2018-06-22
«È troppo tardi per fermare la riforma Bcc»
Il segretario della Fabi, Lando Maria Sileoni, sulla moratoria proposta dal governo: «Le modifiche erano da stoppare subito, adesso temo non basti una legge. La vigilanza di Bankitalia ora funziona. In passato, oltre agli errori, ha pesato pure il taglio delle filiali voluto da Draghi».Il mondo politico e pure quello bancario tornano a occuparsi del credito cooperativo. Il giorno del suo insediamento, il premier Giuseppe Conte ha lanciato una bomba. Ha infatti annunciato la propria volontà di rivedere la riforma delle Bcc avviata dal governo Renzi. L'ipotesi sarebbe quella di intervenire in modo trasversale applicando al comparto un «Ips» (institutional protection scheme). In pratica i gruppi bancari, invece di essere considerati entità giuridiche a tutti gli effetti, si consorzierebbero sotto l'ombrello di un accordo di responsabilità contrattuale. Con la differenza rispetto alla riforma originaria che gran parte delle Bcc resterebbe sotto la vigilanza di Bankitalia. Ieri il presidente della commissione Finanza al senato, Alberto Bagnai, ha insistito sulla necessità di avviare la moratoria della riforma. Abbiamo chiesto al numero uno della Fabi (il principale sindacato del settore bancario), Lando Maria Sileoni, di fare il punto sull'opportunità di intervenire su un percorso che per oltre il 60% è già stato completato.«Noi stiamo incontrando i referenti dei diversi partiti e movimenti che si occupano della riforma Bcc. Riteniamo che i rapporti tra il credito cooperativo, le famiglie e i territori non dovessero essere cambiati. In tema di sofferenze, le Bcc non hanno mai creato allarmi. Semmai c'è stato troppo immobilismo nel settore, nel momento in cui Matteo Renzi è intervenuto cambiando le regole. Allora si sarebbero dovute mettere in piedi barricate. Invece i sette più autorevoli personaggi italiani delle Bcc sono stati attendisti e interventisti solo a parole. Adesso tornare indietro applicando lo schema “tedesco" è molto complicato e costoso, visto gli investimenti avviati dai tre principali gruppi. Aggiungo che immaginare che possa bastare una nuova legge per intervenire nei rapporti di vigilanza con la Bce è un po' troppo semplicistico. La vedo abbastanza ardua».Stesso discorso per le Popolari?«Ovviamente noi ci siamo espressi da subito. La riforma Renzi ha allontanato i sindacati dai luoghi dove potevano essere espressi pareri costruttivi, con il voto capitario i dipendenti soci avevano un ruolo determinante nello scegliere il proprio management. Anche in quel caso il fronte dei banchieri non è certo stato compatto. Esattamente come è accaduto tra le varie Bcc».Lasciare la vigilanza sotto il cappello della Bankitalia è opportuno, visto quanto accaduto con le Venete. Solo per fare un esempio.«Gli errori commessi in passato sono certo non si riverificheranno in futuro. Sul tema della vigilanza ci sono state numerosi ritardi, adesso l'impronta è molto vicina a quella della Bce. Per cui non vedo alcun tipo di problematica nell'immaginare il comparto cooperativo sotto il cappello di Palazzo Koch. Vale comunque la pena tornare indietro nel tempo,a quando Mario Draghi era governatore. Fu lui a decidere la chiusura di numerose filiali lungo la penisola. Quella scelta però ha impattato notevolmente sulla vigilanza e sulla capacità di mantenere un punto di vista diretto e immediato sulle problematiche dei singoli istituti. Ovviamente al netto dei palesi ritardi su eventi più recenti».La vigilanza della Bce però non rischia di schiacciare le Bcc?«I grandi gruppi bancari si lamentano dall'atteggiamento della Bce, sempre in continuo pressing. La stessa posizione nei confronti del credito cooperativo sicuramente creerebbe problemi. Basti immaginare che in molte realtà manca ancora una adeguata e capillare organizzazione in grado di confrontarsi con gli inviati della Bce. Comunque la nostra preoccupazione oggi è anche un eventuale rialzo dello spread che potrebbe indurre a far scendere i titoli delle banche italiane in borsa. Carlo Messina di Intesa ha detto che a 32-33 miliardi di euro il gruppo è a rischio scalata. Ha ragione perché varrebbe 0,6 volte il patrimonio. Ora Intesa fa utili e si è ripulita dalle sofferenze, ma a quel prezzo diventa preda e non predatore. A noi interessa salvaguardare i posti di lavoro di ogni istituto bancario».Al di là delle evoluzioni future ci sono problematiche vecchie che affliggono il comparto. Mi riferisco a esuberi, uscite e gestione del personale. I piani industriali definiti nel 2017 prevedono 22.000 esuberi e 7.000 sportelli da chiudere. Quelli trattative state portando avanti sul tema contratti?«I nuovi temi aperti sono tre. Il primo riguarda lo smart working, il secondo il contratto ibrido e l'ultima novità emersa dall'esecutivo Abi di mercoledì riguarda l'ipotesi di spezzare in due lo stipendio di un dipendente. Una parte fissa e una variabile».La vostra posizione?«Sul contratto ibrido che prevede una quota di lavoro da promotore finanziario abbiamo già detto no. Sullo smart working c'è ancora molto da discutere, ma il tavolo è aperto e non vogliamo comunque parlare di grandi numeri di personale. Sulla terza ipotesi faremo le barricate. Legare la retribuzione annua all'andamento del budget della filiale o alla capacità dei singoli di vendere specifici prodotti rischia di disallineare l'intero comparto. Chi lavora per una banca in utile guadagnerebbe molto di più».Non vede rischio di conflitto d'interessi? Spingere i propri dipendenti a vendere prodotti o polizze che magari non sono idonee al cliente in questione?«Sì, il rischio c'è e va sicuramente evitato».Sempre più It e Fintech entrano in banca: serviranno riconversioni del personale?«Se le riconversioni servono a evitare licenziamenti siamo pronti a discuterle con le banche. Con un paletto, però. Ovvero che le nuove professioni restino nel perimetro del contratto dei bancari».
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?