
Nel corso dei secoli, vari autori hanno proposto una tesi controversa quanto affascinante: la Penisola sarebbe stata la sede di una civiltà originaria avanzatissima, poi distrutta da una catastrofe immane. E ora il tema finisce persino in un romanzo.Prima gli italiani. Ma in senso letterale: prima di tutti sono venuti gli italiani. Qui, sulla terra che calpestiamo e indegnamente abitiamo ancora oggi, all'alba dei tempi si sarebbe sviluppata la più grande delle civiltà antiche, da cui poi sarebbero nate tutte le altre che abbiamo studiato a scuola. L'ipotesi - visionaria ma affascinante - non è nuova, anzi. Si tratta di una suggestione che ha attraversato i secoli, alimentata da una cultura underground ma che spesso ha intersecato anche quella ufficiale. E che, anche in questi giorni, rimbalza nell'attualità libraria. Accade così che Melchisedek, casa editrice del gruppo Lindau, ristampi il saggio Sulla tradizione occidentale, di Arturo Reghini, pubblicato originariamente nella rivista Ur nel 1928 per contestare la pretesa, avanzata soprattutto da alcuni esoteristi francesi, che Roma non abbia ospitato una tradizione degna di questo nome, quasi fosse esclusivo appannaggio della Grecia e dei Paesi orientali. Ma, in senso più ampio, si trattava di ribadire un concetto molto caro agli studiosi che si riunivano attorno a Ur, ovvero l'antichità e addirittura la primazia del patrimonio spirituale delle genti italiche. Personaggio particolare, il Reghini: massone e teorico della massoneria, riconduceva tutta la «libera muratoria» a un percorso spirituale di tipo pitagorico e, neanche a dirlo, schiettamente italico, considerando tutto l'aspetto lobbistico e affaristico delle logge come una derivazione moderna di marca anglosassone. Visione certamente poco realistica della massoneria contemporanea, ma che testimonia comunque il senso di una temperie culturale tipica di quegli anni. Temperie che funge da espediente narrativo, e anche qualcosa più di un espediente, anche per un romanzo appena pubblicato dalla casa editrice Altaforte: L'occhio del Vate, di Carlomanno Adinolfi. Una sorta di Codice da Vinci in chiave romano-italica, ma in cui la traccia culturale e spirituale assume ben altra profondità. Al centro del romanzo c'è Valerio Pillari, di mestiere cacciatore senza scrupoli di testi antichi e libri rari per ricchi collezionisti. La sua vita cambia quando un enigmatico cliente gli commissiona il ritrovamento di un ipotetico e sconosciuto seguito de Le vergini delle rocce di Gabriele D'Annunzio, mentre per altri versi si ritrova a dover indagare circa un misterioso medaglione appartenuto proprio al Vate. Le ricerche portano Pillari alle prese con le forze arcane che tentarono di influenzare gli esiti delle due guerre mondiali e che, forse, sono in azione ancora oggi per una battaglia spirituale dietro le quinte delle sfide politiche. Intreccio narrativo a parte, il romanzo funge anche da ottima guida sul tema del «primato italico», fiume carsico di tutto il volume. Un po' per volta, nel libro scorrono tutti i nomi degli studiosi che nel corso degli anni e dei secoli hanno toccato il tema. Si tratta, insomma, di un «mito bimillenario», come ha scritto lo studioso Paolo Casini in un saggio critico uscito qualche anno fa per il Mulino, L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito (ma può un «mito» - termine che in Casini suona al pari di «favola» - agire sugli spiriti per duemila anni e non essere, in qualche modo, «vero», cioè foriero di effetti sul reale?).Snodo fondamentale per la costruzione del mito fu la pubblicazione, nel 1840, del saggio Delle origini italiche e della diffusione dell'incivilmento italiano all'Egitto, alla Fenicia, alla Grecia e a tutte le nazioni asiatiche poste sul Mediterraneo, scritto da Angelo Mazzoldi. Questo visionario studioso ipotizzava l'esistenza di una Tirrenide primordiale, ovvero un'Italia geologicamente configurata in maniera completamente diversa rispetto a oggi, abitata da tribù altamente civilizzate. Sulla Tirrenide si sarebbe però abbattuta una gigantesca manifestazione di tipo vulcanico che cambiò completamente la superficie dell'area geologica e costrinse molti popoli italici a migrare in Grecia, in Egitto e nella Mezzaluna fertile, fondando le relative civiltà. Insomma, la vera Atlantide sarebbe stata... l'Italia. L'opera di Mazzoldi ebbe grande successo, generando tutta una serie di epigoni, tra i quali ricordiamo Camillo Ravioli (Prima tellus, 1859), Ciro Nispi-Landi (Roma monumentale dinanzi all'umanità: il Settimonzio sacro, 1892), Guido Di Nardo (La Roma preistorica sul Palatino, 1934), Evelino Leonardi (Le origini dell'uomo, 1937), Giuseppe Brex (Saturnia tellus, 1944). Si tratta, beninteso, di studiosi genialoidi ma dai forti tratti monomaniaci, pronti a sacrificare il rigore filologico alla ricerca di «verità» accattivanti ma indimostrabili. Eppure il libro di Mazzoldi ebbe profonda influenza anche su Vincenzo Gioberti, che nel 1843 scrisse il suo Del Primato morale e civile degli italiani, uno dei testi cardine del Risorgimento. Anche Giuseppe Mazzini lesse con interesse il testo di Mazzoldi, traendone l'idea dell'archetipo eterno di Roma. Ma non bisogna dimenticare che il mito del primato italico aveva avuto anche illustri precedenti, come il De antiquissima italorum sapientia di Giambattista Vico (1710) e il romanzo storico Platone in Italia di Vincenzo Cuoco (1806), che facevano anch'essi dell'Italia arcaica la sede di una sapienza purissima, in grado di illuminare tutte le grandi civiltà circostanti. Fantasie? Non le peggiori a cui da queste parti si sia creduto, in ogni caso.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






