2022-11-13
È ora di capire che l’Ue deve essere un mezzo e non un fine
Emmanuel Macron e Giorgia Meloni (Ansa)
Presto Roma stringerà con Berlino un accordo simile a quello fatto con Parigi: una sfida alle istituzioni. La struttura continentale vince se sa moltiplicare le forze: passiamo dall’eurolirismo all’eurorealismo.È il momento giusto, non solo per il trentennale del Trattato di Maastricht (1992) che diede vita all’Unione, per fare un’analisi di destino dell’Ue da cui derivare una «grande strategia», cioè una linea (geo)politica che resti duratura nel tempo, perché sta montando un nuovo tema di collocazione e missione globale dell’Ue stessa che necessariamente dovrà interagire con la riorganizzazione interna che sarà discussa nel 2023. Il punto: la costruzione europea deve essere un mezzo e non un fine.In tutte le altre nazioni dell’Ue queste parole sarebbero scontate: per tutte, infatti, l’Ue è un moltiplicatore potenziale della forza nazionale. Tutte, poi, calcolano la relazione costi/benefici tra cessione della sovranità a un agente europeo e mantenimento della stessa. L’eccezione è l’Italia, dove finora hanno prevalso il concetto di Europa come fine, e dove il bilanciamento tra sovranità ceduta e mantenuta mostra squilibrio a favore della prima. Il motivo è il ricorso da decenni al «vincolo esterno» per cercare di mettere ordine in una nazione incapace di darselo in modo autonomo perché caratterizzata da un’architettura costituzionale di «governabilità orizzontale», inefficace, e non «verticale», essenziale per le decisioni ordinative. La retorica di accompagnamento ha installato nella mente di buona parte degli italiani un «europeismo lirico» che comporta una disponibilità all’auto-annessione in un’Europa che non c’è. Infatti, l’«agente europeo», dal 1963, è fatto da una diarchia franco-tedesca, dove Parigi persegue una sovranità europea franco-centrica per ottenere scala sufficiente per interloquire con le grandi potenze mondiali, monetizzando l’arma nucleare e il posto nel Consiglio di sicurezza dell’Onu (finora fallendo), e la Germania cerca il dominio del mercato interno europeo come leva per ampliare il raggio del suo export che bilancia l’inefficienza consociativa del modello economico interno: l’ha fatto con successo fino alla fine del 2021, nel 2022 è andata kaputt. Va detto che l’Italia, per sua debolezza, non ha avuto molto spazio per liberarsi dal peso franco-tedesco e anche per questo ha scelto, dopo il 1963, il metodo del pugile suonato: abbracciare chi ti picchia per depotenziare i colpi. Roma non è stata del tutto sprovveduta: ha enfatizzato la lealtà atlantica accostandola a quella europea per cercare un difensore, i suoi funzionari hanno fatto lotte epiche per mitigare l’annessione franco (più) - tedesca (meno), ma la politica non è riuscita a esprimere forza negoziale sufficiente. Va detto che le relazioni italo tedesche erano molto buone fino ai primi anni ’90, quando c’erano le due Dc al potere: fatto annotato dai conservatori europei a conduzione italiana nel dialogo con i popolari a conduzione tedesca in vista delle Europee 2024. Ciò crea inquietudine a Parigi, e la necessità dissuasiva di comprimere l’Italia (questione dei migranti). Di qui la rinnovata nostra volontà di chiudere con Berlino un bilaterale simile a quello del Quirinale coi francesi (i quali a loro volta hanno sottoscritto Aquisgrana). In sintesi, la cultura italiana deve liberarsi dall’europeismo lirico e passare a uno realistico. Per rinazionalizzarsi, divergendo? No: per rendere l’alleanza un vero moltiplicatore di forza, sicurezza e ricchezza per le sue nazioni, cosa che l’Ue non è più. È piccola in relazione ai giganti nel mondo. È debellicizzata e quindi non può dissuadere da sola nella nuova era della deterrenza. Non può più essere mercantilista, cioè vendere a tutti indipendentemente dalla geopolitica, perché è guerra tra democrazie e regimi autoritari (enorme problema per la Germania ma anche per noi). Pertanto l’Ue deve diventare estroversa per conquistare più forza politica, militare e di mercato. Come? Diventando un mezzo per costruire il fine: un’alleanza globale delle democrazie che comporti una «ri-globalizzazione selettiva», in forma di mercato con standard comuni, capace di contrastare la «de-globalizzazione conflittuale» e rafforzare le relazioni utili con l’area grigia (Africa, Sudamerica, Pacifico non cinesizzato) in mezzo ai blocchi democratico e autoritario. Un mezzo: come? Contribuendo a strutturare l’alleanza tra nazioni avendo maturato l’esperimento della Comunità europea (1957-1992) basata sul metodo funzionalista (pragmatico, consensuale). Si tratta di spingere un G7 allargato verso una strutturazione crescente. Per ottenere l’alleanza/mercato globale delle democrazie sarebbe più utile statualizzare l’Ue o renderla un’alleanza flessibile capace di ospitare e/o inserirsi in alleanze più ampie? L’ipotesi di chi scrive è che un certo grado di strutturazione è necessario per non cedere troppa sovranità al potere americano che è maggiore (dollaro, arsenale, tecnologia, mercato liberalizzato), ma questa non deve ostacolare relazioni integrate con l’America stessa, Giappone, Australia, Regno Unito e le altre democrazie che si aggiungeranno: una Free Community protetta da una Nato globale simile alla Comunità europea del passato, ma dominante nel pianeta. Tale configurazione sarebbe anche carica di valore morale: sostenere ogni democrazia e democratizzazione nel pianeta attraverso un modello di «sovranità nazionali convergenti e reciprocamente contributive». Chi scrive raccomanda ricerca e dibattiti in materia in un momento in cui la diarchia franco-tedesca si è rotta e Berlino potrebbe essere aperta a pensieri simili a quelli qui abbozzati. Riferimenti bibliografici: La grande alleanza (Angeli, 2006); Europa oltre (Angeli, 2015); La riparazione del capitalismo democratico (Rubbettino, 2021).www.carlopelanda.com
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Emmanuel Macron e Pedro Sánchez (Getty Images)