2021-12-25
Dottori: «Con la Francia al fianco siamo più allineati ai Paesi del Golfo Persico»
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Germano Dottori, Consigliere d'Amministrazione della Fondazione Med-Or
Il Mediterraneo sta diventando un'area sempre più delicata, su cui le influenze di Russia, Turchia e Francia si stanno progressivamente rafforzando. Quali sono dunque i rischi e le opportunità per l'Italia in questo complicato quadro? Per cercare di capirlo, La Verità ha deciso di intervistare Germano Dottori, Consigliere d'Amministrazione della Fondazione Med-Or.Germano Dottori, mi racconta le attività che state svolgendo e che avete intenzione di svolgere con la Fondazione Med-Or?«La Fondazione Med-Or è nata con l’idea di svolgere un servizio di pubblica utilità, in favore dell’interesse nazionale a diffondere stabilità, creare opportunità di sviluppo e gestire fenomeni epocali come i flussi migratori che dalle profondità dell’Africa e dai teatri di crisi si riversano verso l’Italia e l’Europa. Si tratta di condurre un’attività diplomatica informale, che è peraltro assistita da una significativa capacità di analisi e dalla costruzione di opportunità di dialogo con i paesi di un’area vastissima, che va dal Marocco all’India. Non si tratta soltanto di politica ed economia. Esiste anche una importante dimensione culturale, alla quale contribuiscono numerosi atenei italiani, che hanno accettato di esser presenti nel Consiglio Scientifico della Fondazione, e persino forme di cooperazione sanitaria. C’è molto ottimismo e tanta voglia di fare».Qual è lo stato di salute oggi della Fratellanza musulmana in Nord Africa (a partire dalla Libia)? Quali sono i rischi – se ci sono – che questo gruppo pone alla stabilità politica in quell’area?«La Fratellanza Musulmana ha perso molta forza dopo la caduta del Presidente Morsi in Egitto e il quadriennio di Trump alla Casa Bianca. Il trend declinante sembra persistere, se si osserva quanto è accaduto recentemente in Marocco, dove è cambiato il Governo, e in Tunisia, paese in cui i laici hanno recuperato il controllo della situazione, seppure tramite una forzatura dell’ordine costituzionale».Come è cambiato, con Joe Biden, l'approccio statunitense al quadrante mediterraneo?«Gli Stati Uniti proseguono il loro percorso sulla via del disimpegno dalla regione, in realtà iniziato 13 anni fa. Non c’è soluzione di continuità. Dopo l’Afghanistan, sarà presumibilmente la volta dell’Iraq, in un anno in cui l’Italia assume in quel paese importanti responsabilità politico-militari. Ovviamente, si registrano effetti significativi: in seguito al ripiegamento degli americani dal Mar Mediterraneo, si è infatti aperto un vuoto, che ha determinato l’innesco di una competizione piuttosto serrata per colmarlo. Coltivano ambizioni potenze come la Francia e la Turchia, ma anche paesi esterni all’area, come la Russia. La stessa Gran Bretagna si è riaffacciata nel bacino con il Carrier Strike Group 21 guidato dalla nuova portaerei Queen Elizabeth, che si è esercitata tanto con la Marina francese quanto con la nostra. La spinta verso l’Indo-Pacifico che avverte anche Londra accresce l’importanza del Mediterraneo per il Regno Unito». Ritiene che la Francia possa rivelarsi oggi un partner affidabile per l’Italia nello scacchiere libico? Per quale ragione?«È un punto interrogativo. Finora la diplomazia italiana ha cercato faticosamente un equilibrio tra la volontà di non urtare eccessivamente la Turchia, fonte di importanti commesse per le nostre imprese, e quella di appoggiarci alla Francia sia per contare di più in Europa che per contenere le ambizioni di Ankara. Con il Trattato del Quirinale, apparentemente si è usciti da questo schema. Se ce lo chiederanno, forniremo ai francesi anche l’accesso alle nostre basi militari, particolarmente preziose per proiettare potenza verso il Mediterraneo Orientale e tutto il Medio Oriente. Probabilmente, diventeremo più organici al format East-Med, che ormai congiunge la Grecia ai paesi del Golfo Persico che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo. Abbiamo fatto una netta scelta di campo. Vedremo se in futuro questa relazione rimarrà esclusiva oppure cercheremo di affiancarle rapporti di portata paragonabile con altri Paesi come la Germania e la stessa Gran Bretagna».Nei mesi passati, il governo Draghi ha intrattenuto dei rapporti piuttosto burrascosi con la Turchia e la Russia. Come giudichi lo stato di questi rapporti oggi? Che cosa dovrebbe fare Roma in futuro nelle sue relazioni con Mosca ed Ankara?«La firma del Trattato del Quirinale nasce anche da queste premesse. La definizione dei rapporti con la Russia e la Turchia da parte italiana non può prescindere dagli orientamenti prevalenti a Washington. E gli Stati Uniti di Biden non sono quelli di Trump. È molto probabile che alla fine la crisi in atto al confine russo-ucraino rientri, ma a quanto accade non è estraneo un clima che si è creato. I russi vorrebbero un accordo di sistema basato sul riconoscimento del loro diritto alla sicurezza nazionale e ad una propria sfera d’influenza, cose che ritengono intimamente legate. Queste istanze sono però estranee al vocabolario dei progressisti americani, per i quali costituiscono anatema. Le parti si parleranno, ma ben difficilmente si accorderanno su qualcosa che sia più rilevante di qualche misura aggiuntiva per la costruzione della fiducia reciproca. Quanto alla Turchia, suggerisco di osservare quanto accade sul mercato dei cambi. La lira turca è in grandissima difficoltà».Quali sono le implicazioni della crisi ucraina per la relazione tra Putin ed Erdogan? «Per ragioni storiche e geopolitiche, la partnership russo-turca è tendenzialmente dominata dalla rivalità strategica. L’impero russo e quello ottomano si sono frequentemente combattuti ed anche nel corso della Guerra Fredda Mosca ed Ankara si sono trovate su sponde opposte. Occasionalmente, sono certamente possibili intese tattiche. Ne abbiamo viste tante. Ma i fondamentali raccontano un’altra storia. E il capitolo ucraino ne è un capitolo. La Siria e la Libia ne sono altri. Per loro cultura, peraltro, russi e turchi tendono a regolare le loro divergenze tramite la logica realista della prova di forza e successiva compensazione degli interessi. Si tratta inoltre di potenze dal comportamento disinvolto. Per questo, si ha a volte l’impressione che cooperino. Non è così. O meglio, non è così più quanto lo fosse tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dalla fine della Seconda guerra mondiale al crollo del Muro di Berlino. Mosca e Washington competevano, ma di fatto cooperavano al mantenimento della sicurezza globale. Allo stesso modo, Russia e Turchia si tirano calci sotto il tavolo, senza tuttavia permettere agli attriti di superare una soglia critica che le danneggerebbe entrambe».