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2022-05-16
Ecco l'immigrazione che verrà
Ansa
L’attenzione generale è concentrata sull’evoluzione del conflitto in Ucraina ma c’è un effetto collaterale che finora non è stato messo nell’agenda europea e nemmeno italiana, anche se toccherebbe da vicino il nostro Paese. È il rischio di una migrazione di massa dall’Africa spinta dall’intensificarsi dei problemi economici e agro-alimentari. Il blocco russo dei container nei porti del Mar Nero, carichi di grano e mais (ben 25 milioni di tonnellate sono ferme), sta mettendo a dura prova i Paesi africani. Il prolungamento della guerra porterà in Ucraina al taglio delle semine primaverili di cereali. Saranno dimezzate su una superficie di 7 milioni di ettari rispetto ai 15 milioni precedenti l’invasione della Russia. Il che si aggiunge alle difficoltà del commercio internazionale di materie prime agricole.
Le Nazioni Unite hanno già lanciato l’allarme per il pericolo di una catastrofe globale sul piano agricolo e alimentare come mai era accaduto dalla seconda guerra mondiale, quale effetto collaterale del conflitto ucraino. Secondo un’analisi di Coldiretti sulla base dei dati del centro studi Divulga, rischia di venire a mancare oltre un quarto del grano mondiale. Ucraina e Russia controllano assieme il 28% degli scambi internazionali di frumento, con oltre 55 milioni di tonnellate movimentate, ma anche il 16% del mais (30 milioni di tonnellate) per l’alimentazione degli animali negli allevamenti e ben il 65% degli scambi di olio di girasole (10 milioni di tonnellate).
Milioni di tonnellate di grano sono intrappolate in magazzini a terra o su navi che non possono muoversi. Il direttore esecutivo del World food programme, David Beasley, l’ha definita una «catastrofe su catastrofe» sottolineando che «44 milioni di persone nel mondo stanno marciando verso la fame». Ha aggiunto che «il tempo sta per scadere e il costo dell’inerzia sarà più alto di quanto si possa immaginare». Se i porti non dovessero riaprire i contadini ucraini non avranno un luogo dove conservare il prossimo raccolto di luglio e agosto, è lo scenario tracciato dal Wfp, con il risultato che «montagne di grano andranno perse» mentre il mondo implora aiuto.
In questo momento in Africa 1 persona su 5 ( 282 milioni di abitanti) soffre di denutrizione e 93 milioni di persone in 36 Paesi stanno rimanendo senza cibo. I Paesi colpiti da guerre, guerriglie e violenze sono 20 con 7 colpi di Stato che si sono verificati solo nell’ultimo anno. Secondo Oxfam, i beni alimentari in tutto il continente sono schizzati alle stelle, più alto del 30-40% rispetto al resto del mondo, in proporzione al Pil pro capite. La Fao ha denunciato un aumento record del costo dei prodotti alimentari, un trend che può avere affetti destabilizzanti in molti Paesi poveri, soprattutto in Nord Africa. In Libia, Egitto, Tunisia, Algeria non arrivano più le navi cariche di grano a causa del conflitto russo. Il Libano deve l’81% delle sue forniture di cereali all’Ucraina. Il Cairo sta trattando con mercati alternativi e ha avviato la stagione di approvvigionamento di grano con due settimane di anticipo per non rimanere a secco. Una contestazione di agricoltori contro il governo si è svolta in Libano, all’inaugurazione della fiera agricola di Tripoli dove erano presenti alte cariche politiche.
Questo mix di fattori, ovvero l’instabilità politica, l’aumento delle materie prime e la crisi agroalimentare creano sfollati, profughi, migranti. All’esodo di centinaia di migliaia di persone dall’Ucraina si aggiungerebbero nuove ondate dal Nord Africa. L’Europa è pronta a gestirle? Domanda retorica. Il blocco delle esportazioni e i rincari di materie prime e carburanti colpiscono le industrie e allargano le fasce di povertà. Il flusso migratorio impatterebbe su un’Europa che ancora non si è data nuove regole di redistribuzione degli arrivi. Non solo. Frontex, l’agenzia di controllo delle frontiere Ue, da mesi coinvolta in scandali e polemiche, ha subito un altro terremoto. Il direttore Fabrice Leggeri si è dimesso. L’agenzia è stata più volte accusata di compiere respingimenti dei richiedenti asilo, vietati dalle norme Ue. Una bufera che cade in un momento critico.
