
Nell'ultima conferenza in carica, il governatore della Bce resta vago sulla eventuale candidatura al Quirinale. Poi lascia i «compiti» a Christine Lagarde: tassi a zero e politiche espansive per molto tempo. Donald Trump bastona la Fed.«Chiedete a mia moglie». Mario Draghi chiude il mandato di presidente della Bce - sicuramente il più problematico da quando esiste l'Eurotower - e si affida all'ironia per raffreddare le inevitabili domande sul suo futuro, su cui si specula a giorni alterni. Soprattutto in Italia, dove le fibrillazioni del governo fanno continuamente ricorrere il suo nome. Nel caso in cui Palazzo Chigi dovesse avere bisogno di un inquilino in grado di impostare una manovra in tempi emergenziali, pensare a Draghi è facile quanto fuorviante, vista l'assoluta improbabilità che intenda «bruciarsi» con un simile incarico adesso. Semmai, nell'orizzonte c'è il Quirinale. E, con la battuta sulla consorte, il «festeggiato» non ha escluso nulla, con un laconico: «Davvero, non so», in risposta al quesito sulla possibilità di fare il presidente della Repubblica italiana dopo Sergio Mattarella.L'ultima conferenza dell'ex direttore generale del Tesoro è l'occasione, al netto di saluti, felicitazioni, assenza di rimpianti e belle parole per chi prenderà il suo posto, per una inevitabile rivendicazione di rispetto del mandato: che suona un po' straniante, visto che quello di Draghi è stato il percorso che passerà alla storia per il mix di fantasia, creatività, eterodossia ed equilibrio richiesto per «salvare l'euro», come si legge in qualunque suo ritratto. Dal «whatever it takes» del luglio 2012 al lungo percorso per sdoganare il Qe, gli otto anni di Draghi sono stati tutto meno che ordinari, contestazioni comprese (memorabile la reazione compostissima di fronte alla Femen che gli lanciava coriandoli in piedi sul suo tavolo nel 2015).Quanto all'euro, è una moneta che, ha tenuto a ribadire con l'ostinazione bizzarra che contraddistingue la dialettica sull'oggetto, «ormai tutti in Italia lo considerano irreversibile», accennando alla «conversione» del M5s e alla presunta svolta della stessa Lega (di cui, in verità, è lecito dubitare). Peraltro il «salvataggio» di una cosa «irreversibile» resta parte della mistica imperscrutabile con cui la narrazione giornalistica media si accosta a questi temi, ma tant'è.Visto che il presidente uscente ha stemperato in ogni modo le numerose domande della stampa internazionale sugli screzi apertisi nel board della Bce (specie da parte tedesca) in seguito al varo di nuove misure di sostegno ai titoli di Stato, ci ha pensato Donald Trump a mettere un po' di pepe alla giornata. Nelle ore in cui la Bce ha deciso di lasciare invariato il costo del denaro, il presidente Usa - da mesi protagonista di una gigantesca polemica con il capo della Federal reserve - ha twittato con evidente allusione a Francoforte: «La Fed viene meno ai suoi compiti se non abbassa i tassi e non stimola l'economia. Date un'occhiata in giro per il mondo, guardate i nostri competitor. La Germania e gli altri vengono PAGATI (maiuscoletto trumpiano nel testo, ndr) per prendere in prestito il denaro. La Fed è stata troppo rapida ad alzare (i tassi, ndr) e troppo lenta ad abbassarli».Con i consueti metodi spicci, il presidente Usa delinea un quadretto in cui Christine Lagarde, la quale peraltro proviene da un'istituzione basata a Washington, dovrà muoversi con non poche difficoltà, in un possibile scontro valutario mondiale allargato a Pechino. In Europa, poi, c'è un'inflazione che non vuol saperne di ripartire, malgrado le migliaia di miliardi pompate da Draghi nel sistema per tentare di avvicinarsi al 2%. Da questo punto di vista, al netto delle dichiarazioni ottimistiche, la conferenza ha restituito la sensazione di uno stallo di cui tutti hanno piena consapevolezza: quando, per l'ennesima volta, il presidente uscente ha invitato i governi che possono farlo a investire di più e a stimolare le economie, non ha forse implicitamente indicato a tutti che il problema dell'eurozona non è causato dal pericolo «populista» o «sovranista» che trama nell'ombra, quanto dagli squilibri intrinseci aggravati dalla resistenza politica tedesca a politiche più espansive?Secondo problema: l'eventualità di una recessione non è remota. La scarsa crescita in atto è stata usata da Draghi come prova indiretta della lungimiranza del pacchetto di aiuti varato a inizio anno, che ha raffreddato inesorabilmente gli spread: alla luce degli ultimi dati macroeconomici, ha detto, «la nostra determinazione ad agire è stata giustificata». Resta il fatto che proprio il rallentamento è tuttora il rischio da temere di più: «Da esso dipendono ovviamente l'andamento dell'occupazione e dell'attività economica e la stabilità finanziaria, ma anche le aspettative di inflazione». La domanda latente è: in caso di gelata globale, che strumenti avrà la Bce con i tassi già azzerati?«Never give up», («mai molare» o qualcosa del genere) è la consegna che Draghi fa alla Lagarde, trasferendo la convinzione, forse l'obbligo, che politiche espansive debbano proseguire anche con il mandato dell'ex ministro francese all'Eurotower. Basterà? La poltrona che eredita è il fulcro di uno degli snodi cruciali del nostro tempo: quello della legittimazione in assenza di controllo democratico in un punto chiave, perché ben più pesante della politica. Di quanto protagonismo avrà bisogno chi su quella poltrona si siede? In quali e quanti «salvataggi» dovrà impegnarsi? Sarà questo il grande quesito dei prossimi otto anni.
