
Il cantante Drupi: «Un giornale nazionale scrisse che il Papa, Walesa e io avevamo liberato il Paese. Non ho tradito gli amici dell’adolescenza e nemmeno il grande amore per la pesca. A ottobre esce il mio primo film da attore».Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia da quegli anni Settanta del Novecento quando Gianpiero Anelli, in arte Drupi, a Pavia, che scommise sulla musica suonando di sera nelle balere con il gruppo Le calamite e poi di giorno tornava a svolgere il suo lavoro di idraulico, divenne cantante di successo partecipando a otto Sanremo - giungendo 3° a quello del 1982 con Soli - vendendo 15 milioni di dischi e totalizzando 14 dischi d’oro. Cresciuto in un quartiere operaio, il suo stile è sempre stato moderato, poco incline ai presenzialismi tv. Ha surclassato le contestazioni sociali di quell’epoca, preferendo la poetica del «piccolo è bello», del fascino degli amori di provincia, fuori dai grandi clamori, con le relative implicazioni. Il suo sentimento per Dorina, sua moglie, nacque allora e continua felicemente. Quest’anno è il 50° di Piccola e fragile, e sta realizzando un tour nei teatri italiani («abbiamo varie prossime date, a Pavia, Schio, Roma…») ma anche esteri, soprattutto in Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia.Fioccarono inviti da tutto il mondo per tue esibizioni. In Polonia, allora Paese comunista, continuano ad amarti. «Mi obbligano a parlare in italiano, sarò lì in novembre. Ero andato oltre la musica, mi avevano visto come un simbolo di libertà. Un giornale polacco, nel titolo, scrisse “Wojtyla, Walesa e Drupi hanno liberato la Polonia”». Pure l’attore ti sei messo a fare. Il 15 ottobre 2025 uscirà nelle sale il film Alcooltest, regia di Stefano Usardi, girato in provincia di Belluno… «Sì, tutto vero, sulla storia del film non posso anticipare molto. Anche perché è un po’ complicatina. Comunque, a grandi linee, si tratta di un cantante degli anni Settanta che non riesce a staccarsi da quel periodo e vive in una barca, non nel mare, ma in un prato, poi ha delle figlie in giro. Alla fine rinuncia all’ultima occasione che la musica gli dava…». Qualche richiamo alla tua biografia?«No, direi di no, l’unica cosa è che io sono un cantante degli anni Settanta ma per fortuna non sono rimasto ancorato a quel periodo…».Tuttavia il fatto della barca può ricordare il nome della barca sul Ticino, Samba a Rio, da cui hai tratto ispirazione per Sambariò…«Può darsi che era giusta per quello spunto, adesso che me lo dici, non ci avevo pensato…».Corrisponde al vero che sei protagonista di questo film?«Abbastanza, diciamo di sì».A cosa si riferisce il titolo?«In pratica è una svolta del film, quando non io, ma un’altra persona, vicina a quella che potrebbe essere mia figlia, è fermata dai poliziotti e fa l’alcool-test, una svolta sulla trama…. L’abbiamo girato nell’agosto 2024». È stata la tua prima esperienza nel cinema?«È stata la prima volta. Avevo avuto due-tre proposte ma le ho rifiutate perché mi sembrava di non essere adeguato. Invece, a questo giro, è venuto bene, diciamo che sono stato bravo».Come ti sei trovato nei panni di attore?«È stato tutto facile perché Stefano non mi ha imposto il copione, nelle scene dicevo le cose con le mie parole, quelle di un cantante degli anni Settanta. Primo, perché mi sembrava che le battute del copione non fossero adatte a un cantante degli anni Settanta, ma soprattutto perché non riuscivo a impararlo a memoria. La cosa è piaciuta al regista che mi ha detto “fai pure come ti senti, l’importante è che manteniamo il succo della storia…”». Vai ancora a pesca, a Pavia, sulla riva del fiume?«Certo, un po’ meno di prima, perché ho deciso di non fare più le gare, portano via troppo tempo, un macello, sempre più affollate ma, guai, senza pesca non potrei vivere. Sto nel mio angolo, in tranquillità…».In solitaria o con amici?«Ambedue le cose, qualche volta con un amico o due, molte volte da solo… È una cosa molto rilassante, sentire la natura… Adesso uso un nuovo tipo di canna, la Roubaisienne, un modo di pescare particolare, poi ci sono anche tecniche inglesi…». Andiamo a un tuo album del 1978, Provincia. Un verso del brano E così cominciò, fa: «Il cortile grande sotto casa mia / era tutto per me. / Sai che io non sono mica nato re / ma sono qualcosa per te». Un archetipo. Spesso le donne chiedono agli uomini più apparenza che valori antichi. «Per fortuna non tutte le donne son così. Ce ne sono ancora in giro che hanno scoperto, scoprono o amano questo tipo di valori che amo io. Tant’è che ne ho trovata una con cui sono assieme da 50 anni. Almeno una per me è esistita. Quando sei giovane cerchi avventure, e probabilmente è così anche per loro, per uscire da certe monotonie…».Sì. «…Ma ci sono anche uomini con valori. Io ho scelto il successo, ma non quello