Va ricordato poi che nelle strategie delineate dal bilancio settennale della Ue, la pubblica amministrazione europea riceve più del doppio di quanto è destinato alle gestione dell’immigrazione e alla sicurezza. Alla macchina burocratica sono riservati 73,1 miliardi, ben 10 miliardi in più rispetto al precedente bilancio (61,6 miliardi). Alla voce Migrazione e gestione delle frontiere, che si occupa di diritto di asilo, vanno solo 22,67 miliardi. E quale Paese sarà coinvolto di più dall’esodo africano? Risposta scontata: l’Italia. Il premier Mario Draghi è tornato a chiedere la revisione dei trattati, ma è un tema su cui tutti sono sordi.
«Siamo sempre noi il primo approdo. E nessuno ci aiuta»

Nicola Molteni (Ansa)
«C’è il rischio temibilissimo di un aumento esplosivo dell’immigrazione dall’Africa, da quei Paesi dipendenti da Russia e Ucraina per i rifornimenti di grano e mais. E il primo approdo è l’Italia. Il nostro Paese in questo momento sta mostrando grande generosità nei confronti degli ucraini, con oltre 110.000 profughi accolti, di cui il 90% nelle reti parentali, famiglie italiane e ucraine, a loro spese. Ma non possiamo essere lasciati da soli a gestire un’ondata migratoria che si annuncia senza precedenti. Sono molto preoccupato. Il problema va affrontato e risolto in sede europea. Se così non dovesse essere, come mi pare finora, allora ogni Paese sarà legittimato ad agire per conto proprio». Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno, è un fiume in piena.
Quali sono i numeri degli sbarchi a oggi?
«Siamo già ben oltre i 13.000 dall’inizio dell’anno. E negli ultimi giorni registriamo una intensificazione importante e allarmante degli arrivi che interessa, oltre alla Sicilia e a Lampedusa, il cui hotspot è nuovamente in una situazione di criticità, anche Puglia e Calabria. Pensiamo a Roccella Ionica, una delle realtà maggiormente toccate dagli sbarchi. I Paesi di provenienza quest’anno sono soprattutto Egitto, Tunisia, Bangladesh e Afghanistan. Molto preoccupante è la rotta del Mediterraneo orientale, ovvero dalla Turchia. Nel momento in cui il nostro Paese è impegnato ad accogliere i profughi ucraini, un incremento dei migranti da Sud rischia di generare tensioni sui territori e di essere difficilmente controllabile».
Il coinvolgimento dell’Europa è fondamentale. Avete avuto segnali?
«Manca al momento una risposta europea al problema. Il presidente Draghi ha chiesto per l’ennesima volta la modifica dei trattati, a cominciare da quello di Dublino che scarica tutto il sistema dell’accoglienza sui Paesi di primo approdo, e in particolare su Italia e Spagna. Non vedo la volontà delle istituzioni europee di mettervi mano».
Eppure la discussione è in corso, a che punto siamo?
«Il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, da due anni in discussione a Bruxelles, mi sembra che non stia arrivando a nulla di positivo. I famosi rimpatri volontari, assistiti o forzati, non funzionano, e gli accordi bilaterali di partenariato con i Paesi di partenza e di transito, penso a Libia e Tunisia, con investimenti commerciali europei, sono a un punto morto».
Un aiuto non può venire nemmeno dai Paesi dell’Est Europa impegnati con i rifugiati ucraini, che ne pensa?
