2019-09-24
Ma perché 2 milioni pesano meno di 30.000 euro?
Per la serie come è strana la vita e come è strano il mondo dell'informazione, vi segnaliamo un caso che ha colpito la nostra attenzione. Come tutti sapranno, mesi fa i giornali ci inondarono di fiumi di articoli dedicati alla vicenda del sottosegretario alle infrastrutture e ai trasporti, il leghista Armando Siri. Il suddetto era incappato in un'inchiesta della Procura di Roma, accusato di aver frequentato un tizio (...)(...) molto interessato alle energie alternative e di aver accettato da questo signore un «regalino» da 30.000 euro. Siri finì indagato e la stampa si scatenò, riuscendo addirittura a inventarsi un «virgolettato» che non si è mai trovato nelle registrazioni dei pm. Secondo Repubblica e compagni, un imprenditore assai vicino a gente in affari con la mafia avrebbe confessato al figlio, senza sapere di essere ascoltato dagli investigatori, che Siri gli era costato 30.000 cucuzze. Il caso, oltre a finire in prima pagina, finì anche in Parlamento e a nulla valse la notizia che l'intercettazione era farlocca, cioè inventata, perché alla fine il sottosegretario fu revocato dall'incarico.Si dirà, la stampa non fa sconti a nessuno: quando si finisce nel tritacarne dei cronisti giudiziari non ci si salva e, se si è innocenti, al massimo si può sperare prima o poi di veder riabilitata la propria immagine. Al momento su Siri pende ancora il giudizio e dunque non si può giurare che sia immacolato come un giglio, anche perché sul suo capo si sono abbattute altre indagini, una delle quali per aver ottenuto un mutuo. Per i giornaloni ottenere un finanziamento se non si è ricchi in proprio è già indice di sospetto e così, nel caso dell'ex sottosegretario, dopo un articolo è seguito l'avviso di garanzia, perché oltre ai cronisti anche i pm hanno deciso di veder chiaro nel prestito immobiliare. Fin qui Siri, su cui - dicevamo - vedremo in futuro che cosa resterà dell'impianto accusatorio. Ma ora veniamo ad un altro caso, che dovrebbe appassionare i segugi del circo mediatico. Il caso Open, ovvero l'inchiesta aperta dalla Procura di Firenze che ha portato all'iscrizione nel registro degli indagati di Alberto Bianchi, eminenza grigia del Giglio magico, e Patrizio Donnini, un uomo che con la sua Dot media sponsorizzò gli inizi di Matteo Renzi. L'indagine della magistratura che vede al centro la società da cui è partito il potere renziano ruota intorno a parcelle milionarie, quelle pagate da un gruppo imprenditoriale attivo nel settore delle costruzioni, delle autostrade e dell'energia. Due milioni pagati per l'assistenza legale in una causa da decine di milioni. Soldi che in parte finirono allo studio dell'avvocato Bianchi e in parte - a quanto pare - a Bianchi stesso, il quale versò il denaro ricevuto direttamente nella fondazione Open, che poi - come è noto - è quella che ha organizzato le Leopolde, ossia le kermesse dell'ex segretario del Pd. Non solo: nella faccenda entrerebbe anche l'acquisto da parte del noto gruppo nel settore di autostrade, costruzioni ed energia, di alcune società comprate in precedenza da Patrizio Donnini, ossia dall'editore vicino a Renzi, con una plusvalenza per l'uomo delle campagne elettorali del futuro presidente del Consiglio di 950.000 euro. Le accuse dei pm sono piuttosto gravi, perché nel caso dell'avvocato Bianchi si parla di traffico di influenze illecite, ossia di un'influenza esercitata fuori dai canoni della professione legale. Mentre per Donnini si parla di appropriazione indebita e autoriciclaggio, non proprio robetta da niente.Naturalmente sia per Alberto Bianchi che per Donnini le accuse vanno provate e per ora siamo nel campo delle indagini, che per arrivare a un eventuale processo dovranno essere suffragate da prove, cioè dalla dimostrazione che quei soldi non siano frutto di una regolare consulenza legale o di una normale vendita, ma di qualche cosa d'altro, magari di un emendamento che all'improvviso ha fatto ancor più ricco il gruppo imprenditoriale. E tuttavia anche con Siri le accuse restano da provare. Però nel caso dell'ex sottosegretario leghista non ci sono state la prudenza e il garantismo che osserviamo ora con Bianchi e Donnini, i due gigli renziani. Per Siri infatti è stato schierato l'esercito dei cronisti giudiziari e i titoli sono comparsi a tutta pagina sotto la testata di Repubblica e del Corriere. Il caso è stato seguito con perseveranza, senza trascurare alcun dettaglio, perché con l'ex sottosegretario alle Infrastrutture c'era in ballo la bella cifra di 30.000 euro, una somma che - a dar retta alle intercettazioni - Siri volendo avrebbe potuto guadagnare in un secondo.Nel caso Bianchi-Donnini, dove in ballo ci sono milioni, invece no, l'interesse dei cronisti e dei loro direttori non c'è. Siccome c'è di mezzo un grosso affare immobiliare e un'ancor più grossa spesa a carico dello Stato, segugi giudiziari e giornali si fanno prudenti. Molto prudenti. Talmente prudenti che la notizia nella maggior parte dei casi non è mai arrivata in prima pagina e poi, all'improvviso, è sparita anche da quelle interne. La vita certo è strana. Ma ancor di più lo è l'informazione.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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