2022-01-30
Dubbi leghisti, veleni giallorossi. Draghi affonda nel governo-pantano
Giancarlo Giorgetti evoca le dimissioni, poi vede il premier con Matteo Salvini: «Serve una fase nuova». Tra le scorie post Colle ci sono anche i dissapori tra dem e M5s. E Mr Bce, ora prigioniero a Palazzo Chigi, pianifica la fuga in Europa.«Io via? È un’ipotesi». Per larga parte della giornata di ieri, l’eco della battuta amara di Giancarlo Giorgetti è stata assordante, e ha lasciato presagire conseguenze traumatiche anche all’interno della compagine di governo. E sempre ieri, Giorgetti, lungi dallo smentire, ha aggiunto a chiare lettere che «serve una nuova fase dell’esecutivo per affrontare quest’anno». Poco dopo, lui stesso e Matteo Salvini hanno formalmente chiesto un incontro al premier. È evidente che la Lega, che già da mesi soffriva molte scelte del governo, ora ha il dovere e l’esigenza di aprire una vertenza politica, di chiedere una svolta profonda sui punti chiave del programma di governo. Altrimenti, i prossimi mesi diverrebbero un’autolesionistica donazione di sangue per il Carroccio. Inutile girarci intorno. La vicenda del Quirinale ha messo in circolo veleni ovunque, in tre direzioni: prima all’interno di ciascun partito, poi tra partiti teoricamente alleati, e infine all’interno di una squadra di governo in cui tutti sono momentaneamente costretti a rimanere insieme, ma nessuno si fida più di nessuno. Si pensi solo al rapporto tra Enrico Letta e Giuseppe Conte dopo il lancio contestatissimo, l’altra sera, della candidatura di Elisabetta Belloni, secondo uno schema che vedeva di nuovo convergenti M5S e Lega. Dentro il Pd, sono bastate poche decine di minuti per scatenare l’inferno davanti a questa prospettiva. Per sovrammercato, non è certo una buona notizia per molti nemmeno il rafforzamento oggettivo dei due ministri più contestati del governo, eppure da sempre considerati più vicini a Sergio Mattarella, e cioè Roberto Speranza e Luciana Lamorgese. Destino curioso, il loro: più hanno fatto danni, e più diventano inamovibili.A ritroso, molti problemi nascono dalle stesse modalità con cui Mario Draghi e lo stesso Mattarella, un anno fa, composero la squadra ministeriale, selezionando correnti e profili all’interno dei diversi partiti, e non di rado insidiando il ruolo dei leader, o comunque alimentando sospetti. La cattiva performance del governo ha fatto il resto. La gestione pandemica è stata catastrofica, in totale continuità, attraverso la figura di Speranza, con la linea ultrachiusurista del precedente esecutivo Conte. Su questo tema decisivo, la delegazione ministeriale leghista ha spesso deluso le aspettative della base del partito, e, facendo sponda con i governatori, è parsa più sensibile alla linea di Speranza che a quella di Salvini. I ministri di Forza Italia hanno fatto ancora peggio, offrendosi come sostenitori entusiasti delle politiche del ministro della Salute. Discorso analogo per la performance economica dell’esecutivo: la legge di bilancio è stata deludente, con tagli di tasse omeopatici, impercettibili per l’economia reale, e un assurdo rifinanziamento del reddito di cittadinanza. Proprio Draghi è il primo a essere ben consapevole di questo bilancio tutt’altro che lusinghiero, e non a caso - dalla famigerata conferenza stampa del 22 dicembre - ha tentato di tutto pur di lasciare Palazzo Chigi. Anche perché l’ex governatore Bce sa che il 2022 sarà un anno durissimo. Altro che «ripresa» e «Italia locomotiva», come va raccontando qualche ministro in costante training autogeno: le previsioni di crescita del Pil rischiano di rattrappirsi e il prezzo pagato dalle piccole imprese al lockdown strisciante in corso è devastante, in termini di chiusure. Per non dire dei rincari e dell’inflazione, destinati ad accompagnarci molto a lungo. Draghi sa bene - anche politicamente - che la stessa legislatura è esaurita, o addirittura esausta, e che ogni dossier politico sarà solo fonte di divisioni e polemiche pre elettorali. Primo esempio? Nelle prossime settimane ci saranno da convertire tre decreti legge (quelli del 24 e del 29 dicembre e quello del 5 gennaio) sulla gestione pandemica: e la maggioranza non potrà che litigare sull’alleggerimento (da alcuni sollecitato, da altri osteggiato) delle misure di restrizione. Secondo esempio: a fine febbraio arriva nell’Aula della Camera la delega fiscale, con la vera e propria bomba a orologeria della riforma del catasto (che porterebbe con sé, dal 2026, un probabilissimo aumento di un’imposizione fiscale sugli immobili già devastante). Anche su quello una lacerazione sarà inevitabile. Terzo esempio: in primavera si intensificherà ulteriormente il via vai di navi di immigrati: come potrà la Lega continuare a subire la linea lassista della Lamorgese? Tutto ciò farà del governo un luogo di conflitti oppure (nella meno traumatica delle ipotesi) di mediazioni al ribasso. Altro che decisionismo. Al massimo, Draghi potrà cercare di salvaguardare la sua immagine con qualche atto d’imperio, con qualche decreto «forte» da pompare sui media: ma eventuali colpi di mano di questo tipo non potranno che innescare ulteriori fibrillazioni. E allora? Draghi cerca una exit strategy. La prima opportunità sarebbe salire su un treno europeo: magari ottenendo la presidenza del Consiglio, oggi occupata dal belga Charles Michel, e in prospettiva mettendosi in pole position per la successione a Ursula von der Leyen nel 2024. Altrimenti, se l’operazione non riuscisse? In un quadro di pericolosa riproporzionalizzazione della legge elettorale, il premier potrebbe sperare, nel 2023, in un sostanziale pareggio (o in una non vittoria di uno dei due schieramenti), il che riaprirebbe la strada a un ennesimo esecutivo ibrido. Ma questa - come ognuno comprende - non sarebbe una exit strategy, bensì il tempo supplementare di una stagione da dimenticare. Amarissima per gli italiani, e ora venuta a noia allo stesso Draghi.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)