«I Paesi di Visegrad, spesso accusati di insensibilità nei confronti dei problemi migratori, in realtà stanno mostrando una grande generosità perché gran parte dei 5 milioni di ucraini che hanno lasciato le loro case sono accolti soprattutto dai Paesi confinanti come Polonia, Ungheria e Moldavia. Sono profughi politici e hanno il diritto di avere la protezione temporanea. I migranti dall’Africa, invece, sono migranti economici, non scappano da guerre e persecuzioni e non possono essere oggetto di protezione internazionale. L’anno scorso, in Italia, su 100 domande di asilo, 56 sono state respinte. È impensabile che il nostro Paese possa farsi carico dei flussi climatici».
E l’accordo di Malta?
«Il meccanismo della redistribuzione dei migranti, così come era partito con l’accordo del 2019, è sostanzialmente bloccato. Oggi il problema principale sono i movimenti da Sud. O c’è una risposta europea, cosa che Draghi ha sollecitato nell’ultima plenaria a Strasburgo dicendo che le istituzioni europee sono inadeguate e i trattati vanno modificati, oppure ogni Stato è legittimato a difendere i propri confini».
Come?
«Con Matteo Salvini ministro dell’Interno, gli sbarchi nel Paese sono stati drasticamente ridotti, così come le morti nel Mediterraneo. O c’è una risposta europea a un fenomeno globale oppure è legittima una risposta nazionale. Come sta facendo la Grecia. Il migrante economico o climatico dovrebbe essere bloccato alla partenza, attraverso gli accordi di partenariato che l’Europa avrebbe dovuto fare e che finora non ha fatto, o dovrebbe essere rimpatriato in modo volontario o forzato. Tutto il peso delle migrazioni da Sud ricade sul nostro Paese. Ed è una situazione destinata ad aggravarsi e rischia di essere esplosiva a causa del conflitto ucraino e della carenza di approvvigionamento alimentare. I decreti sicurezza di Salvini sono intervenuti sul problema immigrazione usando strumenti normativi, non alzando muri. E per la difesa dei confini nazionali, Salvini è stato addirittura mandato a processo».
Quanti sbarchi si stimano entro l’anno?
«In base ai flussi attuali, dovremmo arrivare a 80.000 arrivi. Ma con gli strascichi della pandemia, con 110.000 ucraini in accoglienza, con 7.000 afghani arrivati l’anno scorso e considerati i flussi dall’Africa spinti dai problemi alimentari, il sistema di inclusione non può che andare in difficoltà. Un’occasione per affrontare subito il problema è offerta da Frontex».
Ma il direttore di Frontex si è dimesso.
«Frontex è l’unica agenzia europea che fa difesa e protezione dei confini. Ovviamente qualcosa non ha funzionato. Credo che in questo momento l’Italia possa chiedere che il prossimo direttore sia italiano, oppure spagnolo o greco. Questo è ancora più necessario alla luce della rinnovata, forte presenza delle navi delle Ong nel Mediterraneo, che è un evidente pull factor alle partenze. In questo senso, credo sia necessario rilanciare due proposte: la responsabilità dello stato di bandiera rispetto allo sbarco di chi viene fatto salire sulle navi, e la rotazione dei porti europei».
Lampedusa già ridotta allo stremo: «Presto non potremo più lavorare»
«Nuovi flussi dall’Africa? Fino a oggi le emergenze le abbiamo affrontate e siamo riusciti ad andare avanti. Se ci saranno situazioni straordinarie adotteremo strumenti adeguati di concerto con il ministero dell’Interno. Ma il vero problema è che l’eventuale aggravarsi dei flussi migratori andrebbe a impattare su una condizione dell’isola già critica». Lampedusa è il primo approdo per i barconi che partono dalle coste nordafricane. Un paio di settimane fa, nel giro di 24 ore sono arrivati più di 700 migranti e la macchina dell’accoglienza è andata sotto pressione, con l’hotspot pieno in attesa di avviare i trasferimenti sulle navi quarantena. Gli sbarchi proseguono a un ritmo crescente favoriti dal clima favorevole. Il sindaco dell’isola, Salvatore Martello, da tempo in prima linea nell’affrontare la gestione degli sbarchi, prospetta che questa estate la situazione potrebbe aggravarsi: «È inquietante il silenzio delle istituzioni italiane ed europee su quello che sta accadendo nel Mediterraneo. Il problema migratorio sembra scomparso dall’agenda del governo e da quella di Bruxelles. La guerra ucraina non solo rischia di aumentare la fuga dai Paesi africani ma sta già mettendo in difficoltà l’isola. Ci troviamo quindi ad affrontare un problema doppio».
