2020-03-21
Ecco la strategia neoimperialista della Cina
Pechino vuole ripristinare la credibilità e inglobare nella propria sfera di influenza un numero sempre maggiore di Paesi in Europa, Asia e Africa. Rimane l'argine americano: Donald Trump insiste nello smascherare il virus cinese, incurante di chi lo accusa di razzismo.Dalla diplomazia del panda a quella delle mascherine. Costretta a fare di necessità virtù, la strategia imperialista di Pechino si è adeguata ai tempi del coronavirus: se una volta la linea era quella di utilizzare il simpatico plantigrado come strumento di soft power, oggi il registro è cambiato. Obiettivo della Repubblica popolare - che ha riscontrato nelle scorse ore 39 contagi e 3 nuove vittime - è infatti sempre più quello di presentarsi agli occhi del mondo come «nazione amica» e in prima fila nell'aiutare gli altri a fronteggiare l'emergenza del virus. Una linea scaltra, con cui il presidente cinese, Xi Jinping, vuole raggiungere due obiettivi. In primis, ripristinare la credibilità internazionale di Pechino, dopo la grave crisi di immagine in cui - a causa del coronavirus - era piombata soprattutto nel mese di febbraio. In secondo luogo, l'altro obiettivo è quello di recuperare terreno sul fronte geopolitico, inglobando nella propria sfera di influenza un numero sempre maggiore di Paesi. Dove aveva fallito la Nuova Via della Seta, sta forse quindi riuscendo la pandemia.Approfittando anche dei tentennamenti di Bruxelles, Pechino si è attivata per recapitare aiuti sanitari soprattutto nel Vecchio Continente. Martedì scorso, Xi Jinping ha assicurato al premier iberico, Pedro Sanchez, l'invio di forniture sanitarie alla Spagna. E, come riportato dall'agenzia di stampa Xinhua, il leader cinese ne ha approfittato per esprimere «la convinzione che l'amicizia tra Cina e Spagna sarà più forte e che i legami bilaterali avranno un futuro più luminoso dopo il test di lotta congiunta contro l'epidemia». Un discorso analogo vale per Parigi. Pochi giorni fa, Pechino ha inviato in Francia un milione di mascherine: a renderlo noto, era stato, mercoledì scorso, lo stesso ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian. Tutto questo, mentre - il giorno prima - la cancelliera tedesca, Angela Merkel, aveva difeso gli aiuti cinesi agli Stati europei, parlando di «reciprocità». «L'Unione europea ha inviato apparecchiature mediche in Cina [quando] la Cina ha chiesto aiuto in quel momento», aveva detto riferendosi all'inizio dell'epidemia nei primi mesi di quest'anno. «Quello che stiamo vedendo qui è la reciprocità». L'Italia, dal canto suo, ha addirittura rafforzato i propri già stretti legami con Pechino. L'altro ieri, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha non a caso annunciato: «Ho il contratto che abbiamo firmato oggi per cento milioni di mascherine che arriveranno nelle prossime settimane dalla Cina, da una società cinese». Inoltre, nel Lazio, il Campus biomedico ha acquisito il sistema di intelligenza artificiale usato negli ospedali di Wuhan per il monitoraggio delle polmoniti. La strategia cinese non si ferma comunque al Vecchio Continente. Nelle ultime settimane, Pechino ha inviato materiale sanitario a Cambogia e Filippine, facendo inoltre recapitare medicinali in Iraq e Iran. Senza poi dimenticare l'Africa, già da tempo «terra di conquista» della strategia cinese. Appena pochi giorni fa, il miliardario Jack Ma ha annunciato l'intenzione di donare ai Paesi africani 1,1 milioni di kit per i tamponi, 6 milioni di mascherine e 60.000 tute protettive.Nel mezzo del plauso generale che si leva a favore della Repubblica popolare, gli Stati Uniti sono rimasti fondamentalmente i soli a mantenere un approccio guardingo. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha duramente criticato la gestione cinese dell'epidemia. «Il Partito comunista cinese non ha agito bene e di conseguenza ha messo a rischio innumerevoli vite», ha dichiarato. Del resto, proprio Pompeo, in una recente conversazione telefonica con Di Maio, ha evidenziato non poca preoccupazione per la crescente vicinanza dell'Italia alla Repubblica popolare: una vicinanza che - nelle ultime settimane - si è fatta più stretta ma che notoriamente il governo giallorosso (soprattutto nella sua componente grillina) persegue da sempre. La linea dura verso Pechino è ferreamente condivisa dallo stesso Donald Trump che continua a definire il Covid-19 un «virus cinese»: un'espressione che - oltre a suscitare le piccate reazioni della Repubblica popolare - ha scandalizzato molti: basti pensare che, l'altro ieri, l'Oms ha paventato rischi di natura xenofobica, sostenendo che «i virus non conoscono frontiere». Anche certa stampa americana tende tra l'altro ormai a minimizzare le responsabilità di Pechino. Eppure, che la gestione cinese dell'epidemia abbia lasciato molto a desiderare in termini di trasparenza è un fatto oggettivo. Ricordiamo che, il 31 dicembre scorso, il South China Morning Post riportò che a Wuhan già 27 persone fossero state contagiate da quella che fu definita una «polmonite misteriosa». Ricordiamo inoltre che, il 30 dicembre, il dottor Li Wenliang avesse riscontrato inquietanti somiglianze del nuovo virus con la Sars, informando i suoi colleghi e venendo successivamente messo a tacere dalle autorità locali. Soltanto l'altro ieri, Pechino si è scusata per il trattamento riservato al medico, nel frattempo morto di coronavirus.