2020-03-30
«È la Chernobyl di Pechino. E il regime rosso capitolerà»
Il politologo Edward Luttwak: «Il popolo incolpa Xi. Trump? Se salva l'economia vincerà le elezioni».Il coronavirus potrebbe determinare profondi stravolgimenti sotto il profilo geopolitico. I già complicati rapporti tra Washington e Pechino rischiano di peggiorare ulteriormente, mentre si avvicinano sempre più le elezioni presidenziali statunitensi. Per cercare di fare chiarezza sugli scenari futuri, La Verità ha deciso di interpellare il politologo statunitense, Edward Luttwak. Professor Luttwak, quali sono gli impatti geopolitici che questa pandemia potrà avere nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina?«È una situazione complicata adesso, perché il regime cinese si è messo molto a rischio. Ha causato l'esplosione della pandemia, non solo mettendo a tacere il medico (Li Wenliang, ndr) ma anche insistendo nel procedere con la merenda di 40.000 persone il 19 gennaio a Wuhan: decisioni che sono state prese dal Partito comunista cinese. Il risultato è che - se anche in Italia e nel mondo se ne sono tutti dimenticati - nel mondo cinese (non solo Taiwan, Singapore e Hong Kong, ma anche dentro la Cina) c'è stata - nonostante la censura - una specie di reazione massiccia di disgusto contro il regime. E, poiché il presidente Xi Jinping ha voluto personalizzare questo regime (invece di fare come il suo predecessore Hu Jintao, che era primus inter pares), è lui che viene condannato. Nonostante la censura automatizzata, si usano caratteri atipici e linguaggio esopico, per dire essenzialmente che Xi Jinping è una figura che deve andar via. Alcuni vogliono farla finita con lui, altri più o meno con il partito. Questa è la Chernobyl del regime cinese. Ora, i social media sono controllati con ogni possibile mezzo, sia manualmente che usando strumentazioni automatiche: fa dunque ancora più impressione vedere che cosa sta succedendo. In Italia mandano aiuti e trovano qualche sciuscià che è disposto a pulir loro le scarpe. Hong Kong, Singapore e Taiwan hanno invece deciso che vogliono avere rapporti magari con il Paraguay, ma non con la Cina se non molto, molto profittevoli. Di unificazione politica non se ne parla, ma anche i rapporti culturali sono malvisti. È assurdo quindi lo spettacolo di persone in Europa che abbracciano la Cina, quando i cinesi la rifiutano».Quindi lei ritiene che, da qui a un periodo ragionevolmente limitato di tempo, in Cina possa verificarsi qualche sconvolgimento politico significativo?«Quella è la fine certa, ma sine die. Quello che invece è certo è che la politica americana ha iniziato uno scontro politico che finirà con la caduta del regime cinese. Questa è la scelta dei democratici e di tutti, l'amministrazione Trump quindi gode di un consenso totale nella nuova lotta contro la dittatura cinese. Gli unici alleati forti che l'America ha sono il Giappone, l'India, il Vietnam (da soli con più soldi, più persone e più tecnologia della Cina), e una proporzione crescente del popolo cinese. Quelli liberi, a Hong Kong, Taiwan e Singapore lo dichiarano ogni giorno».Dal punto di vista interno americano, quali conseguenze potrà avere questa pandemia sulle elezioni presidenziali di novembre?«Ci sono due fattori separati. Il primo è l'incertezza del risultato e l'incertezza della gestione di crisi ogni giorno, perché ogni giorno Donald Trump rischia di dire qualcosa che distrugga consenso in suo favore. Per adesso, la crisi gli ha dato una piattaforma quotidiana con le conferenze stampa giornaliere e il risultato è stato un aumento del consenso per lui. Questo perché ha preso numerose decisioni giuste e tutti lo sanno: a partire dalla chiusura dei voli di collegamento con la Cina. Questo è un fattore che implica successo adesso, ma il domani resta incerto, perché tutto può accadere. Poi c'è un secondo fattore, che è la questione della tempistica, molto favorevole per Trump. Senza questo virus, Trump sarebbe entrato in campagna elettorale con un'economia che stava rallentando e una Borsa che doveva scendere: quindi si avvicinava in declino alle elezioni. Adesso, se tutto va bene, c'è la possibilità che ci sia un recupero. Anche questo è complicato, perché se questo virus si calma o scompare addirittura in giugno e luglio, c'è sempre la possibilità che poi ricompaia nel momento più scomodo: in ottobre. Quindi siamo in un mondo di incertezze elettorali».Lei ritiene che sarà Joe Biden il candidato dei democratici alle presidenziali di novembre?«Sì. Sicuramente sarà Joe Biden. Il problema con Joe Biden è che, pur essendo una persona per bene, è molto fragile».In che senso «fragile»?«È fragile fisicamente. E, in certi momenti, non si ricorda di alcune cose».Venendo invece alla Russia, come ritiene che si stia muovendo il Cremlino nel fronteggiare il coronavirus? Crede inoltre che la pandemia produrrà conseguenze nelle relazioni tra Mosca e Pechino?«I rapporti tra la Russia e la Cina sono definiti dalla geografia. La Siberia si sta svuotando di persone: già adesso la sola città di Shenyang ha più gente che la Siberia a Est del lago Baikal. Non è l'America che confina con la Siberia vuota, è la Cina. È questo il fatto decisivo, che chiude la questione. Dall'altra parte, per la gestione del coronavirus in Russia è stato usato il “metodo russo", cioè soppressione della verità e suggerimento del falso: suppressio veri et suggestio falsi. Perché, quando la gente a Mosca è malata di qualsiasi virus riceve comunque la diagnosi che non è il coronavirus del Sars 2. Hanno 2.000 respiratori a Mosca, ma Mosca ha 15 milioni di abitanti, con moltissimi immunocompromessi per ragioni di fumo, fegato, polmoni».Che ne sarà del tentativo di distensione tra Trump e Vladimir Putin?«Dall'inizio Trump voleva andare contro la Cina e quindi non contro la Russia. È tuttavia stato bloccato efficacemente dai democratici, con l'accusa di collusione. E poi è stato bloccato dal fatto che i russi hanno attuato una politica sciocca, non dandogli niente. Se avessero eseguito un paio di ritirate, piccole ritirate tattiche dall'Ucraina, allora Trump avrebbe potuto abbassare le tensioni. Invece ha dovuto lasciar stare, perché Mosca ha detto: “Noi non facciamo regali". Brutto errore in questa situazione».
Charlie Kirk (Getty Images)