che proprio io, che non sono sposato, mi metta a parlare di paternità. Eppure sono profondamente convinto che ogni uomo sia chiamato a essa. Non c’è solo la paternità biologica, c’è anche quella spirituale. Attraverso l’amicizia e la discepolanza, molti possono riconoscermi come padre, come autorità per la loro vita, come aiuto per la loro crescita. Perciò anch’io posso raccontare la mia esperienza in questo campo.Il padre, anzitutto, è colui che accoglie. Dobbiamo passare molto tempo con i nostri figli, ascoltarli, giocare con loro. Queste ore, che possono sembrarci sprecate, sono in realtà le più feconde. Nel rapporto con il padre vissuto nell’infanzia, il bambino impara ad affrontare i primi problemi. Senza un rapporto con una persona grande il ragazzo rischia di assumere, nei confronti della vita, posizioni estreme, difensive, elusive, di diffidenza e di chiusura. Il figlio ha bisogno di sapere che il padre c’è, è presente, ha bisogno di sentire i suoi racconti e i suoi giudizi. Vuole sentirsi valorizzato, stimato, spinto nella vita. Se scappa, deve sapere che la porta di casa è sempre aperta e che verrà sempre riaccolto. La responsabilità di un educatore è impastata di terra e di sangue, di possibili errori e di sconfitte, ma anche di riprese, di nuove luci e nuovi traguardi.La cosa più sbagliata per un padre è pretendere di fare bilanci. Le sue difficili scelte non meritano di essere uccise dai giudizi negativi di chi pensa di avere fallito. Lasciamo che sia Dio a giudicare. Solo lui è veramente Padre, e solo lui sa quale partecipazione alla sua paternità ciascuno di noi ha vissuto. Al padre spetta soltanto di ricominciare sempre, in ogni stagione della vita. Non si finisce mai di entrare nel mistero di un figlio e non si finisce mai di imparare nuovamente nell’incontro con lui. La provocazione del figlio è una provocazione sempre nuova. Il padre non educa ripetendo, ma non deve mai rinunciare a proporre le proprie ragioni di vita e i propri valori, ma deve offrirli sempre come qualcosa di positivo. I figli, più entreranno nel rapporto con lui, più diventeranno consapevoli, volitivi, capaci di coraggio e di iniziativa.Questo cammino può condurre a una possibilità miracolosa: che un padre diventi discepolo dei propri figli, nella maturità della propria vita, accettando di imparare loro e di essere rigenerato nella propria esperienza. Ogni padre è un po’ come Abramo. Nella tradizione giudaico-cristiana egli è il padre per eccellenza, colui che ha accettato da Dio questa responsabilità, senza sapere dove lo avrebbe condotto. Ha vissuto sacrifici immensi, tra cui il rischio di perdere il proprio figlio, l’unico, avuto nella vecchiaia. Eppure, proprio per aver accettato di correre questa avventura vertiginosa, è diventato padre di una infinità di generazioni. [...]Il popolo cristiano chiama i sacerdoti padri. Trovo altamente significativa questa voce popolare. Essa esprime qualcosa di profondamente radicato nella vocazione sacerdotale: sono chiamati da Dio ad essere persone mature, adulte, che si accompagnano ad altri uomini e donne, qualunque sia la loro età, per aiutarli a crescere.La nostra società ha bisogno di padri. Va sempre più scomparendo la figura di colui che, con autorevolezza, accompagna il figlio ad affrontare la battaglia dell’esistenza, con spirito positivo e costruttivo. I frutti di questa assenza della figura paterna si vedono purtroppo nella crescente insicurezza dei giovani, nel loro continuo ritardare l’uscita dall’adolescenza.Dove non c’è stata un’esperienza vera di rapporto col padre, diventa difficile una relazione creativa con la realtà: la si subisce ma non la si sa affrontare. Si rischia di assumere, nei confronti di essa, posizioni estreme che possono essere, secondo le differenze temperamentali, difensive, elusive, di diffidenza e chiusura. Oppure, all’opposto, di aggressività e di attacco preconcetto.L’insicurezza e l’instabilità sono le caratteristiche del mondo giovanile di oggi. Molti ragazzi vedono la realtà come nemica. Hanno paura di uscire da sé, paura di ciò che può succedere. Creano così dei clan ovattati in cui cercare protezione. Privilegiano il rapporto virtuale attraverso le tecnologie o, più drammaticamente, si rifugiano nella dimenticanza di sé attraverso la droga o il bisogno esasperato di rapporti sessuali.Dobbiamo aiutare i giovani a riscoprire i loro padri e dobbiamo aiutare gli adulti ad essere padri e madri autorevoli ed accoglienti. Questo può avvenire anche attraverso l’esempio dei sacerdoti, della loro paternità spirituale. Uso questa espressione per chiarire che voglio parlare non della generazione carnale ma di quella putativa, quella che si assume l’educazione delle persone anche senza un legame biologico. È il grande insegnamento che san Giuseppe rappresenta per noi. Come a lui fu affidato dal Padre il bambino Gesù, così l’esistenza dei nostri figli ci è affidata da un Altro. D’altra parte, anche il padre carnale genera per educare. Nessuno genera soltanto per mettere al mondo: non sarebbe umano. Anche i preti sono dunque chiamati alla paternità. Proprio noi sacerdoti che, nella Chiesa latina, prima di essere ordinati abbiamo aderito al dono della verginità.Personalità mature e autorevoli non significa personalità perfette, senza limiti o smagliature. Semplicemente, persone impegnate con la propria vita, entusiaste della grazia che hanno ricevuto, sicure, non per superbia intellettuale o per adesione ideologica a delle verità, ma perché seriamente abbandonate a colui che è venuto loro incontro per salvarli.La maggior parte dei ragazzi che ho condotto al sacerdozio è stata segnata dalla presenza di preti che non li astraevano dalla loro vita quotidiana e normale, ma li accompagnavano in essa, mostrando come lo studio, gli affetti, le difficoltà, i progetti per il futuro, tutto fosse più vero, più bello e più grande seguendo Cristo.