Massimo Doris (Imagoeconomica)
Secondo la sinistra, Tajani sarebbe contrario alla tassa sulle banche perché Fininvest detiene il 30% del capitale della società. Ma Doris attacca: «Le critiche? Ridicole». Intanto l’utile netto cresce dell’8% nei primi nove mesi, si va verso un 2025 da record.
Nessun cortocircuito tra Forza Italia e Banca Mediolanum a proposito della tassa sugli extraprofitti. Massimo Doris, amministratore delegato del gruppo, coglie l’occasione dei conti al 30 settembre per fare chiarezza. «Le critiche sono ridicole», dice, parlando più ai mercati che alla politica. Seguendo l’esempio del padre Ennio si tiene lontano dal teatrino romano. Spiega: «L’anno scorso abbiamo pagato circa 740 milioni di dividendi complessivi, e Fininvest ha portato a casa quasi 240 milioni. Forza Italia terrebbe in piedi la polemica solo per evitare che la famiglia Berlusconi incassi qualche milione in meno? Ho qualche dubbio».
Giovanni Pitruzzella (Ansa)
Il giudice della Consulta Giovanni Pitruzzella: «Non c’è un popolo europeo: la politica democratica resta ancorata alla dimensione nazionale. L’Unione deve prendere sul serio i problemi urgenti, anche quando urtano il pensiero dominante».
Due anni fa il professor Giovanni Pitruzzella, già presidente dell’Autorià garante della concorrenza e del mercato e membro della Corte di giustizia dell’Unione europea, è stato designato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica. Ha accettato questo lungo colloquio con La Verità a margine di una lezione tenuta al convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, dal titolo «Il problema della democrazia europea».
Ansa
Maurizio Marrone, assessore alla casa della Regione Piemonte in quota Fdi, ricorda che esiste una legge a tutela degli italiani nei bandi. Ma Avs la vuole disapplicare.
In Italia non è possibile dare più case agli italiani. Non appena qualcuno prova a farlo, subito si scatena una opposizione feroce, politici, avvocati, attivisti e media si mobilitano gridando alla discriminazione. Decisamente emblematico quello che sta avvenendo in Piemonte in queste ore. Una donna algerina sposata con un italiano si è vista negare una casa popolare perché non ha un lavoro regolare. Supportata dall’Asgi, associazione di avvocati di area sorosiana sempre in prima fila nelle battaglie pro immigrazione, la donna si è rivolta al tribunale di Torino che la ha dato ragione disapplicando la legge e ridandole la casa. Ora la palla passa alla Corte costituzionale, che dovrà decidere sulla legittimità delle norme abitative piemontesi.
Henry Winkler (Getty Images)
In onda dal 9 novembre su History Channel, la serie condotta da Henry Winkler riscopre con ironia le stranezze e gli errori del passato: giochi pericolosi, pubblicità assurde e invenzioni folli che mostrano quanto poco, in fondo, l’uomo sia cambiato.
Il tono è lontano da quello accademico che, di norma, definisce il documentario. Non perché manchi una parte di divulgazione o il tentativo di informare chi stia seduto a guardare, ma perché Una storia pericolosa (in onda dalle 21.30 di domenica 9 novembre su History Channel, ai canali 118 e 409 di Sky) riesce a trovare una sua leggerezza: un'ironia sottile, che permetta di guardare al passato senza eccessivo spirito critico, solo con lo sguardo e il disincanto di chi, oggi, abbia consapevolezze che all'epoca non potevano esistere.