A quale si riferisce? «Tutti i media sono concentrati su quello che dice il presidente russo Putin e che risponde il presidente americano Biden, ma nessuno ha il coraggio di dire che la crisi scatenata dalla guerra, con il gasolio alle stelle e l’elettricità raddoppiata, è più pericolosa del Covid. E siamo all’inizio. Non c’è nessun leader che dice di fermare la guerra, che sta arricchendo le imprese delle armi e ammazzando l’economia. Se qualcuno si azzarda a paventare i rischi che l’Italia corre, allora è messo alla porta dai talk show e censurato dalla stampa». Nessun parla, per esempio, della sopravvivenza di isole come Lampedusa: «Qui ci sono 200 pescatori che non riescono più a uscire in mare», dice Martello. «Una barca da 800 cavalli consuma in una notte 1.500 euro di gasolio e se la pesca non copre tale cifra, allora ci si può suicidare. Così qualcuno preferisce non affrontare questa incognita». Il sindaco spara a raffica: «La corrente elettrica è triplicata, le materie prime sono introvabili e i lavori pubblici si sono fermati perché i preventivi degli appalti sono saltati. La mancetta dei 200 euro del governo fa ridere. Frutta e verdura sono raddoppiati e pure il pane ogni giorno ha un prezzo diverso. È una situazione che inciderà anche sul turismo. Ma non si può dire, tutti zitti. Così quando mi si chiede se l’isola è pronta a gestire eventuali maggiori flussi di migranti dall’Africa, spinti dall’emergenza della crisi agro-alimentare e dalla fame, io dico che l’emergenza della guerra, per noi è già cominciata. La crisi scatenata dal conflitto, qui già morde. Non sono solo i barconi in più a metterci in difficoltà. Siamo già in difficoltà».
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I rincari delle materie prime e il blocco delle derrate da Russia e Ucraina stanno affamando l’Africa, con il rischio di nuove massicce ondate di disperati in fuga non dalle guerre, ma per fame. Un’emergenza che per l’Ue non esiste.Il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni: «Draghi inascoltato quando chiese di modificare il trattato di Dublino. E i rimpatri non funzionano».Il sindaco di Lampedusa, Salvatore Martello: la pesca e il turismo sono fermi e le istituzioni tacciono. Lo speciale contiene tre articoli.L’attenzione generale è concentrata sull’evoluzione del conflitto in Ucraina ma c’è un effetto collaterale che finora non è stato messo nell’agenda europea e nemmeno italiana, anche se toccherebbe da vicino il nostro Paese. È il rischio di una migrazione di massa dall’Africa spinta dall’intensificarsi dei problemi economici e agro-alimentari. Il blocco russo dei container nei porti del Mar Nero, carichi di grano e mais (ben 25 milioni di tonnellate sono ferme), sta mettendo a dura prova i Paesi africani. Il prolungamento della guerra porterà in Ucraina al taglio delle semine primaverili di cereali. Saranno dimezzate su una superficie di 7 milioni di ettari rispetto ai 15 milioni precedenti l’invasione della Russia. Il che si aggiunge alle difficoltà del commercio internazionale di materie prime agricole. Le Nazioni Unite hanno già lanciato l’allarme per il pericolo di una catastrofe globale sul piano agricolo e alimentare come mai era accaduto dalla seconda guerra mondiale, quale effetto collaterale del conflitto ucraino. Secondo un’analisi di Coldiretti sulla base dei dati del centro studi Divulga, rischia di venire a mancare oltre un quarto del grano mondiale. Ucraina e Russia controllano assieme il 28% degli scambi internazionali di frumento, con oltre 55 milioni di tonnellate movimentate, ma anche il 16% del mais (30 milioni di tonnellate) per l’alimentazione degli animali negli allevamenti e ben il 65% degli scambi di olio di girasole (10 milioni di