È dall’interno di una vita normale che si capisce la straordinarietà di Gesù. Proprio questo impressiona un giovane: vedere nel prete non uno specialista della preghiera, della liturgia, e neppure solo un efficace organizzatore di giochi e di gite, ma un uomo vero che in Cristo ha trovato lo sviluppo più autentico della sua intelligenza e la pienezza della sua vita affettiva.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/educazione-e-ricominciare-rise-camisasca-2668930022.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-fiumi-di-paternita-e-figliolanza-di-monsignor-camisasca" data-post-id="2668930022" data-published-at="1723120581" data-use-pagination="False"> I fiumi di paternità e figliolanza di monsignor Camisasca Paternità, figliolanza, educazione, sono i grandi temi al centro della riflessione e del percorso esistenziale dell’autore, Massimo Camisasca, ora vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla e protagonista di molte altre iniziative, presenti nella forza e ispirazione di questo libro. Che ha il grande merito di risvegliare il lettore dall’accomodante sonnolenza e ottusità nella quale viene oggi spinto dalle mode e modi attuali di guardare alle fasi e ai personaggi centrali della vita umana: padre, madre, figli. Uno sguardo, quello oggi dominante, ispirato dal tentativo di evitare a tutti sforzo, impegno e fatica. Ma quindi anche verità, che è sempre figlia di quello sforzo. Il fatto è, però, che è proprio nello sforzo, impegno e fatica che si forma la personalità umana, come le diverse antropologie hanno già chiarito, da sempre, ognuna nel suo modo. Ed è dall’attuale sostituzione dello sforzo con il culto della comodità e delle soluzioni prefabbricate e di massa, spinte da interessi soprattutto economici e materiali, che nascono i problemi educativi e sociali che indeboliscono gravemente l’attuale società occidentale. Come prova ad esempio il quarto di popolazione italiana tra i 15 e i 35 anni che finisce da anni con il non studiare né lavorare, rendendo così più amara e problematica l’esistenza agli stessi giovani e a tutti gli altri. Monsignor Camisasca è invece forte testimone di un aspetto centrale dell’esperienza cristiana: la necessità di prendersi la responsabilità nel rapporto con l’altro, senza rifugiarsi nelle mode, manierismi e codici prefabbricati. Il cristiano scopre così nella sua stessa formazione di essere responsabile dell’altro. Ciò non è privo di fatiche e difficoltà. Anche qui Camisasca non fa sconti: «La responsabilità di un educatore ha sapore di terra e di sangue, di possibili errori e di sconfitte. Ma anche di riprese, di nuove luci e nuovi traguardi». E comunque è un tratto specifico dell’umano: «non può mai essere risparmiata, a nessuna società e nessuna generazione». Al centro dell’esperienza educativa, nei due sensi del nutrire il giovane e dell’estrarne e valorizzarne gli specifici contenuti personali e vocazioni espressive, agisce la libertà che si sviluppa nell’incontro del giovane con l’autorità autentica (che - da: augeo - è rappresentativo del far crescere), e rafforzandone la ricerca di espressione positiva lo aiuta a riconoscerla ed esprimerla, in sé e con gli altri. Anche al padre e maestro, protagonista attivo dell’attività educativa, è comunque necessaria l’umiltà di riconoscersi come figlio, appartenente a qualcuno. Il libro ricorda che: «uno non può essere padre, generatore, se non ha nessuno come padre». L’Autore, che è stato allievo prezioso di don Giussani ed ha a sua volta fondato la Fraternità Sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo (oltre a tante altre iniziative), è un’illustrazione vivente di questo percorso creativo e formativo, che nel libro riconosce come: «l’esperienza più grande degli anni della mia maturità». È questa la paternità spirituale, la cui ricchezza e necessità è nota da sempre, ma che si è fatta particolarmente presente nell’attuale società occidentale, dove negli ultimi anni una serie di fenomeni degenerativi hanno in gran parte trasformato i figli in persone «fatherless», senza padri, oggi allontanati spesso anche da casa da nuove consuetudini di costume, a cominciare dalle disposizioni dei divorzi, richiesti in due casi su tre dalle madri, e conclusi separando molto spesso i figli dallo scambio fisico quotidiano coi padri. Anche questa nuova situazione ha quindi ampliato l’importanza dell’esperienza della paternità spirituale (in realtà potenzialmente presente già nella relazione con il padre naturale). Una dimensione che oggi si rivela particolarmente utile, anche per riparare all’assenza paterna, frequentemente provocata dagli eccessi maternizzanti delle legislazioni famigliari degli anni Settanta del secolo scorso. L’indispensabile «fiume di paternità che ci raggiunge per farci uomini» nutre e forma la tradizione, e ci trasmette le esperienze fisiche e spirituali dei padri, e anche quelle dei figli, diventandone a volte, anche discepoli. Il che significa sempre: «imparare a perdonare», l’attività cristiana per eccellenza. Spero che questi rimandi necessariamente sintetici, aiutino ad accogliere il livello di profondità e la ricchezza di questo libro prezioso, ricchissimo e autenticamente, affettuosamente educativo. Buona lettura.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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Riduci
(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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Riduci