che mi porta via l’anima. Ho sempre cantato, suonato, senza mai diventare divo, farmi comprare totalmente dal successo. Molta musica e pochissimo gossip. Del gossip non me ne ha mai fregato niente».Oggi pare prevalere l’omologazione. Che rimane di quelle comunità nei paesi di provincia o nei quartieri delle città? «Temo che, purtroppo, rimanga molto poco perché ormai questa omologazione, come la chiami tu, il senso delle compagnie, del quartiere, del vicinato, si sta perdendo. Nelle città non sai chi è il tuo vicino, insomma…».Le piattaforme social rovinano la vita? «Se usate con la testa possono essere una cosa formidabile perché trovi tutto, puoi contattare tutti. Se, come fanno tanti, fuori di testa, sei tutto il giorno lì a guardare se aumentano o diminuiscono i follower, con questa ansia addosso, allora un po’ ti rovinano la vita...». Gli unici amici di Giulio Andreotti sono sempre stati i suoi ex-compagni di ginnasio. Sono i sodali della giovinezza a dare certezze? «Più che certezze sono sicurezze, perché anche lì la certezza assoluta non ce l’hai mai… Ma questi rapporti che crei dall’adolescenza a me danno un senso di sicurezza, anche ritrovare un vecchio amico…».Ma vedi ancora qualche tuo amico di quelli storici?«Assolutamente sì, abito a Pavia, che è un paesone, ci si conosce tutti, il bar, la vita del bar che non faccio più come una volta, non perché ho avuto successo ma perché ho anche altro da fare. Ma ho gli stessi amici che venivano con me allora, quegli amici che non ti hanno mai chiesto niente se non il fatto di continuare a esserlo…». C’è qualcuno di essi che ti piace ricordare? «Sì, ce n’è uno, poi altri due-tre, me li tengo ben cari, uno purtroppo se n’è andato, non lavoriamo assieme, non abbiamo nessun tipo di interessi se non quello di star bene assieme. Ora sono in pensione, sono i vecchi amici, uno faceva l’idraulico, un altro il muratore, qualche operaio. È il mio brodo, quello dove sono cresciuto…».Al bar eri uno che giocava a flipper?«No, io giocavo a carte. A scopa e scopone, di sera, e a volte finiva con il tirarci le carte in faccia!».Cosa rimpiangi di più del modo di vivere negli anni Sessanta e Settanta? «Il contatto nel quartiere, queste cose. Avevo una nonna che pesava oltre 120 chili e non riusciva a scendere, le vicine mi mandavano a chiamare, era tutta una tribù, un gruppo, queste cose mancano».Parecchio. «Noi abitavamo in un rione che chiamavano “Quartiere Giallo”. Dicevano che fosse pericoloso perché abitavamo noi poveri e i genitori lavoravano alla Viscosa… Ma se vado a guardare bene era il “piccolo mondo antico”. Di notte, ci si dimenticava di chiudere la porta… Anche perché non c’era niente da rubare».Come immagini l’Italia tra 100 anni?«Non riesco proprio a immaginarmela perché, con la confusione che regna adesso… Non lo so… ma, girando il mondo, ho imparato che gli italiani hanno sempre un jolly da giocare, chi sa perché ne usciamo sempre». In casa cucini tu, tua moglie, oppure assieme?«Purtroppo per lei, so fare al massimo un uovo al tegamino. Oltre non vado. Anzi mia moglie mi dice che è meglio se sto lontano dalla cucina… Dunque cucina lei ed è anche molto brava. Aiuto a sparecchiare».Il pesce che hai preso nel fiume lo cucinate?«Mai portato a casa un pesce. Sarebbe come uccidere un caro amico. Appena preso lo slamo e lo ributto. So che comunque soffre e poi ce n’è già poco… Già pescandolo gli rompi un po’ le palle… Almeno tenerlo vivo».Avete cani o gatti?«No, purtroppo c’è morto un gatto a 19 anni, due anni fa, Dori saranno 5-6 mesi che non piange più. Perciò non ne voglio più avere. Si chiamava Gasolio, perché quando l’ho portato a casa dall’Abruzzo puzzava come un diesel e poi quando faceva le fusa sembrava un motore, da qui il nome…». Di sera, per le strade di Pavia circola un po’ di gente? «Sì, ce n’è ancora. Però inizia un po’ di paura perché in certi angoli, anche se non siamo ancora a livello di Milano e altre città, insomma… Certi rioni è meglio forse evitarli, ma resta una cittadina tranquilla. La cosa non è ancora drammatica. Purtroppo temo che lo diventi». Il tuo ultimo disco, appena uscito, Facciamo la pace. «Facciamo la pace / L’uomo una volta ne era capace». «Adesso abbaiamo come cani alla luna». «Voglio con tutte le mie forze che si torni alla pace. Il finale dice “Facciamo la pace / facciamo la pace / perché ne abbiamo bisogno”. “Chiudiamolo in gabbia questo rapace / che aguzza gli artigli e copre il sole con le ali, / il sole che volevo dare ai miei figli”. È una canzone che avevo da un paio d’anni nel cassetto. Quando decisi di farla è scoppiata la guerra in Ucraina. Se la facevo sembrava fossi un paraculo. Ora ho deciso. La Radio Vaticana, ma non è ancora sicuro, ha manifestato un certo interesse per farla ascoltare…».
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