tonnellate). Milioni di tonnellate di grano sono intrappolate in magazzini a terra o su navi che non possono muoversi. Il direttore esecutivo del World food programme, David Beasley, l’ha definita una «catastrofe su catastrofe» sottolineando che «44 milioni di persone nel mondo stanno marciando verso la fame». Ha aggiunto che «il tempo sta per scadere e il costo dell’inerzia sarà più alto di quanto si possa immaginare». Se i porti non dovessero riaprire i contadini ucraini non avranno un luogo dove conservare il prossimo raccolto di luglio e agosto, è lo scenario tracciato dal Wfp, con il risultato che «montagne di grano andranno perse» mentre il mondo implora aiuto.In questo momento in Africa 1 persona su 5 ( 282 milioni di abitanti) soffre di denutrizione e 93 milioni di persone in 36 Paesi stanno rimanendo senza cibo. I Paesi colpiti da guerre, guerriglie e violenze sono 20 con 7 colpi di Stato che si sono verificati solo nell’ultimo anno. Secondo Oxfam, i beni alimentari in tutto il continente sono schizzati alle stelle, più alto del 30-40% rispetto al resto del mondo, in proporzione al Pil pro capite. La Fao ha denunciato un aumento record del costo dei prodotti alimentari, un trend che può avere affetti destabilizzanti in molti Paesi poveri, soprattutto in Nord Africa. In Libia, Egitto, Tunisia, Algeria non arrivano più le navi cariche di grano a causa del conflitto russo. Il Libano deve l’81% delle sue forniture di cereali all’Ucraina. Il Cairo sta trattando con mercati alternativi e ha avviato la stagione di approvvigionamento di grano con due settimane di anticipo per non rimanere a secco. Una contestazione di agricoltori contro il governo si è svolta in Libano, all’inaugurazione della fiera agricola di Tripoli dove erano presenti alte cariche politiche.Questo mix di fattori, ovvero l’instabilità politica, l’aumento delle materie prime e la crisi agroalimentare creano sfollati, profughi, migranti. All’esodo di centinaia di migliaia di persone dall’Ucraina si aggiungerebbero nuove ondate dal Nord Africa. L’Europa è pronta a gestirle? Domanda retorica. Il blocco delle esportazioni e i rincari di materie prime e carburanti colpiscono le industrie e allargano le fasce di povertà. Il flusso migratorio impatterebbe su un’Europa che ancora non si è data nuove regole di redistribuzione degli arrivi. Non solo. Frontex, l’agenzia di controllo delle frontiere Ue, da mesi coinvolta in scandali e polemiche, ha subito un altro terremoto. Il direttore Fabrice Leggeri si è dimesso. L’agenzia è stata più volte accusata di compiere respingimenti dei richiedenti asilo, vietati dalle norme Ue. Una bufera che cade in un momento critico. Va ricordato poi che nelle strategie delineate dal bilancio settennale della Ue, la pubblica amministrazione europea riceve più del doppio di quanto è destinato alle gestione dell’immigrazione e alla sicurezza. Alla macchina burocratica sono riservati 73,1 miliardi, ben 10 miliardi in più rispetto al precedente bilancio (61,6 miliardi). Alla voce Migrazione e gestione delle frontiere, che si occupa di diritto di asilo, vanno solo 22,67 miliardi. E quale Paese sarà coinvolto di più dall’esodo africano? Risposta scontata: l’Italia. 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Ma non possiamo essere lasciati da soli a gestire un’ondata migratoria che si annuncia senza precedenti. Sono molto preoccupato. Il problema va affrontato e risolto in sede europea. Se così non dovesse essere, come mi pare finora, allora ogni Paese sarà legittimato ad agire per conto proprio». Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno, è un fiume in piena. Quali sono i numeri degli sbarchi a oggi? «Siamo già ben oltre i 13.000 dall’inizio dell’anno. E negli ultimi giorni registriamo una intensificazione importante e allarmante degli arrivi che interessa, oltre alla Sicilia e a Lampedusa, il cui hotspot è nuovamente in una situazione di criticità, anche Puglia e Calabria. Pensiamo a Roccella Ionica, una delle realtà maggiormente toccate dagli sbarchi. I Paesi di provenienza quest’anno sono soprattutto Egitto, Tunisia, Bangladesh e Afghanistan. Molto preoccupante è la rotta del Mediterraneo orientale, ovvero dalla Turchia. Nel momento in cui il nostro Paese è impegnato ad accogliere i profughi ucraini, un incremento dei migranti da Sud rischia di generare tensioni sui territori e di essere difficilmente controllabile». Il coinvolgimento dell’Europa è fondamentale. Avete avuto segnali? «Manca al momento una risposta europea al problema. Il presidente Draghi ha chiesto per l’ennesima volta la modifica dei trattati, a cominciare da quello di Dublino che scarica tutto il sistema dell’accoglienza sui Paesi di primo approdo, e in particolare su Italia e Spagna. Non vedo la volontà delle istituzioni europee di mettervi mano». Eppure la discussione è in corso, a che punto siamo? «Il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, da due anni in discussione a Bruxelles, mi sembra che non stia arrivando a nulla di positivo. I famosi rimpatri volontari, assistiti o forzati, non funzionano, e gli accordi bilaterali di partenariato con i Paesi di partenza e di transito, penso a Libia e Tunisia, con investimenti commerciali europei, sono a un punto morto». Un aiuto non può venire nemmeno dai Paesi dell’Est Europa impegnati con i rifugiati ucraini, che ne pensa? «I Paesi di Visegrad, spesso accusati di insensibilità nei confronti dei problemi migratori, in realtà stanno mostrando una grande generosità perché gran parte dei 5 milioni di ucraini che hanno lasciato le loro case sono accolti soprattutto dai Paesi confinanti come Polonia, Ungheria e Moldavia. Sono profughi politici e hanno il diritto di avere la protezione temporanea. I migranti dall’Africa, invece, sono migranti economici, non scappano da guerre e persecuzioni e non possono essere oggetto di protezione internazionale. L’anno scorso, in Italia, su 100 domande di asilo, 56 sono state respinte. È impensabile che il nostro Paese possa farsi carico dei flussi climatici». E l’accordo di Malta? «Il meccanismo della redistribuzione dei migranti, così come era partito con l’accordo del 2019, è sostanzialmente bloccato. Oggi il problema principale sono i movimenti da Sud. O c’è una risposta europea, cosa che Draghi ha sollecitato nell’ultima plenaria a Strasburgo dicendo che le istituzioni europee sono inadeguate e i trattati vanno modificati, oppure ogni Stato è legittimato a difendere i propri confini». Come? «Con Matteo Salvini ministro dell’Interno, gli sbarchi nel Paese sono stati drasticamente ridotti, così come le morti nel Mediterraneo. O c’è una risposta europea a un fenomeno globale oppure è legittima una risposta nazionale. Come sta facendo la Grecia. Il migrante economico o climatico dovrebbe essere bloccato alla partenza, attraverso gli accordi di partenariato che l’Europa avrebbe dovuto fare e che finora non ha fatto, o dovrebbe essere rimpatriato in modo volontario o forzato. Tutto il peso delle migrazioni da Sud ricade sul nostro Paese. Ed è una situazione destinata ad aggravarsi e rischia di essere esplosiva a causa del conflitto ucraino e della carenza di approvvigionamento alimentare. I decreti sicurezza di Salvini sono intervenuti sul problema immigrazione usando strumenti normativi, non alzando muri. E per la difesa dei confini nazionali, Salvini è stato addirittura mandato a processo». Quanti sbarchi si stimano entro l’anno? «In base ai flussi attuali, dovremmo arrivare a 80.000 arrivi. Ma