2020-03-09
Un commissario contro i danni del governo
Bisogna restare a casa. Se il governo avesse spiegato quello che c'era da spiegare a proposito dell'epidemia che sta mettendo in ginocchio l'Italia e il mondo, il mio articolo si potrebbe anche chiudere qui, perché altro da aggiungere non ci sarebbe. Purtroppo, la politica, e ahinoi anche qualche presunto esperto, di pronunciare il semplice e perentorio invito a mettersi in auto quarantena per una settimana o un mese non ha avuto il coraggio. Fino all'ultimo si sono preferiti i messaggi tranquillizzanti e consolatori, preoccupandosi più di non diffondere la paura che di fermare il contagio. Il risultato è che anche di fronte a un aumento esponenziale dei malati e alle notizie allarmanti che arrivano dalle corsie degli ospedali, molte persone continuano a non assumere (...)(...) le precauzioni necessarie a evitare la diffusione del coronavirus.Che il governo sia impreparato ad affrontare una simile fase dell'emergenza lo dimostra anche come sia stata gestita la decisione di «sigillare» - si fa per dire - la Lombardia e 14 province dove si sono registrati focolai dell'influenza cinese. Nelle ore più buie, quando si devono assumere decisioni gravi, un esecutivo agisce con determinazione, evitando di lasciare trapelare le informazioni prima di averle messe in atto. Invece in questo caso, l'annuncio del decreto di Palazzo Chigi è circolato per un giorno intero e le persone che - per paura o per stupidità - volevano sottrarsi alla quarantena hanno potuto fuggire altrove, contribuendo con molta probabilità ad allargare l'area del contagio. In pratica, le esitazioni hanno contribuito a centinaia se non a migliaia di potenziali untori di andare a infettare altre centinaia se non migliaia di persone. Lo so che è brutto da dirsi, ma se si deve fermare il virus bisogna prima di tutto fermare chi è un portatore sano o meno del virus. È la cruda realtà, piaccia o non piaccia. Noi invece abbiamo sentito politici dire che il coronavirus non era altro che un'influenza un po' più aggressiva di quelle che ci colpiscono ogni anno. Per alcuni, e non farò i nomi per carità di patria e per evitare di infierire sulla scelleratezza delle frasi rilasciate, le persone dovevano continuare a fare la vita di sempre, prendendo al massimo qualche leggera precauzione tipo lavarsi le mani. La vita sociale - secondo questi signori - doveva continuare, perché la malattia non ci doveva spaventare più di tanto né doveva costringerci a rinunciare alle nostre abitudini. «I numeri del coronavirus sono poco superiori a quelli dell'influenza stagionale» decretava infine la dottoressa Maria Rita Gismondo, direttrice del reparto di virologia dell'ospedale Sacco di Milano. Una minimizzazione che ha suscitato le ire di Roberto Burioni, altro virologo che certo non ha la dote della simpatia, ma di sicuro ha il vantaggio di parlare chiaro.Sì, molti politici, giornalisti ed esperti hanno contribuito a fare sì che, come documentato da alcuni sondaggi, l'allarme per l'epidemia fosse ritenuto ingiustificato, se non esagerato, dalla maggioranza degli italiani. Per i rilevatori di Emg Acqua, società specializzata nelle ricerche di mercato, il 43 per cento degli italiani fino a pochi giorni fa era spaventato, ma per il 51 la paura era da ritenersi eccessiva.Il risultato è che la gente ha continuato a riunirsi, ad andare nei locali, ad accalcarsi intorno alle funivie e nelle vie della movida. A quasi venti giorni dal ricovero del cosiddetto paziente zero a Codogno, i contagiati sono 7.375, i morti 366 e i ricoverati in terapia intensiva oltre 500. L'epidemia insomma continua a crescere con numeri impressionanti.Come i lettori sanno, non sono un estimatore di Matteo Renzi, ma pur sapendo che il fondatore di Italia viva quando fa una proposta cerca spesso visibilità, non posso che appoggiare una sua idea: affidare a Guido Bertolaso l'emergenza sanitaria dovuta al coronavirus. L'ex commissario della Protezione civile non è un virologo e neppure un medico, ma è un uomo a cui non manca la determinazione. Qualche giorno fa avevo sollecitato il governo ad affidare pieni poteri a un commissario straordinario. Ci vuole una figura che non cincischi, che non debba contrattare un decreto legge per 24 o 48 ore con regioni e ministri. E che nemmeno debba rendere conto delle spese autorizzate per comprare i macchinari che servono per salvare vite umane. Non è ora di aste al minimo o al massimo ribasso e nemmeno di concorsi per assumere personale. È l'ora delle decisioni. E le decisioni non le può assumere un presidente di coccio come Giuseppe Conte.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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