con gli strascichi della pandemia, con 110.000 ucraini in accoglienza, con 7.000 afghani arrivati l’anno scorso e considerati i flussi dall’Africa spinti dai problemi alimentari, il sistema di inclusione non può che andare in difficoltà. Un’occasione per affrontare subito il problema è offerta da Frontex». Ma il direttore di Frontex si è dimesso. «Frontex è l’unica agenzia europea che fa difesa e protezione dei confini. Ovviamente qualcosa non ha funzionato. Credo che in questo momento l’Italia possa chiedere che il prossimo direttore sia italiano, oppure spagnolo o greco. Questo è ancora più necessario alla luce della rinnovata, forte presenza delle navi delle Ong nel Mediterraneo, che è un evidente pull factor alle partenze. 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Ma il vero problema è che l’eventuale aggravarsi dei flussi migratori andrebbe a impattare su una condizione dell’isola già critica». Lampedusa è il primo approdo per i barconi che partono dalle coste nordafricane. Un paio di settimane fa, nel giro di 24 ore sono arrivati più di 700 migranti e la macchina dell’accoglienza è andata sotto pressione, con l’hotspot pieno in attesa di avviare i trasferimenti sulle navi quarantena. Gli sbarchi proseguono a un ritmo crescente favoriti dal clima favorevole. Il sindaco dell’isola, Salvatore Martello, da tempo in prima linea nell’affrontare la gestione degli sbarchi, prospetta che questa estate la situazione potrebbe aggravarsi: «È inquietante il silenzio delle istituzioni italiane ed europee su quello che sta accadendo nel Mediterraneo. Il problema migratorio sembra scomparso dall’agenda del governo e da quella di Bruxelles. La guerra ucraina non solo rischia di aumentare la fuga dai Paesi africani ma sta già mettendo in difficoltà l’isola. Ci troviamo quindi ad affrontare un problema doppio». A quale si riferisce? «Tutti i media sono concentrati su quello che dice il presidente russo Putin e che risponde il presidente americano Biden, ma nessuno ha il coraggio di dire che la crisi scatenata dalla guerra, con il gasolio alle stelle e l’elettricità raddoppiata, è più pericolosa del Covid. E siamo all’inizio. Non c’è nessun leader che dice di fermare la guerra, che sta arricchendo le imprese delle armi e ammazzando l’economia. Se qualcuno si azzarda a paventare i rischi che l’Italia corre, allora è messo alla porta dai talk show e censurato dalla stampa». Nessun parla, per esempio, della sopravvivenza di isole come Lampedusa: «Qui ci sono 200 pescatori che non riescono più a uscire in mare», dice Martello. «Una barca da 800 cavalli consuma in una notte 1.500 euro di gasolio e se la pesca non copre tale cifra, allora ci si può suicidare. Così qualcuno preferisce non affrontare questa incognita». Il sindaco spara a raffica: «La corrente elettrica è triplicata, le materie prime sono introvabili e i lavori pubblici si sono fermati perché i preventivi degli appalti sono saltati. La mancetta dei 200 euro del governo fa ridere. Frutta e verdura sono raddoppiati e pure il pane ogni giorno ha un prezzo diverso. È una situazione che inciderà anche sul turismo. Ma non si può dire, tutti zitti. Così quando mi si chiede se l’isola è pronta a gestire eventuali maggiori flussi di migranti dall’Africa, spinti dall’emergenza della crisi agro-alimentare e dalla fame, io dico che l’emergenza della guerra, per noi è già cominciata. La crisi scatenata dal conflitto, qui già morde. Non sono solo i barconi in più a metterci in difficoltà. Siamo già in difficoltà».
Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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Getty Images
Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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